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L’aborto e il chiodo fisso – di Domenico Galbiati

Che piova o tiri vento, Macron, tra un grattacapo e l’altro, non può fare a meno d’impiccarsi al tema dell’aborto, che sembra essere la cifra distintiva del suo pensiero, un motivo talmente sostanziale della sua visione da presiedere ad ogni altra prospettiva che pur concerna il destino del mondo, il quale, in fondo e non e’ cosa da poco, costituisce il tema del G7. In omaggio alla “Republique” ed alla ”laicite’” che la “figlia prediletta della Chiesa” concepisce come sua rivoluzionaria, illuminata ed illuminante, irrevocabile conquista.

E non a torto, purché si intenda correttamente la cosa, senza intripparsi in un bozzolo ideologico. Questa volta il “toy boy”, come lo chiama “Dagospia”, ci mette un po’ anche la stizza che ancora non ha smaltito dopo la sonora batosta di domenica scorsa e fors’anche – come adombra Giorgia Meloni – al diritto all’aborto appende anche la speranza di una rivincita elettorale da giocare nel breve volgere di un paio di settimane.

Dopo aver messo in chiaro – e qui la sintonia con Giorgia non manca – che, qualunque sia il responso popolare, per quanto l’intero equilibrio politico del loro Paese sia in gioco, per i nostri cugini d’oltralpe, in ogni caso, l’Eliseo resta così com’è, più o meno saldo purché nelle mani del suo attuale inquilino. “Noli me tangere” “Hic manebimus optime”.

Sulla presunzione di considerare la facoltà di interrompere la gravidanza come un nudo e crudo, insindacabile diritto della donna, fino al punto di farne addirittura un tratto necessario e distintivo della femminilità, su queste pagine si è già detto molto, in più occasioni. E ci torneremo, rilevando, per ora, come il Presidente Macron, in definitiva, non abbia torto, ovviamente, per quanto ci riguarda, osservando l’ argomento da una posizione diametralmente opposta alla sua, stando, peraltro, ben attenti a non cadere nella spirale di un pensiero ossessivo, come sembra a lui stia succedendo.

In altri termini, Macron sembra aver compreso o intuito d’ istinto come, soprattutto in una fase storica talmente densa, le categorie interpretative di cui abbiamo bisogno per cercare di riprendere il controllo degli eventi, la stessa “questione democratica” di cui oggi ci si deve seriamente far carico e la “questione sociale” che l’ accompagna e ne fa tutt’ uno, hanno bisogno di essere ricondotte ad un forte e chiaro insediamento antropologico, anzi ad una fondazione, in senso proprio, ontologica.

Altrimenti, parliamo, parliamo senza sapere di che. Infatti, i ripetuti appelli ad un “nuovo umanesimo” che non ceda alla pervasività della tecnica, che sappia resistere alla temuta disumanizzazione di cui ci minaccerebbe l’IA, non avrebbero alcuna effettiva valenza, senza un riferimento valoriale puntuale e chiaro. Senonché, un tale fondamento non può insistere sul suolo friabile di una cultura individualista. Ha bisogno di essere sostenuto da un terreno solido e roccioso, da una concezione della persona intesa nel pieno valore della sua unica, irripetibile, irrevocabile soggettività e non come mero snodo di un ininterrotto flusso di percezioni che la attraversano senza lasciare traccia.

D’altra parte – considerazione conclusiva e più generale – che la parola “aborto” rischi di diventare, anche per il cattolico Biden, il termine “sine qua non” di un consesso internazionale della portata del G7 e della straordinaria rilevanza degli argomenti in discussione, rischia, francamente, di essere questione da paranoia.

Domenico Galbiati

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