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L’accordo con la Francia e il “triangolo” che rischia di non chiudersi con la Germania – Giancarlo Infante

Il 2021 si è concluso all’insegna di un forte irrobustimento – almeno formale – dei rapporti tra Italia e Francia, storicamente piuttosto delicati. Dopo trattative che sembra siano durate mesi, lo scorso 26 novembre, è stato solennemente firmato il cosiddetto “Trattato del Quirinale” (CLICCA QUI), titolo che sintetizza il più completo ” Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica francese per un cooperazione bilaterale rafforzata”.
A lungo questo accordo, dalla durata esplicitamente dichiarata indeterminata, è rimasto riservato e persino misterioso e la sua firma è giunta davvero quasi come fulmine a ciel sereno, non solo per il grosso della pubblica opinione, ma persino per gran parte dei parlamentari.
L’intesa franco italiana dovrebbe, secondo i suoi promotori, fare il paio con quella di Aquisgrana raggiunta nel febbraio del 2019 tra Francia e Germania, a firma Macron – Merkel, per rinverdire lo storico accordo del 1963 sottoscritto dal generale de Gaulle e dall’allora Cancelliere tedesco Adenauer. Secondo i cosiddetti “giornaloni” nostrani, il fine sarebbe quello di consacrare la nascita di una sorta di Direttorio dei “tre grandi” sull’intera UE, a questo punto mancherebbe solo un analogo trattato tra Roma e Berlino. Ma queste due capitali, finora, hanno sottoscritto solamente alcune più limitate convenzioni su temi specifici che riguardano questioni pratiche di comune interesse.
Così, qualcuno ha parlato di un triangolo “incompiuto” tra le tre nazioni più importanti tra le 27 che compongono l’Unione dopo l’abbandono da parte di quella che, fino al 21 gennaio del 2020, era stata la quarta “grande” europea: il Regno Unito, uscitosene a seguito della Brexit. Si tratta di vedere se questo “triangolo” la Germania avrà interesse a chiuderlo, e in che modo. Anzi, i dubbi al riguardo sono forti sia, in generale, in relazione all’idea dei Tedeschi su come si debba guidare lo sviluppo futuro della costruzione europea, sia per qualcosa di più impellente che incalza. Basta guardare alla cosiddetta transizione energetica e alle sue importanti appendici che riguardano l’uso dei fossili, in particolare del gas, e del nucleare su cui si prefigura, addirittura, uno scontro tra Germania, con i suoi alleati, da una parte, e Francia con altri alleati, dall’altra.
Il motivo attuale del contendere è costituito da un documento della Commissione europea con cui si propone di inserire tra le fonti di energia “verde” sia il nucleare, sia il gas, cosa che le renderebbe eligibili a ricevere gli ingenti finanziamenti previsti dalla politica “green” pienamente sposata dall’Unione europea.  Il documento ha già provocato le reazioni negative dei “verdi” tedeschi che non hanno mai abbandonato la loro posizione anti nuclearista. E ben sappiamo quanto essi siano fondamentali per l’esistenza del neonato governo appena nato a Berlino sotto la guida del socialdemocratico Scholz.
L’Italia finora è rimasta nel campo dei paesi non ufficialmente pronunciatisi in materia, anche se non è mancato chi tra i nostri politici ha autorevolmente parlato a favore della ripresa dell’opzione nucleare dopo la decisione successiva al tragico evento di Chernobyl che portò alla chiusura del nostro piano atomico.
Come tutti i Trattati, anche quello “del Quirinale” dovrà, allora, essere studiato attentamente prima dell’approvazione da parte del Parlamento. Cosa che sinora non sembra essere stato ritenuto opportuno fare. Soprattutto, si dovrà alla prova dei fatti, dimostrare quanto si tratti di un accordo paritario. O se, alla fine, potrebbe favorire, magari troppo, solo uno dei contendenti e finire per modificare quella linea seguita dal nostro Paese sempre restio ad assumere una posizione relativamente troppo compromettente nei confronti di alcuno.
L’Italia ne sa qualcosa dei guai che possono venire dagli accordi internazionali. Già prima di quelli rovesciati alla vigilia della Prima Guerra mondiale, vi fu il famoso Trattato di Uccialli rimasto nell’immaginario collettivo come uno dei più grossi equivoci diplomatici internazionali. Paradossalmente, invece che rafforzamento di un’amicizia tra due stati, divenne motivo dello scoppio di un conflitto armato tra il nostro paese e l’Etiopia del Negus Menelik. Guerra clamorosamente finita nella sonora ed amara sconfitta (5.000 italiani morti) di Adua, il primo marzo 1896.
In questo caso, non è mancato chi ha parlato di un regalo fatto alla Francia. Pur avendo più indizi che prove da esporre a tale riguardo, ma con la certezza che prima o poi qualche questione verrà fuori. In particolare, per quegli aspetti relativi alle relazioni con paesi terzi, o che riguardano aree geografiche extra-europee, che, come nel caso del Mediterraneo, per entrambi i paesi immediatamente prospicente, hanno più volte confermato l’esistenza di una politica e di una presenza divergenti, se non addirittura conflittuali. Libia docet.
Augurandosi che la futura esperienza non confermi mai più problematiche del genere con la Francia, il Trattato del Quirinale prevede comunque la possibilità di una disdetta avanzata per vie diplomatiche e con un termine di dodici mesi, c’è da chiedersi se l’accordo appena stipulato non sia da considerarsi soprattutto una mossa relativa al futuro del processo di sviluppo europeo.
Una chiave di lettura in tal senso viene da un altro atto altamente simbolico che Mario Draghi e il Presidente Macron hanno compiuto con la stesura congiunta di un intervento su The Financial Times di Londra e pubblicato sul sito della Presidenza del consiglio italiana il 23 dicembre scorso sia in versione inglese, sia italiana (CLICCA QUI). Il titolo è già di per sé eloquente: “Le regole di bilancio dell’Ue devono essere riformate se si vuole assicurare la ripresa”.
Si tratta di un messaggio che si potrebbe definire “anti sovranista”, ma anche diretto a rispondere ai cosiddetti “paesi frugali” del Nord Europa i quali,  fino all’esplosione continentale generalizzata della pandemia, hanno continuato ad occuparsi solamente di austerità e di debito pubblico. Draghi e Macron hanno, invece, parlato di investimenti da effettuare “su larga scala nella ricerca, nelle infrastrutture, nella digitalizzazione e nella difesa” puntando ad una “strategia di crescita dell’UE per il prossimo decennio” caratterizzata da “investimenti comuni, regole più adatte e un miglior coordinamento, non solo durante le crisi”. Fino a giungere esplicitamente a precisare che le regole, evidentemente quelle sempre con forza richiamate dagli europei del Nord, non possono ” impedirci di intraprendere tutti gli investimenti necessari”.
Italia e Francia, ma anche personalmente Draghi e Macron, quest’ultimo sta per affrontare la sfida del rinnovo della sua presidenza prevista per il prossimo 10 aprile 2022, hanno bisogno di un’Europa disponibile a politiche espansive e di mettere la sordina a quelle spinte di sordido  rigorismo che tanto hanno caratterizzato lo scorso decennio, al punto di portare in primo piano addirittura l’ipotesi di una implosione dell’Unione, del resto auspicata da una larga area ultra nazionalista e sovranista.
Allo stesso modo, hanno interesse che l’Europa trovi una formula per superare tutte quelle criticità oggettivamente emerse a seguito dell’ampio allargamento dell’Unione il quale ha posto e pone un problema sulle capacità decisionali e sull’effettivo raggiungimento di un’intesa comune su tanti fronti. Più volte si è constatato come il veto anche del più piccolo paese metta in crisi strategie di prospettive che interessano la gran parte degli europei.
Draghi e Macron, nel sottoscrivere il Trattato del Quirinale e nello stendere il co-firmato intervento su The Financial Times hanno  esplicitamente collegato l’iniziativa franco – italiana all’imminente avvio della presidenza francese del Consiglio dell’UE la quale, scrivono i due,  “avrà come obiettivo lo sviluppo di una strategia condivisa e completa per il futuro dell’Unione”. Siamo dunque di fronte ad un’alleanza vera e propria che individua già una parte del terreno concreto su cui i due paesi marceranno con una proclamata unità d’intenti?
A  lungo, nel periodo della crisi più profonda dell’Unione è stata prospettata la possibilità di un’Europa “a due velocità”. L’Italia veniva, ovviamente, vista “per tabula” nel circuito dei più lenti. Cambia adesso la prospettiva? Ma anche al prezzo di uno schierarsi che potrebbe andarci bene … oppure no.
Giancarlo Infante

 

 

 

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