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L’agguato di via Fani: non c’è ancora giustizia? – di Claudia Trani 

File source: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Via_fani.jpg

L’attacco brigatista del marzo 1978, che portò al sequestro ed uccisione dell’ On.  Aldo Moro, è stato ampiamente dibattuto in sedi diverse: da quella processuale, a quella parlamentare e finanche ripresa dai mass-media per i tanti risvolti della ricostruzione e organizzazione del fatto criminoso, oltre che per l’individuazione di tutti i responsabili del grave episodio.

Nella mediaticità assunta dal caso si è parlato a volte di “atto terroristico” ed altre di “lotta armata”, sinonimo di “violenza politica”, un miscuglio di concetti diversi tra loro sui quali occorre fare chiarezza.

Nella Legislazione italiana, così come in nessuna delle previsioni delle Nazioni Unite, è rinvenibile una definizione precisa del terrorismo che, solo nel 1978, venne inserita nel nostro Codice Penale all’art.289 bis, norma che punisce il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione.

La nuova norma venne, invero, aggiunta al reato di associazione sovversiva (art.270), alla propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale (art.272), all’insurrezione armata contro i poteri dello Stato (art 284), alla cospirazione politica mediante accordo(art 304), alla banda armata e alla sua costituzione e partecipazione(art 306) già disciplinati dall’allora Codice Penale.

Tuttavia, questi articoli si ponevano in contrasto con la Carta Costituzionale ed, in particolare, con la garanzia della libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, tant’è che, in base a tale assunto, alcuni terroristi furono assolti in appello e in Cassazione(!!).

In Italia, durante i cosiddetti Anni di Piombo, periodo storico che va dagli anni ’60 agli anni ’80, e, in particolare, dopo il sequestro dell’On.le Moro, si è sentita la necessità di inserire nel nostro Codice Penale l’art. 289 bis che, al 1° comma, prevede che “Chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, sequestra una persona è punito con la reclusione da 25 a 30 anni”.

Nel 1980 venne ulteriormente novellata la materia introducendo il reato di “Associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico” sanzionato dall’art.270 bis C.P., in cui la finalità di terrorismo diveniva elemento costitutivo del reato, oggetto di dolo specifico e non più di pericolo presunto (il pericolo è la ragione dell’incriminazione e non un elemento costitutivo del reato).

Inoltre, gli atti terroristici del settembre 2011, ricordati in questi giorni, davano una forte spinta al nostro Legislatore per introdurre nell’Ordinamento la previsione del reato di terrorismo internazionale, con particolare riguardo ai connessi reati finanziari.

Dal canto suo, l’ Europol, nel 2007, introduceva una definizione più precisa del terrorismo, con la quale evidenziava che “il terrorismo non è un’ideologia o un movimento, ma una tattica o un metodo per raggiungere obiettivi politici”.

Questa premessa è importante perché, al di là delle opinioni comuni, il terrorismo moderno è un metodo di comunicazione violenta che trasmette in maniera spetta colare un messaggio dove l’attentato e la vittima non sono il fine. come emerge dalla violenza che si è diffusa nel mondo arabo-islamico quale reazione alla supremazia dell’Occidente, divenuto bersaglio di attentati di varia natura e gravità da parte dei cosiddetti “radicalizzati” come pure dei c.d. “cani sciolti”, di difficile individuazione nell’ambito delle Comunità residenti in UE e, in parte, apparente mente integrati sul territorio dei vari Paesi Europei..

Come ha scritto Jake Carson, criminologo di fama internazionale ed autore di numerose pubblicazioni per FBI, CIA e varie Agenzie per la sicurezza, in un interessante saggio pubblicato anche  in Italia “l’Occidente, dopo l’11 settembre 2001, ha ricevuto un terribile avvertimento: il terrorismo può colpire ovunque e chiunque può trasformarsi in un bersaglio”.

Aggiunge l’Autore che “diversamente da quanto accadeva in passato, quando gruppi terroristici puntavano a uccidere un numero limitato di persone per influenzare le politiche di un determinato Stato, oggi i terroristi sembrano intenzionati a sferrare un attacco alla cultura ed alla democrazia occidentali, usando tutti i mezzi a loro disposizione al fine di fare il maggior numero possibile di vittime”.

Fatta questa doverosa premessa, l’Autore si diffonde nella pedissequa elencazione di tutti i possibili agenti chimici e batteriologici e sui limitati rimedi che la diffusione di tali armi di distruzione di massa consente di adottare in caso di attacco. Ne consegue una visione apocalittica di una guerra ormai combattuta senza armi convenzionali e senza eserciti ma generata da pochi ma irriducibili nemici dell’Occidente che spesso sfuggono alla cattura delle varie polizie segrete e non impegnate nel debellare il fenomeno.

Compito dei Governi è, dunque, quello di apprestare non solo le difese da tali attacchi ma, soprattutto, stante la rilevanza che ha assunto il fenomeno, stabilire le regole per il ristoro dei danni arrecati alle vittime ed ai loro familiari.

Già trent’anni fa il compianto Prof. Ferracuti, padre della moderna criminologia e componente del Team istituito dall’allora Ministro Cossiga per il caso Moro, affermava che “l’azione terroristica costituisce, per chi la compie, una sorta di autogiustificazione necessaria per fugare la riconducibilità dell’agito a bisogni pulsionali personali, dando, così preminenza a presunti e superiori significati collettivi, sociali ed ideologici.

Si desume, pertanto, da tale autorevole definizione, che il terrorismo è criminologico e, come tale, va indagato, tra gli individui operanti in clandestinità o sotto copertura all’interno di Gruppi ben organizzati con l’intento comune di colpire un bersaglio in maniera eclatante.

A tal proposito, occorre sottolineare la differenza che intercorre tra terrorismo e la lotta armata (violenza politica).

Di quest’ultima ne fanno parte coloro che agiscono a “viso aperto” quando non trovano alternative diverse per affermare l’ideologia di appartenenza, mentre, ad un’analisi criminologica, il terrorista non è visibile, vive in anonimato, è una persona qualunque che può o meno far parte di un gruppo che agisce in clandestinità, evitando intercettazioni, pedinamenti, ecc.

In generale, il soggetto risulta essere una persona stressata che conduce una doppia vita perché, da un lato, ha un lavoro stabile, è sposato, ha figli, genitori a carico ecc., mentre dall’altro assume l’impegno di organizzare o partecipare ad atti violenti da singolo o in gruppo. In verità, la maggior parte dei criminali arrestati in Europa sono stati uomini di età compresa tra i 20 ed i 60 anni, per lo più cittadini dei Paesi in cui sono stati arrestati ed in possesso di beni atti a facilitare l’azione violenta e, quindi, catturati perché lo stress a cui erano sottoposti comportava inevitabilmente la commissione di errori che hanno consentito di individuarli.

Ricordando i tre pilastri della criminologia ovvero quello della psichiatria, quello giuridico e quello psico-sociologico, si può affermare, in tali casi, che si tratterebbe di riscaldamento cognitivo (in ambito sociologico) che altro non è se non un disorientamento del pensiero.

Gli effetti e gli stimoli psicologici della persona vengono da essa percepiti in maniera distorta creando una propria realtà soggettiva dove la vittima viene degradata a simbolo da abbattere con ogni mezzo. La spettacolarizzazione del gesto è la ricerca di una soddisfazione propria per l’azione delittuosa commessa, connotano la personalità del soggetto ed, in conseguenza, il terrorismo muore quando non se ne parla più, quando l’azione non fa più scalpore nell’opinione pubblica.

Lo stesso Alfredo Maria Bonanno, teorico dell’anarco-insurrezionalimo degli anni ‘70/’80 , considerato tra i maggiori teorici dell’anarchismo italiano, in “Teoria pratica dell’insurrezione”, ricorda che “non bisogna dimenticare l’effetto di riproduzione che l’atto insurrezionale possiede …”.

Pertanto, la diffusione del gesto trova nei mass-media la sua più alta divulgazione e la caratteristica del successo o insuccesso dell’atto compiuto, costituisce la capacità illimitata di raggiungere il Mondo e, in tal modo, decretare la riuscita della violenza terroristica compiuta, oltrepassando tutti i tipi di barriere e, purtroppo, incentivando anche altre emulazioni.

In tutto questo, si ritrova un diritto penale indebolito, non più garantista ma percepito come un sistema inadeguato che chiede pene esemplari nell’illusione che esse possano garantire un efficace sistema di sicurezza ai Cittadini.

Ma è il sistema sociale che deve essere indagato per capire il singolo, la fragilità emotiva delle persone, la loro facile manipolazione e i conseguenti comportamenti criminali, e non è solo l’inasprimento delle pene che guarirà la Società, non è il diritto positivo che può far fronte alla recrudescenza del fenomeno del terrorismo.

Forse si potrebbe pensare alla rinascita di un giusnaturalismo in chiave moderna che deve tenere conto, come affermato da Hobbes,che la “natura umana è sostanzialmente competitiva ed egoista”.

Ma, allora, come si potrebbe catalogare il caso Moro?

P.P.Gilbert (v.Il dilemma del terrorismo) definisce la violenza politica quale mezzo per il raggiungimento di fini politici, quasi un prolungamento della politica interna di uno Stato che, combattendolo, porta all’affermazione di un’ideologia politica diversa, pronta a raccogliere seguaci nelle fasce meno abbienti della popolazione, specie in quelle più emarginate delle periferie delle città e del mondo, tagliate fuori dall’incalzante globalizzazione.

Sul concetto giuridico di terrorismo, A.A. Dalia (v.il Il sequestro di persona a scopo di estorsione, terrorismo ed eversioni) dà una definizione che tiene conto “degli atti posti in essere indiscriminatamente contro uomini o cose ……, caratterizzato dalla spietatezza dell’esecuzione … con lo scopo finale di destabilizzare l’Ordine democratico e che, nell’assassinio di via Fani, significava indebolire l’allora Partito di Governo che era la Democrazia Cristiana.

Ne consegue che il caso Moro può rientrare tanto nella violenza politica che nel terrorismo che connotava l’azione degli autori del gesto criminale.

Anche in questo caso, occorre ricorrere alla criminologia che, come innanzi ricordato, non esamina il concetto generico delle due forme di violenza, bensì, più precisamente, il profilo del terrorista e quello del militante nella lotta armata come violenza politica.

Il primo profilo identifica, come sopra accennato, una persona qualunque, anonima e operante in clandestinità; il secondo, invece, è riferito a chi, a viso scoperto, vuole affermare il proprio credo politico.

Ma quali sono le caratteristiche degli attentatori di via Fani?

Cinque delle persone ritenute responsabili del rapimento di Moro vivevano da anni in clandestinità, seppur già noti al Ministero dell’Interno per fatti precedenti:

Morelli,L. Azzolini,F. Bonisoli,P. Gallinari e R. Micaletto (v. S. Flamigni “La tela del ragno. Il delitto Moro,1993), erano tutte persone in grado di evitare intercettazioni, pedinamenti, spesso, vivendo in coppia tra di loro(come ad es. Morelli, compagno di Barbara Balzerani), pertanto, sul piano criminologico, si possono definire terroristi ed il delitto Moro un vero e proprio atto di terrorismo.

Quasi tutti i dieci componenti del commando conducono o hanno condotto (alcuni nel tempo sono deceduti) una quotidianità normale, liberi di muoversi in libertà acquisendo pure una certa notorietà, derivante dalla scrittura di saggi o avviando attività fotografiche, imprese di ristorazione ecc., finendo nell’oblio generale.

Altri due sono rimasti latitanti, pur essendo noto il luogo in cui attualmente vivono: Alessio Casimirri e il dirigente delle BR genovesi Leonardo Bertulazzi (nome di battaglia Stefano), arrestato in Argentina il 29 agosto 2024 dopo 44 anni di latitanza.

Il Casimirri si è rifugiato in Nicaragua dal 1983, paese di cui ha preso la cittadinanza per matrimonio. Sulla sua persona e sul suo mancato arresto, sono state avanzate diverse ipotesi, di cui alcune anche fantasiose, ma il latitante potrebbe fornire le risposte a quanto accaduto nel sequestro di Via Fani e ,successivamente, con la tragica morte dell’On.le Moro ed ai tanti “perché” tutt’ora sconosciuti, come pure gli altri nomi del commando brigatista non assicurati alla Giustizia, neppure dopo il processo e gli anni trascorsi nascondendosi.

L’ultimo arresto, in ordine cronologico, è stato quello di Leonardo Bertulazzi, condannato, con sentenza definitiva nel 1997, a complessivi 27 anni di reclusione per reati diversi e latitante in paesi diversi dal 1990, dal 2004 è finito in Argentina con lo status di rifugiato politico(!!).

Il suo nascondiglio a Buenos Aires era noto tanto alla Polizia italiana che a quella Argentina ma, essendo protetto dallo status di rifugiato concessogli nel 2004 dal CONARE (Commissione Nazionale per i Rifugiati),risultava immune all’arresto e all’estradizione in Italia.

Già nel 2002 c’era stata una richiesta avanzata dal Governo Italiano per la sua estradizione per espiare la pena, ma, dopo solo 7 mesi di detenzione, il Giudice Federale l’aveva rigettata, con sentenza definitiva, poiché “il  processo e condanna erano avvenuti in contumacia”, che costituiva una decisione non ammessa dalle Leggi del paese.

Nel 2018,trascorsi 30 anni dalla condanna, il legale dell’ex brigatista rosso presentava alla Corte d’Appello di Genova la richiesta per il riconoscimento dell’estinzione della pena. ai sensi dell’art. 172 C.P.(“Estinzione delle pene della reclusione)” che prevede che” la pena della reclusione si estingue col decorso di un tempo pari al doppio delle pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a 30 anni

La Corte ligure accoglieva la domanda ma la Cassazione, con la sentenza n.54337 del 20.11.2018, annullava la decisione per “l’inapplicabilità degli istituti della sospensione ed interruzione della pena alla prescrizione della stessa”, rilevando che il termine doveva ripartire ex novo dal 2002, data del nuovo arresto del condannato “in esecuzione di una richiesta di estradizione, a nulla rilevando la successiva scarcerazione del condannato per mancata concessione dell’estradi zione da parte dell’autorità giudiziaria estera”.

Tuttavia, il Governo Kirchner, facendosi inopinatamente promotore della difesa dei diritti umani,nel 2004 concedeva asilo politico al latitante, che può essere accordato “a chi è costretto a lasciare il proprio Paese di origine non per scelta ma per costrizione ed ai fini di tutela della propria persona” (senza fornire alcuna spiegazione della asserita “costrizione” avvenuta per lo stesso in Italia, essendosi. il condannato, allontanato volontariamente per sottrarsi alla cattura ed alla pesante condanna comminata).

Qual è stata, quindi, la nuova motivazione per cui l’Argentina ha revocato a Bertulazzi lo status di rifugiato e concesso l’estradizione in Italia??? L’attuale Governo argentino specifica, in un comunicato ufficiale, che l’arresto dell’ex brigatista è la necessaria espressione “dei valori della democrazia e dello stato di diritto”, così dimostrando al Mondo di non condividere il precedente orientamento sfavorevole alla, pur, legittima istanza avanzata dal Governo Italiano. Tuttavia, l’estradizione di Bertulazzi dovrà essere confermata dalla pronuncia della Magistratura del Paese in relazione alla legittimità di un “arresto in palese violazione del principio del ne bis in idem”.

In verità, occorre precisare che i Giudici hanno, comunque, respinto la richiesta di scarcerazione presentata dalla difesa del terrorista italiano che resta detenuto in “regime speciale” e l’Italia ha 45 giorni di tempo a disposizione per presentare la richiesta di estradizione così come il Bertulazzi può, nel frattempo. proporre ricorso avverso il ritiro dello status di rifugiato che, nel caso di accoglimento, lo farebbe rimanere in Argentina, con buona pace di quanti vorrebbero conoscere la verità del sequestro Moro..

In conclusione, a 46 anni dalla strage di via Fani, il percorso giudiziario non è ancora terminato e siamo ancora ad attendere che la Giustizia faccia il suo corso nel caso Moro come pure per altri atti terroristici rimasti intonsi ma che hanno comunque mietuto vittime, come avvenuto nella Strage di Bologna.

Come ha scritto Epicuro, con una frase che ci riporta indietro di secoli “In generale la Giustizia è uguale per tutti, perché è utile nei rapporti sociali; ma in casi particolari, e a seconda dei luoghi e delle condizioni, risulta che la stessa cosa non è giusta per tutti.”, che svilisce le speranze di Giustizia dei Familiari delle Vittime che attendono ancora  le condanne dei Terroristi ancora di là da venire.

Claudia Trani

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