La riflessione di Domenico Galbiati, sempre puntuale e approfondita, sollecita a dar vita a “un soggetto politico nuovo, laico, aconfessionale, aperto a credenti e non credenti, fondato sulla concezione cristiana di cosa siano l’uomo, il valore, il senso della vita, ispirato ai principi della Dottrina sociale della Chiesa, ai valori della Costituzione”.
Allora viene spontanea una domanda: è necessario un altro partito? Perché? Due anni fa, alle elezioni politiche, sulla scheda elettorale per la Camera c’erano 18 simboli, quindi 18 partiti con 18 programmi e 18 liste di canditati. Appare evidente che l’offerta politica è quanto mai ampia. Affermare che alla fin fine sono tutti uguali, sarebbe un discorso da taverna tra i fumi dell’alcol e il fumo del tabacco. Obiettivamente non sono tutti uguali: quei 18 partiti esprimono valori diversi, anche contrapposti, hanno una diversa visione della società, esprimono leadership antitetiche, anche dal punto di vista personale e caratteriale. Ma quei 18 partiti hanno un limite comune: il loro obiettivo prioritario è trovare un posticino a Palazzo Chigi, magari una stanzetta, l’importante è approdare al centro del potere.
Quei partiti non sono tutti uguali, ma hanno, chi in forma più composta, chi in maniera più sguaiata, la comune visione di intendere lo Stato come la diligenza alla quale dare l’assalto per spartirsi il bottino. Nessuno di quei 18 partiti ha al centro del proprio programma politico la necessità e l’urgenza di ricostruire lo Stato perché la democrazia è malata e insidiata da virus che potrebbero essere vitali.
A dire il vero, chi più chi meno, tutti parlano di riforme istituzionali: però è chiara la sensazione che ne parlino perché non se ne può fare a meno, spesso dimostrano di non saper bene di che cosa parlano. Tuttavia l’esperienza degli ultimi 25 anni insegna che ogni volta che hanno approntato qualche timida riforma, ben presto ha fatto rimpiangere la situazione precedente. Anche se, nella maggior parte dei casi, le tanto conclamate riforme si sono tradotte in cambio di denominazione: la scuola è più “moderna” perché il preside ha lasciato il posto al dirigente scolastico; i cittadini sono diventati virtuosi così Equitalia è stata tolta, oltretutto era una parola divenuta antipatica e faceva venire l’orticaria; il job act ha creato tanti posti di lavoro al punto che quando è cambiata la compagine di governo è stato introdotto il reddito di cittadinanza; il Paese ha un quadro legislativo a tutela dell’ambiente così avanzato al punto che un po’ ovunque sono spuntate terre dei fuori. Sono soltanto alcuni esempi, anche banali rispetto a problematiche più grandi, ma evidenziano le contraddizioni di uno Stato che spesso vede i cittadini come sudditi, mentre i cittadini non riconoscono lo Stato come la casa comune.
L’Italia è un grande paese sotto tantissimi punti di vista, ma non riesce a esprimere una classe politica adeguata. Troppo spesso si vedono dilettanti allo sbaraglio. Non è un problema di oggi: in quasi 160 anni di unità nazionale, salvo qualche breve parentesi, tanti protagonisti della scena politica sono risultati personaggi da avanspettacolo. Il processo unitario non ha contribuito a formare una coscienza nazionale; il primo mezzo secolo di storia unitaria ha avuto come protagonista una classe politica che ha governato il Paese con un amministratore delegato gestisce un’azienda; la Grande Guerra ha terremotato le deboli basi dello Stato, così ha aperto le porte, quasi in maniera inevitabile, all’avvento della dittatura. Il primo grande momento di partecipazione unitaria alla vita del Paese arriva il 2 giugno 1946: l’Italia congeda la monarchia e diventa una repubblica, l’Italia si mette alle spalle gli anni bui della dittatura e diventa una democrazia. Ma repubblica e democrazia non sono traguardi, sono percorsi da portare avanti quotidianamente, come una casa richiede una manutenzione costante.
Oggi democrazia e repubblica sono malate, non solo in Italia, anche altrove, ma certamente non si può dire che mal comune sia mezzo gaudio. Anzi mal comune, aumenta i pericoli per tutti. Comunque repubblica e democrazia sono malate perché il mondo è malato come quotidianamente ci ammonisce papa Francesco. E’ un mondo sempre più dominato da potentissime forze economico/finanziarie invisibili, che dominano oltre gli Stati. E dominano nel nome della libertà, il cittadino, diventato singolo individuo, vive nell’illusione di essere libero, invece le sue scelte sono decise da altri, il cittadino è soltanto un numero della massa, pur non rendendosene conto. Queste potenti forze senza volto e trovano grandi alleati, volontariamente o inconsciamente, in tutti i populismi, nelle diverse forme in cui essi si esprimono, che corrodono le fondamenta della repubblica e della democrazia, mentre se ne dichiarano paladini.
E’ la grande contraddizione di questo tempo. La storia del movimento cattolico da Romolo Murri ad Aldo Moro, passando per don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, è la storia di uomini che hanno lottato per la democrazia, non per arrivare alle stanze del potere, ma per allargare le basi della partecipazione della società civile alla vita del Paese. Un nuovo partito, allora, deve avere questa prospettiva: ricostruire la repubblica e la democrazia.
Una ricostruzione che parte dalla necessità di avere una classe politica in stretta sintonia con la società civile e questo si realizza solo con una riforma del sistema elettorale che sia espressione reale della volontà popolare, non una sua trasfigurazione. Solo una classe politica autorevole può avviare un processo di trasformazione istituzionale dove lo Stato e il cittadino non sono soggetti contrapposti ma si sentono partecipi di un progetto comune per conseguire, nella libertà autentica, la giustizia sociale.
E’ necessario allora un nuovo partito? Certamente sì, ma per non essere il 19.mo logo della scheda elettorale deve avere un progetto ambizioso: deve avere la consapevolezza di una democrazia da ricostruire.
Luigi Ingegneri