È pur sempre probabile che, al dunque, la paura la vinca e spinga, ancora una volta, tra le braccia di Trump un’America che sembra aver paura di sé stessa, dei suoi sogni, delle sue speranze, del suo destino, della “missione” in cui ha creduto e di cui ora dubita o addirittura rifiuta.

Eppure, c’è un’altra America, o così almeno possiamo sperare, se, una volta spenta la spettacolarità della Convention democratica, dovesse persistere ed accompagnare la campagna elettorale di Kamala Harris il clima che ha attraversato le cinque giornate di Chicago. Dov’è stata evocata perfino la gioia che noi difficilmente pensiamo possa essere una categoria della politica.

Sant’Agostino afferma che la gioia accompagna l’esperienza della verità compiuta e questo è effettivamente un versante arduo per la politica. Da noi, quando c’ha provato Occhetto sappiamo com’è andata a finire.

Tutt’al più ci spingiamo ad evocare la felicità che è un’altra cosa. Siamo più prosaici o semplicemente più scafati. Abbiamo alle spalle qualche millennio di storia più degli americani e, siccome più di loro ne abbiamo viste di tutti i colori, siamo più scettici, incliniamo anche ad un certo cinismo.

Abbiamo smarrito il dono – ma forse è solo spettacolo ed apparenza? – di quell’idealismo perfino un po’ ingenuo che, in qualche misura, è comparso dalla tribuna e sugli spalti della Convention democratica. Forse è piuttosto la proiezione inconscia di ciò che abbiamo creduto e sperato a vent’anni, ma, in quel di cui le cronache danno conto, sembra di cogliere ancora, in qualche misura, lo spirito della “frontiera”, il sogno dei pionieri.

L’egemonia americana attraversa un momento critico e, in un mondo multipolare, non potrà, in ogni caso, ribadire i caratteri che fin qui ha rivestito. Eppure, l’America è un grande paese, che, per quanti becchini si affannino al suo capezzale, è tuttora in grado di sorprenderci e di esprimere una vitalità democratica inaspettata.

È davvero avviata ad un declino inesorabile che, più o meno, sta nell’ordine delle cose dopo una più che secolare stagione di predominio negli equilibri internazionali?

È inevitabile che, nel nuovo quadro multipolare, avanzi il primato di altri paesi, a cominciare dalla Cina, ma non solo, e questo significhi che altri modelli di civiltà, altre culture, altri paradigmi politici ed istituzionali, alternativi a quello liberal-democratico, siano destinati ad accompagnare l’umanità incontro alla dimensione planetaria verso cui e’ incamminata?

Ha ragione Kamala Harris quando sostiene che l’elezione presidenziale del prossimo 5 novembre non solo è più rilevante delle immediatamente precedenti, ma riveste un valore epocale tra tutte.

Non è fuori luogo il sentimento che sia in gioco un passaggio di cui forse neppure la dialettica tra democrazie ed autocrazie riesce a dare una compiuta immagine.
Insomma, quel che succederà negli States riguarda anche noi.

Il trumpiano “first America” e’ di fatto un ossimoro, un’affermazione che contraddice sé stessa, nella misura in cui denuncia un’attitudine isolazionista che confligge con i momenti migliori della storia americana. E per quanto certe corrispondenze tra le due sponde dell’Atlantico, certe analogie siano sempre sdrucciolevoli, che sia Trump oppure la Harris il prossimo Presidente degli Stati Uniti è una questione che, con buona pace dell’anti-americanismo fiorente anche in casa nostra, ci tocca da vicino. E non perché il populismo demagogico di Trump incoraggerebbe quello di casa nostra che pretenderebbe, addirittura, di esserne legittimato.

Non è certo Salvini, e neppure la Meloni, che sono qui in discussione. Si tratta di capire se vince un’America stanca, vecchia, chiusa su di sé, sostanzialmente immemore delle proprie origini e della sua storia, oppure un’America che ha il piglio ed il coraggio di affrontare, per quanto sia nebuloso, un domani, ricco ad un tempo di rischi e di promesse.

Domenico Galbiati

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