Cade, dunque, con le elezioni in Turingia e in Sassonia, anche il “bastione Germania”: anch’essa entra in un’area di instabilità socio-politica. La Germania cessa definitivamente di essere a direzione Bundesrepublik, ridiventa la Germania degli anni ’30 del ‘900, con una democrazia istituzionalmente più solida di quella di Weimar, ma con problemi socio-economici e sociali crescenti e con un ritorno di brunismo e di rosso-brunismo, che in passato hanno spianato la strada al nazismo.

Sottosviluppo e immigrazione paiono essere il motore più visibile dell’avanzata di “Alternative für Deutschland” nella ex-Germania Est. Eppure, i Länder dell’Est sono stati riempiti di milioni di marchi e di Euro e da pochi immigrati, nonostante la vulgata. Questi, infatti, preferiscono il West-Deutschland.
E allora?
Il “male tedesco” è, in primo luogo, ”locale”. Dagli anni ’30 del ‘900 la Germania-Est non ha più conosciuto forme di democrazia liberale e di economia di mercato: il passaggio dal nazismo al comunismo è stato “naturale”.

Ma il male è “europeo”: è la crisi della democrazia nazionale, della “democrazia in un Paese” qui in Europa. Stanno venendo al pettine le contraddizioni tra le dinamiche globali dell’economia e della finanza e il fragile tessuto della nazionalità/statualità della politica e delle politiche.

Le classi dirigenti di Francia, di Germania, di Inghilterra, di Spagna, d’Italia… hanno continuato a filtrare il mondo e a far politica interna e estera sulla base del consenso democratico dei propri elettorati. Potevano fare diversamente? No. Perché non soltanto i loro elettorati hanno continuato a collocarsi mentalmente nel mondo in base a immarcescibili vissuti e categorie, ma anche perché le strutture statuali e giuridiche sono nazionali.

Eppure è una misura che non basta più. La causa ultima non è il collasso dell’ordine mondiale di Yalta. È la globalizzazione dell’economia, la globalizzazione della comunicazione e, si intende, l’ascesa di nuovi soggetti mondiali: Cina, India, Nigeria, Brasile ecc… Quel collasso è la conseguenza.

È cambiata la struttura del mondo. La globalizzazione ha finora impedito che si ridisegnasse a tavolino un nuovo Trattato di Westfalia, che definisse un nuovo “ordine mondiale”, come auspicava l’ultimo Kissinger. La globalizzazione è politicamente, giuridicamente e istituzionalmente ingovernabile dagli Stati nazionali.

Le opinioni pubbliche e i pubblici elettorali non vedono alternative possibili alle minacce della globalizzazione, pur sfruttandone tutte le opportunità, se non una: lo Stato-nazione. Di qui il ritorno del nazionalismo.

Putin, Trump, Xi Jin-ping e Narendra Modi hanno rilanciato la sfida dello Stato-nazione. Il primo, perché reduce dalla “più grande catastrofe geopolitica del ‘900” – così ha definito il crollo dell’URSS; il secondo, facendosi interprete dalla crisi di egemonia degli Usa e delle difficoltà socio-economiche e identitarie della classe operaia bianca americana, insidiata dai Latinos; il terzo, autoproclamatosi leader del riscatto finale della Cina dal “Secolo delle umiliazioni” 1839-1949; il quarto, postosi come leader religioso-profetico e politico dell’India e dell’induismo.

Con qualche differenza tra i quattro: quello russo non è uno Stato-nazione, ma uno “Stato-nazioni” e perciò rivendica territori ex-imperiali, quale l’Ucraina; Trump rinuncia definitivamente a collocare gli Usa come baricentro dell’ordine mondiale, per affidare loro la più “modesta” missione di difendere la propria egemonia economica e finanziaria, mediante accordi/conflitti bilaterali; Xi-Jin-ping tende a porsi quale fabbrica del mondo, pratica un imperialismo commerciale su scala mondiale, rivendica Taiwan quale parte integrante dell’antico territorio cinese; Narendra Modi è, per ora, più rivolto ad affermare l’egemonia politico-religiosa indù rispetto a oltre 200 milioni di mussulmani indiani.

Quale che sia il giudizio storico-politico che si dà di queste quattro manifestazioni del nazionalismo, occorre riconoscere che hanno tutte il “phisique du rôle”: numero di abitanti, potenza economica e/o militare, influenza sul mondo. Il loro discorso ha una sua forza materiale.

Quello degli Inglesi e dei Francesi – che continuano a partecipare per diritto al Consiglio di sicurezza dell’ONU – e quello dei Tedeschi e degli Italiani ecc… è un nazionalismo straccione.

Il nazionalismo non ha più fondamento storico-politico, è diventato un “signaculum in vexillo”, da affiggere sugli stendardi nel corso delle campagne elettorali. La Nazione mantiene per ciascuno di noi tuttora un fondamento storico-culturale e identitario inconcusso.

C’è coerenza nel discorso di AfD – Alternative für Deutschland – nel quale identità nazionale, neo-nazismo, filo-putinismo convergono, fino al sostegno dell’invasione russa dell’Ucraina. La stessa logica si ritrova nel “Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit” (Lega Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia). La politica estera, infatti, è conseguenza di un’idea di “homo europeus”.

Che l’Italietta neo-nazionalista e sedicente pacifista, con sfumature diversamente accentuate tra Salvini, Crosetto, Taiani e Schlein di cecità geopolitica e di viltà nazionale, chieda di cedere, in tutto o in parte, alle pretese nazional-imperialistiche di Putin è allarmante, non solo perché restituisce l’immagine di un Paese inaffidabile e pronto a cambiare alleanze al primo stormir di fronde, ma soprattutto perché non vede che la posta in gioco decisiva per la civiltà europea e per le Nazioni europee è esattamente l’idea di dignità dell’uomo, di democrazia, di diritti/doveri.

Come impedire il ritorno ad Auschwitz? Non basteranno le prediche filosofiche e teologiche sulla dignità umana e le invocazioni alla pace per incatenare i demoni della storia europea e per tenere a bada gli imperialismi redivivi o nascenti a livello globale. Occorre passare, qui e ora, alla costruzione delle istituzioni della Federazione europea: una sola difesa, una sola politica estera, un solo fisco, un solo sistema bancario ecc… L’Euro non basta, il PNRR neppure, Fitto neppure.

Giovanni Cominelli

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