“Si può dire, senza troppa severità, che ciò di cui ci si occupa di meno nel partito repubblicano sono le istituzioni repubblicane …il sincero ardore politico non vi si incontra neanche…la politica utile è il mezzo non lo scopo”: questo è Tocqueville, caro Professor Cassese. Così, alla sua analisi dello scorso 8 ottobre, sul Corriere della Sera, intitolata “Chi (non) fa funzionare lo Stato” (CLICCA QUI), sulla quale intendo soffermarmi, propongo di aggiungere la seguente base controanalitica: si può dire, senza troppa severità, che ciò di cui ci si occupa di meno nei partiti italiani sono le istituzioni democratiche ed il loro funzionamento.
Capisco che si tratta di un’affermazione impegnativa e soggiace ad immediate reazioni critiche. Tutte pertinenti, tutte inefficienti. Al pari della mia base analitica che, però, contiene una presa di coscienza, una salvaguardia: non ci sono in giro, non ci sono mai state, regole assolute per resistere in certi tornanti della storia delle istituzioni al fenomeno del cedimento strutturale della politica. Che talvolta ha in esito gravi rivolgimenti sociali, talaltra rivoluzioni e guerre ma, nella maggior parte dei casi, prodigiose risalite con l’applicazione dei serbatoi d’intelligenza che sono custoditi chissà dove, chissà da chi.
Io considero l’analisi del Professor Cassese un atto d’amore, non un atto di guerra verso questa o quella categoria di “grandi commessi dello Stato”, Consiglieri di Stato o Dirigenti della Ragioneria generale che siano. Un atto d’amore eroico, con il seguito di speranza e ottimismi che comporta, vista la situazione concreta dello Stato. Nella quale si mischiano, ormai senza baluardi logico-istituzionali, (con l’eccezione di quelli che ci tramanda la storia con l’esemplarità delle leggi transculturali – se le si accettano, visto che sono sprovviste di sanzioni ordinarie, ma munite della sanzione massima della bocciatura della storia e della dissipazione del bene comune) in condizione di confusione di ruolo, istituzioni, partiti, soggetti della comunicazione, tradizionale e social, individui d’ogni genere, dagli scienziati ai rapper.
Il Professor Cassese è isolato, o forse è solo, nella ricerca di chi (non) fa funzionare lo Stato. Reduci dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento, siamo certi di poter dire che le piattaforme programmatiche dei partiti, senza eccezioni, sono risultate silenti sulla questione “scientifica” (propria della scienza politica) del cattivo funzionamento dello Stato. Troppo facile evocare le responsabilità dei partiti (lo dico a me stesso) quando l’intero sistema politico-istituzionale (filiazione dei partiti) s’è assestato (cosciente della verità dell’assunto) sui vizi del procedimento legislativo (che pure ci sono) per ondeggiare tra leggi organiche, leggi bicamerali, leggi ordinarie, procedure abbreviate ed altre divagazioni consumate dall’uso fattone nella convegnistica, ma mai sperimentate. Questa la lezione venuta alla nostra attenzione e cristallizzata dalle e nelle Commissioni per le riforme costituzionali succedutesi ad intervalli irregolari in un trentennio. Tutte, queste Commissioni, sono state accomunate da un a priori, logicamente esonerato dalla verifica dell’esperienza, costituito dall’obbligo di produrre la riforma della Costituzione. Nessuna di loro incaricata per legge di ricercare soluzioni a Costituzione vigente, ciò che appare decisamente possibile sol che si consideri la responsabilità politica alla base di quel cedimento strutturale di cui si è detto. Nessuna che fosse per legge incaricata di liberare il procedimento di formazione della legge, con poche modifiche dei Regolamenti di Camera e Senato, da incrostazioni formatesi nel tempo a tutela di una insopportabile opacità di sistema.
Se è vero, come io ritengo in umile adorazione di Voltaire, che “la maggior parte degli uomini abbiano ricevuto dalla natura abbastanza buon senso per fare legge” è pacifico che “non tutti siano abbastanza giusti per fare buone leggi”. E non tutti sono sufficientemente capaci per scriverle.
Io sono sinceramente ammirato nei confronti del Professor Cassese per aver egli aggredito il tema del funzionamento dello Stato non già sul piano teorico, bensì su quello pratico degli addetti alla legistica che alcuni ritengono sia un’arte ed invero è una sofisticatissima e assai complessa tecnica di traduzione della volontà popolare, mediata da una maggioranza parlamentare, di porre le regole, di tempo in tempo, del vivere della comunità nazionale.
Se solo chi scrive leggi fosse cosciente del monito volteriano che il buon senso, sprovvisto del senso della giustizia, è requisito insufficiente dei legislatori, probabilmente saremmo sulla strada della ricomposizione del diritto e della giustizia. Ma non lo siamo.
Ci troviamo, al contrario, ed uso una formulazione presa in prestito da Sergio Cotta, nella immanente condizione in cui “il confliggere delle ragioni e degli interessi opposti si incarna in persone vive e quindi si sottrae alle astratte e comode semplificazioni delle considerazioni intellettualistiche e delle decisioni aprioristiche”.
Le persone vive hanno bisogno di affidabili legisti. Ha ragione il Professor Cassese.
Io non entro nella complessità del procedimento di formazione di una legge, nella pratica delle aule parlamentari, perché non voglio annacquare il coraggioso tentativo trasformatore del Professor Cassese. Voglio integrarlo.
Se per legista si intende il redattore materiale della norma nelle forme conosciute, onestamente, non me la sento di gettare la croce addosso ai Consiglieri di Stato perché asseritamente scriverebbero le leggi nella maniera in cui scrivono le sentenze. Doverosamente distinguendosi tra leggi provenienti dall’iniziativa legislativa del Governo (la stragrande maggioranza) divenuta patologia di sistema a causa del non arginato ricorso alla decretazione d’urgenza (e del connesso meccanismo della posizione della questione di fiducia), e leggi provenienti dall’ iniziativa parlamentare, mi pare di poter dire che le prime rispettano parametri minimi di adeguatezza formale. Le seconde, con la lodevole eccezione di quelle per le quali un giurista abbia prestato una collaborazione, mai raggiungono la sufficienza. Non passo ad una esemplificazione per poter restare nelle vicinanze dell’articolo in commento.
Diversa questione, peraltro non accennata dal Professor Cassese (ma non costituisce addebito nei suoi confronti) è l’eventuale condizione di conflitto d’interesse per colui che, investito di pubbliche funzioni, dovesse usare della propria tecnica per trasportare dalla legge alla giurisprudenza e viceversa convincimenti di proprio interesse. Ma si tratterebbe di un caso da esaminarsi alla luce di considerazioni disciplinari o giudiziarie. Questione, quella dei conflitti d’interesse in area legislativa, trattata, ad esempio, nel Parlamento inglese a partire dalla metà del XVI secolo!
Vedo con chiarezza che non è addebitabile al legista la responsabilità del cattivo funzionamento dello Stato. A meno di non voler delegittimare l’intero assetto pubblicistico. Infatti, non posso convenire sul fatto che si possa inferire la constatazione della cattiva qualità del funzionamento dello Stato dalla cattiva qualità della redazione delle leggi.
Se la legge è mal fatta, la responsabilità è per intero di chi l’ha approvata. Il redattore/legista, nell’ordinamento costituzionale, non ha nessuna autonomia per stabilire il contenuto della legge. Il migliore dei Consiglieri di Stato, il migliore dei legisti, nulla dovrebbe potere in autonomia redazionale, dovendo dare forma giuridica alla volontà politica. Ma la volontà politica deve affrancarsi dai suoi vizi storici, distribuiti nel tempo con minore o maggiore accentuazione. E sulla legge grava, pesante, un passaggio parlamentare di Tocqueville: ”c’è dunque bisogno di tante parole per dimostrare che, sostituendo all’interesse generale l’interesse particolare, si deprava la società?”
Ecco il punto: la crisi della legge è marginalmente tecnica (in effetti si può fare di meglio in molti casi) e massimamente morale. “Se esista qualche mezzo legislativo che possa apportare dei rimedi al funesto stato dei costumi politici di cui mi lamento”: caro, amatissimo Tocqueville, certo che si può fare. Da una parte con interventi mirati sui Regolamenti Parlamentari, rimasti inchiodati dalla volontà pervicace dei partiti nella loro proiezione di gruppi parlamentari di lasciare fermo un sistema ritenuto remunerativo in spregio della crisi dello Stato e della legge, cioè in spregio dell’interesse generale. Dall’altra, con l’attivazione, lumeggiata dal professor Cassese, di processi partecipativi nella delineazione del comando di legge, con “la effettiva partecipazione dei consociati alla vita civile in tutti i livelli del processo decisionale “ (Cotta), in una prospettiva di responsabilità (accountability), di efficacia ed efficienza, di controllo del potere, prima di impegnare la responsabilità di garanzia del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale.
Certo è più facile accorgersi della sintomatologia che non delle cause profonde della crisi di funzionamento dello Stato. Dai suoi amministratori si sarebbe dovuto poter pretendere di conoscere accanto ed insieme a ciò che è fattuale delle loro azioni, ciò che è invisibile ai più, cioè una permanente autoanalisi da svolgersi secondo uno Statuto appositamente elaborato, a garanzia del procedimento, nelle sede più appropriate istituzionalmente, le sedi del controllo a partire dal controllo parlamentare.
Cerchiamo pure legisti per migliorare la qualità delle leggi e far funzionare lo Stato, ma si cominci a dire che è indefettibile e improcrastinabile una nuova stagione dei controlli, non solo di quelli finanziari. Certo gli uffici parlamentari di bilancio costituiscono un utile esempio. Ma il punto di arrivo è più in alto. Si colloca in un punto di prospettiva in cui la legge è ben scritta e comprensibile, ma soprattutto costituisce ed è cartina di tornasole della volontà dei partiti politici espressa nelle istituzioni e nelle forme consacrate dal diritto, a partire dalla Costituzione.
Caro Professor Cassese su questo fronte i legisti nulla possono. Si può immaginare che un Consigliere di Stato o un dirigente della Ragioneria dello Stato, a parte, ripeto, l’uso corretto della lingua italiana, possa interloquire, munito del potere per farlo, con il decisore politico (quale che sia, ii Parlamento per le leggi, il Governo per la sua iniziativa legislativa o meglio ancora nella da potestà di emanare decreti-legge).
Ma veniamo ad un punto particolarmente critico: ciò che non sono in grado di fare i Consiglieri di Stato o la Ragioneria (per le su competenze), dice il Professor Cassese, lo potrebbero fare i Consiglieri parlamentari (che indica come strutture parlamentari). Li identifica come i “migliori confezionatori di leggi” ed essi dovrebbero dare il loro contributo al governo che è divenuto il maggiore legislatore.
Mi soffermo sul punto, con qualche fervore, perché sono stato Consigliere parlamentare ed ho direttamente vissuto quella che amo definire “la primavera parlamentare” della seconda metà degli anni ’90.
In estrema sintesi, osservo che la legislazione, figlia comunque di una decisione parlamentare (anche per l’istituto della conversione in legge dei Decreti-legge) non ha risentito dello stato di grazia dei migliori confezionatori di leggi. Se ci sono in giro leggi inadeguate che inceppano il funzionamento dello Stato la responsabilità (per la parte che qui non si quantifica) ricade anche su di loro.
Che siano prestati al Governo per aiutarlo (“per dargli il loro contributo”) ad introdurre in Parlamento disegni (proposte, per chi abbia più dimestichezza col Senato) di legge migliori e migliori Decreti-legge, si deve pensare nelle stesse forme giuridiche con le quali il Governo si avvale dei Consiglieri di Stato, smantella un caposaldo del principio di separazione dei poteri, mentre non corregge ipotesi di conflitto d’interesse delineate per Consiglieri di Stato, Consiglieri della Corte dei Conti, Magistrati. La migrazione dei Consiglieri Parlamentari nei governi li hanno deprivati di quella straordinaria qualità immateriale, ma concretissima, che è indicata storicamente come terzietà della funzione parlamentare. Passati per le stanze dei governi, i funzionari parlamentari non potranno più essere considerati terzi ed imparziali.
Il discorso è complesso ma di immediata comprensibilità. Vero che si è persa perfino la memoria delle proposte (dibattute approfonditamente da Consiglieri Parlamentari appassionati del loro ruolo e innamorati della Costituzione) che indicavano l’esigenza di “una magistratura parlamentare” attraverso la quale esaltare la funzione di garanzia dei Consiglieri Parlamentari nei procedimenti di formazione della legge e nei controlli parlamentari, ma l’attualità di quel bisogno non s’è offuscata, se mai accentuata.
Io trovo disomogeneo il riferimento al Consiglio di Stato francese “che ha ispirato, disegnato, organizzato la codificazione del diritto francese”. La “Commission superieure de codification” che ha preso le mosse nel 1989 (ed ha sostituito “la Commission superieure chargèe d’étudier la codification e la simplification des textes législatifs et réreglementaires” creata nel 1948) composta, è vero da Consiglieri di Stato, della Corte dei Conti, da deputati e senatori, da professori e funzionari governativi, presieduta dal Primo Ministro Francese, opera a valle del procedimento legislativo e regolamentare. Inutile ricordare i rapporti annuali della Commissione se non per un aspetto banale quanto cruciale; si susseguono richiami sul fatto che “l’impresa della codificazione non può riuscire che alla condizione che siano dispiegate risorse umane e materiali proporzionali all’ampiezza, alle difficoltà e alle scadenze del progetto”.
Ci lavorano dal 1948. Quando, intorno alla fine degli anni ’90 partecipai ad un convegno ad Ottawa sul tema dello “Shock legislativo” i francesi (come, peraltro, tutti i presenti) condivisero con i partecipanti lo sgomento di dover registrare la difficoltà quasi insormontabile di cui avevano perfetta consapevolezza.
Innamorati, tutti i presenti, di “legistique”, di “legislative drafting”, si tracciò la conclusione che non esistessero modelli da assumersi a linee guida nei processi nazionali di semplificazione legislativa.
Poche parole, Professor Cassese per esprimerle tutto il doveroso apprezzamento per il coraggio dimostrato col suo intervento. Non una conclusione, bensì un punto di partenza.
In Italia di esperti di legistica ce ne sono pochi. Nelle università, nelle facoltà giuridiche non si studia. I manualetti parlamentari, nel tempo, si sono dimostrati burocratici. A mio sapere, solo due Consiglieri Parlamentari hanno seguito un “masterino” di legislative drafting alla Toulaine University. Insomma, accedendo alle prudenti osservazioni della citata Commissione francese, si deve dire che risorse umane specializzate non ve ne siano e che un cambiamento non possa intervenire a “risorse finanziarie invariate”. Qualcosa potrebbe farsi sul piano organizzativo, moltissimo sul piano dell’impegno dello Stato nei confronti del Parlamento e nell’impegno del Parlamento nei confronti di sé stesso. Un Parlamento impaurito dai giochi della politica dei partiti ha messo la sordina perfino sulla propria autonomia. Si sono susseguite Presidenze in stato di soggezione sostanziale verso i Governi e l’assetto intero degli apparati di supporto delle Assemblee Parlamentari è deperito. Legislazione e controllo parlamentare hanno sete di nuova linfa vitale, anche nella lungimirante rappresentazione che lei ne da, ancorando quelle attività a forme di cooperazione trasparente con i grandi produttori della conoscenza nel nostro Paese. Invoco per le attività parlamentari l’applicazione di quel compreehensive approach che si invoca nei grandi organismi sovranazionali ed internazionali, nell’Unione Europea come nelle Nazioni Unite in modo che la legge costituisca la “soft skill” per eccellenza nella prospettiva di interessi generali condivisi e democratici.
Le buone leggi, caro Professore, sono l’argine più resistente dei diritti e delle libertà, e le possono scrivere Consiglieri di Stato, Consiglieri Parlamentari, Giuristi, e saranno bollinate dalla Ragioneria dello Stato, e controllate dagli Uffici parlamentari del bilancio, con un limite, che non si dubiti che della loro qualità è responsabile sempre la politica.
Alessandro Diotallevi