Questo articolo segue quello pubblicato ieri (CLICCA QUI), sempre a firma di Domenico Galbiati
La “maternità surrogata” è letteralmente una forma moderna di schiavitù e merita di essere perseguita come reato, anche se praticata al di fuori dei confini nazionali. Ai bambini già nati vanno riconosciuti tutti i diritti che competono ai loro coetanei della famiglia tradizionale ed, in tal senso, il Parlamento deve colmare l’ attuale vuoto legislativo.
Ciò non di meno, è necessario evitare che una pratica, a dir poco, incivile continui a ferire ed umiliare donne e bambini.
In nome di che cosa? In nome di un affermato desiderio di paternità e di un amore che a nessuno spetta giudicare, ma di cui gli stessi protagonisti della vicenda dovrebbero chiedersi se e come la sua autenticità possa conciliarsi con la violenza su cui è fondato. Non si tratta di una domanda gratuita o provocatoria, ma di un quesito che seriamente i committenti di una maternità surrogata dovrebbero rivolgere a sé stessi.
Nessuno può negare la forza e la sincerità dei loro sentimenti, eppure l’amore che è ben più del sentimento, semplice e complesso ad un tempo, nasconde – ed ovviamente vale per tutti, genitori o meno, etero o omosessuali – insidie che vanno messe a nudo. Succede che nelle sue pieghe possa abitare una buona dose, talvolta eccessiva di egoismo mascherato oppure che, inconsciamente, si ripieghi in una posa narcisistica.
Sono i casi della vita e della vita di tutti, eppure, in una sorta di bilancio tra costi e benefici, questa auto-analisi dovrebbe essere affrontata con spietata sincerità nei confronti di sé stessi da parte di chi intende ricorrere ad una pratica che è violenta ed umiliante per la gestante e per il bambino che porta in grembo. Sul capo del quale non si può scaricare nessuna ipocrisia. Prima o poi, probabilmente fin dall’età adolescenziale, il figlio si porrà la domanda irrecusabile relativa alla propria effettiva origine. Una domanda che può diventare angosciosa e non cede a nessuna rassicurazione, destinata a seminare una sofferenza sorda, un sentimento di incompiutezza che accompagna ogni passaggio della vita.
Può sentirsi davvero accolto un figlio che sa di essere frutto di un contratto, più o meno oneroso? “Maternità surrogata” vuol dire dissolvere la persona nel “prezzo” della sua prestazione e “comprarne”, addirittura, non solo il corpo, ma i sentimenti che inevitabilmente nascono nel suo cuore nei lunghi mesi in cui il “prodotto del concepimento” cresce nel suo grembo e diventa “figlio”, come attestano le trasformazioni cui il corpo della donna va incontro per ospitarlo, anzi per accogliere lui, esattamente lui e non un altro, nella sua singolarità insopprimibile, così da creare tra i due quella reciprocità , in virtù della quale l’uno forma e trasforma l’altro, cioè quell’ empatia profonda che lo stesso piano biologico attesta, ma non si arresta li e va ben oltre.
La generatività, la facoltà di dare la vita è, non meno della libertà, la ricchezza più alta dell’ essere umano e non può essere destituita dalla dignità che costitutivamente le appartiene per essere fatta oggetto di un qualunque commercio. Ed è un tutt’ uno che decorre dal l’embrione al feto, al neonato, né può essere lacerata al momento del parto, senza che vi sia, dall’una e dall’altra parte, la sofferenza di uno strappo, la nostalgia di una intimità ferita e per sempre perduta.
Domenico Galbiati