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Le elezioni Usa a un mese dal voto – di Edoardo Almagià

La battaglia più importante di kamala Harris sarà quella per la conquista dei cosiddetti “stati chiave”. Molti sono ancora gli indecisi soprattutto tra i moderati che lei dovrà ora cercare di rassicurare per portarli nell’alveo del Partito Democratico. Tenendo conto delle tensioni che percorrono il Paese, vi sono forti probabilità che queste decisioni vengano prese negli ultimi giorni della campagna.

Essendo ancora parte dell’amministrazione uscente il suo resta un sentiero tutto sommato stretto. Molte delle argomentazioni si erano basate sull’opposizione a Trump e la necessità di salvare la democrazia: non basta mettere in guardia contro la sua elezione, servirà adesso mettere a punto un programma e definire cosa vorranno fare i Democratici nei prossimi quattro anni.

In assenza di una vera e propria campagna elettorale, Kamala Harris nonostante il successo rimane ancora poco conosciuta. E’ stata scelta da Biden a seguito del disastroso dibattito del 27 giugno che per via delle pressioni della dirigenza democratica lo ha indotto ad abbandonare la corsa per la Casa Bianca. Se poco prima aveva dichiarato di non voler rinunciare alla presidenza, con una lettera agli americani Biden annunciava di dover gettare la spugna.

Superata la Convenzione democratica di Chicago, la Harris doveva dissipare i dubbi che rimanevano riguardo la sua figura. Da qui l’importanza del dibattito con Trump che sarebbe stato visto da decine di milioni di americani e avrebbe consentito loro di prenderne ulteriormente le misure e conoscerla meglio. La Convenzione non aveva tutto sommato alterato i sondaggi in modo significativo ed i due avversari erano ancora testa a testa. Si stava profilando una campagna che non sarebbe stata né facile e né indolore.

A sorpresa, giungeva la notizia che due incalliti repubblicani come Dick Cheney e sua figlia Liz avevano dichiarato di compiere il salto e votare per Kamala Harris convinti della pericolosità di Trump. Possiamo a questo punto dire che l’età è dalla parte della Harris, avendo di fronte un Trump al tramonto della sua vita politica con in più evidenti problemi cognitivi: dalla sua però un programma che continua a raccogliere l’adesione di milioni di americani.

Nel confronto televisivo, Trump ha avuto indubbiamente la peggio, ma non si è trattato per lui di uno scacco decisivo, dato che conserva ancora intatto lo zoccolo duro della sua base elettorale.

Come da copione, egli si è dichiarato vincitore pur sostenendo che si sia trattato di un dibattito a tre contro uno, riferendosi alle correzioni apportate dai giornalisti nel corso dei suoi interventi. A più riprese ne avevano infatti contestato le affermazioni, come per esempio nel caso dell’aborto, dei pranzi a base di cani e gatti degli immigrati haitiani ed altre notizie palesemente false. In tutto sono state rilevate 30 dichiarazioni non veritiere.

In conclusione, si è ritenuto soddisfatto della sua prestazione affermando di esserne uscito bene e che si è trattato del suo miglior dibattito. Se tuttavia nel confronto con Biden del 26 Giugno egli aveva raccolto il 67% dei consensi contro il 33% del presidente, stavolta a prevalere è stata la Harris, alla quale è stato dato il 63% delle preferenze contro il 37% di Trump. Un altro sondaggio risultava invece leggermente più favorevole, con il 55% che lo ha considerato più convincente su economia ed immigrazione.

La Harris si è mostrata solida, efficace, concreta ed alla fine ha avuto la meglio: è risultata più chiara e persuasiva del suo avversario, che è stato messo alle corde e si è andato perdendo in dubbie spiegazioni e teorie complottiste. Sapeva che Trump non sarebbe stato un avversario facile da affrontare per la sua indifferenza, se non quasi disprezzo, nei confronti della realtà e dei fatti concreti. Egli comunque rimaneva sempre uguale a se stesso e finiva col non rappresentare più una sorpresa. Nessuno dei due contendenti ha voluto approfondire la questione della diffusione delle armi. E’ un tema che scotta non solo perché vi è chi è contrario, ma anche, e soprattutto, per il potere della National Rifle Association, che visto il gran numero dei suoi membri ha notevoli capacità di influenzare il voto.

Riguardo le questioni internazionali è apparso subito evidente come i due rivali non fossero sulla stessa lunghezza d’onda sulla guerra in Ucraina e le vicende di Gaza. Iniziando con la prima, egli si è vantato di essere disponibile a far la pace in due giorni: appellandosi alla sua amicizia con Orban, ha dichiarato che lo avrebbe aiutato e che alla fine Putin a lui dà retta. Ha voluto concludere affermando “Io sono rispettato: dov’è Biden?”. Sulla questione di Gaza si è detto sicuro che in caso di vittoria della Harris Israele sarebbe scomparso in due anni. E’ stato a dir poco ambiguo quando si è trattato di parlare di pace.

Ergendosi a portavoce dei sentimenti dell’America profonda, Trump è del tutto consapevole che riguardo l’Ucraina gran parte della gente prova un senso di stanchezza e di distacco nel portare avanti e prolungarsi di questo conflitto. Su Israele serve ricordare che parte del suo zoccolo duro elettorale è formato dagli Evangelisti e dai nazionalisti religiosi. In maggioranza, sostengono attivamente lo Stato Ebraico per contribuire alla restaurazione profetica della terra di Israele rendendola fruttuosa. E’ loro scopo prendersi cura del popolo eletto seguendo la profezia biblica nella quale “Tutte le nazioni saranno benedette se Israele lo è per Dio”.

Kamala Harris ribattendo alle prodezze di Trump in politica estera ha risposto che in Europa sono contenti che non sia lui ad essere alla Casa Bianca. Lo ha poi accusato di voler abbandonare l’Ucraina: “Putin ti si mangia”, ha concluso. Parlando di valori, ha dichiarato che per via di quello che sono e rappresentano gli Stati Uniti nessuno vuole emigrare in Russia, Cina, Iran e Corea del Nord.

Tenendo a mente che nello Stato chiave della Pennsylvania vi sono almeno 600 mila polacchi e che numerose comunità dell’Europa dell’Est sono presenti anche negli Stati cruciali del Michigan e del Wisconsin, ha voluto sottolineare l’importanza del tema ucraino. Sul Medio Oriente ha compiuto una deviazione dichiarando che in qualche modo avrebbe ricalibrato la politica americana riguardo Israele e che sarebbe stata favorevole alla soluzione dei due Stati. Molto importante per lei trovare la via per un accordo che possa chiudere la crisi.

Come scritto in un precedente articolo, quello dei palestinesi è una grosso problema per lei e il suo partito, che sulla questione si trova spaccato. In vista delle elezioni non può non porsi la domanda di come voteranno musulmani ed ebrei: ad essere in ballo le sue possibilità di vittoria. La comunità musulmana del paese è la più varia al mondo: al suo interno si trovano neri, asiatici, bianchi e solo il 14% è composto da arabi. Sono però tutti schierati in favore della causa palestinese. Lo stesso più dirsi per un certo numero di giovani e parte della comunità universitaria. A confermarlo, le numerose manifestazioni che si sono svolte attraverso il paese, fino alla Convenzione di Chicago e ai cancelli della Casa Bianca.

Diversa, soprattutto nelle opinioni, è anche la comunità ebraica che in passato si era sempre schierata a gran maggioranza in favore dei Democratici. Quest’appoggio oggi non può più dirsi garantito. Vi sono molti dubbi che la percorrono al suo interno e per l’elettore ebreo le vicende attuali rappresentano un tasto dolente. Malgrado gli interrogativi, è mia opinione personale che alla fine la sua maggioranza finirà con lo schierarsi in favore della Harris. Molti giovani Democratici esitano tutt’ora e le sue dichiarazioni qualche dubbio lo fanno sorgere. Dovrà dunque persuadere la sua base di giovani elettori il cui appoggio resta a volte incerto: più degli adulti sono infatti sensibili alle vicende di Gaza e maggiormente proni a criticare Israele.

Per ridare slancio alla sua campagna elettorale, Trump aveva deciso di attaccare la Harris mettendo l’accento sui temi dell’economia e dell’immigrazione. Partendo da questo punto ha voluto insistere su ciò che egli riteneva fosse meglio per gli americani: forti bordate dunque sulla situazione economica che vede tante famiglie in difficoltà e l’inflazione che impoverisce molti cittadini. Ha avuto cura di sottolineare come in questi ultimi anni i Democratici abbiano fatto salire i prezzi alle stelle in quanto responsabili della “peggior inflazione della storia americana”.

Attaccando l’aborto ha lanciato un’offensiva contro le donne, alla quale la Harris ha risposto a dovere. Denunciando il fallimento della politiche sull’immigrazione del Partito Democratico di cui la riteneva responsabile, si è lanciato in una filippica che lo ha portato a raccontare l’inverosimile storia degli haitiani che mangiavano i cani ed i gatti sottratti ai loro padroni. A farla breve, è risultato più aggressivo e violento della sua avversaria ripetendo essenzialmente ciò che andava dicendo da anni. A sentirlo parlare di ordine, giustizia e criminalità vi è, a pensarci, una certa ironia dato che più che nello Studio Ovale il suo posto dovrebbe essere sul banco degli imputati in un’aula di giustizia.

A Washington la maggioranza degli analisti ha dato la vittoria alla Harris che è riuscita indiscutibilmente a dominare il dibattito, cosa che le avrebbe dato una spinta di fronte ai moderati e agli indecisi. Davanti a qualcosa come 70 milioni di americani incollati alla tv per non perdersi un momento del confronto, è riuscita a descrivere il suo avversario come un pericolo per il paese e per la democrazia. Trump avrebbe dovuto mostrarsi disciplinato e razionale, cosa che non gli è riuscita molto bene, mentre lei è stata capace di frenare il suo avversario riuscendo dunque a dimostrarsi più e meglio preparata: per lei la posta in gioco era più alta e ne è uscita tutto sommato bene.

Positiva anche la notizia dell’appoggio della popstar Taylor Swift: ha dichiarato di essersi informata a fondo al punto di convincersi che il candidato migliore fosse Kamala Harris. Benché abbia su Instagram qualcosa come 280 milioni di followers,  ciò non sarà sufficiente ad indirizzare le opinioni. Con l’influenza che ha però sui giovani, generalmente poco propensi a votare, potrebbe persuaderne un certo numero a recarsi alle urne in favore della Harris: qualunque l’esito, il suo appoggio è riuscito a generare interesse in lei.

A sostenere Trump è invece Elon Musk, che con lui ha unito le sue sorti. Anche il miliardario ha un suo seguito e si è precipitato a definire Taylor Swift una “gattara”. Anche in questo caso non penso l’uscita del personaggio possa orientare in modo significativo l’esito di queste elezioni.

Qualunque cosa si pensi, credo che i 90 minuti di questo dibattito possano essere i più importanti da anni della politica americana. A consentire la vittoria ad uno dei due candidati in un momento come questo possono essere davvero alcune migliaia di voti. Non si è certo trattato dell’elezione, ma la vittoria nel dibattito della Harris in qualche modo ha contribuito ad indebolire Trump. Di riflesso, ha invogliato però l’elettore a darle il voto? Suo marito Douglas Emhoff le ha ricordato che per ora ha solo vinto un dibattito e che la campagna resta ancora tutta aperta.

Resta adesso la giornata del 1 ottobre, nella quale si affronteranno i due candidati alla vicepresidenza, Tim Walz e J.D. Vance. Ritengo con tutta probabilità che di tutti i dibattiti questo potrebbe essere il più concreto ed interessante. Aggiungo che se in tempi normali i confronti televisivi tra i vice non avevano fino ad oggi avuto alcun impatto sul risultato finale, in una situazione come quella attuale qualche vantaggio potrebbe però offrirlo.

In caso di vittoria di Kamala Harris ci si troverebbe di fronte ad un evento storico: non si tratterebbe solo della prima donna ad essere eletta presidente, ma anche la prima di colore. Se venisse sconfitto Trump la domanda cade sul futuro del Partito Repubblicano: in che modo riuscirebbe a ricomporsi e come finirebbe col riconfigurarsi l’opposizione? La sola certezza è che il Paese resterà diviso, tanto che non sono pochi a pensare che queste elezioni non si chiuderanno dopo la data di martedì 5 novembre.

Dati i precedenti non è improbabile che in caso di sconfitta Trump, che non è solito cambiare le sue abitudini, potrebbe contestare i risultati elettorali prendendosela in particolare con il voto per posta. Vorrei però sottolineare che il sistema elettorale negli Stati Uniti può reputarsi solido e se perciò i numeri non saranno dalla sua parte, non credo potrà fare più di tanto. Il motivo è che se vi fossero dei rischi nell’affidarsi alla regolarità del voto, una democrazia non potrebbe che ritenersi minacciata.

Edoardo Almagià

 

 

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