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Le questioni dei salari e della via giusta per aumentarli – di Natale Forlani

Una recente indagine Eurostat sull’andamento dei salari nel corso del 2022 nei Paesi aderenti all’Ue assegna all’Italia il quartultimo posto della classifica con un modesto incremento del 2,3% rispetto all’ 8,7% del tasso medio di inflazione nazionale rispetto alla crescita del 4,4%, rapportata al 9% della crescita dei prezzi registrata nel Continente.

La svalutazione dei salari reali in Italia procede a un ritmo decisamente superiore rispetto a quello dei prezzi importati, in particolare quelli delle forniture energetiche, che rappresentano una sorta di tassa pagata dall’insieme della comunità nazionale ai Paesi esportatori. Qualcosa che, evidentemente, ha a che fare con una redistribuzione dei redditi sul fronte interno a vantaggio dei profitti, come sottolineato recentemente dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

L’effetto parallelo di questo scostamento è stata la riduzione dei risparmi delle famiglie, di poco inferiore al 2%, per la finalità di mantenere i consumi e gli stili di vita precedenti, bruciando parte dell’accumulo realizzato, anche per motivi forzosi, nei due anni della pandemia. Una condizione non accessibile per le famiglie meno abbienti che scontano anche i riflessi di un tasso di inflazione che risulta più elevato per i prodotti alimentari e per quelli di prima necessità.

Il rischio della temuta spirale della rincorsa tra prezzi e salari non si è verificato e nel contempo deve esser presa in seria considerazione la prospettiva di una riduzione della propensione ai consumi con effetti depressivi sulla domanda interna. I profitti risultano avvantaggiati da una serie di fattori: in particolare dalla svalutazione dei crediti e degli ammortamenti, ma soprattutto dalla consuetudine di ritenere che gli incrementi dei prezzi già realizzati vengano accettati dai consumatori come un dato acquisito. Un esempio eclatante è la resistenza adeguare i prezzi dei carburanti alla riduzione dei costi del petrolio.

La questione salariale sta diventando un tema molto serio. Impoverisce le famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati e contribuisce in modo non marginale alle difficoltà di una parte significativa delle aziende a trovare personale disponibile per i propri fabbisogni. Se prolungata nel tempo produce effetti depressivi sull’andamento dei consumi e della crescita dell’economia.

La strategia di contenimento dei danni sinora adottata è stata quella di fare leva sull’erogazione di aiuti da parte dello Stato per contenere l’incremento dei costi delle bollette energetiche e delle accise sui carburanti, che è in fase di esaurimento, e di ridurre una parte degli oneri contributivi sulle retribuzioni dei lavoratori.

Sono comparti caratterizzati da una crescita contenuta della produttività per via della bassa intensità degli investimenti che si riflette in negativo sulla dinamica dei salari. Il segnale dell’esaurimento di una strategia di gestione delle imprese che ha accompagnato lo sviluppo di molte attività dei servizi negli anni Duemila è rappresentato dalle difficoltà di reperire personale a queste condizioni.

L’obiettivo d’incrementare la produttività e le retribuzioni dei lavoratori, utilizzando per lo scopo l’enorme potenzialità di tecnologie che risultano sottoutilizzate nei due terzi del sistema economico, sull’esempio dei risultati ottenuti nei settori manifatturieri dovrebbe essere assunto dalle parti sociali come una sorta di linea guida per rimettere in moto la contrattazione collettiva. Invece l’unico punto di convergenza tra le associazioni dei datori di lavoro è la richiesta di ridurre il peso del fisco e dei contributi sociali per rendere socialmente sostenibili le basse retribuzioni. In poche parole di utilizzare le risorse pubbliche, sottraendole dagli scopi originali e in particolare dal finanziamento del sistema pensionistico, per compensare l’incapacità di generare nuova ricchezza da redistribuire.

Una strategia che risulta fallimentare per tre motivi. I margini per un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale per le basse retribuzioni sono ridotti al lumicino, dato che in questa fascia di redditi da lavoro dipendente e pensioni il prelievo fiscale risulta risicato e quello dei contributi sociali deve fare i conti con l’aumento del numero dei pensionati atteso per via dell’invecchiamento della popolazione. La copertura dei costi della riduzione del cuneo è una sorta di partita di giro interna al mondo dei lavoratori dipendenti e dei pensionati a discapito delle retribuzioni medio alte e delle rendite pensionistiche, frutto di numerosi anni di contributi, che non vengono rivalutate rispetto all’andamento dei prezzi. Il risultato finale di queste operazioni non è il rimedio delle disuguaglianze, come propagandato dai sostenitori di queste politiche, ma lo schiacciamento verso il basso della crescita e della redistribuzione del reddito.

Descritta in questo modo la questione salariale diventa una cartina tornasole dei comportamenti della nostra comunità desiderosa, a parole, di utilizzare le risorse disponibili per rendere la nostra economia più produttiva e sostenibile. Ma del tutto incapace di assumerne le conseguenze.

Natale Forlani

Pubblicato su IlSussidiario.net (CLICCA QUI)

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