E’ ancora presto per dare un giudizio attendibile sul movimento delle “sardine”. A maggior ragione se si volesse tentare una prognosi, cioè un giudizio sugli esiti a distanza di un moto d’opinione che appare, ad ogni modo, rilevante; in nessun modo da sottovalutare.
D’ altra parte, è bene astenersi da pareri e consigli non richiesti. Evitiamo, insomma, di assediare le sardine, di proiettare su di loro attese e speranze, cui gli attori dell’attuale scena politica non sanno corrispondere in proprio.
E le sardine si guardino dagli adulatori e da rancorosi, attempati intrusi che cercano in una piazza di giovani l’ improbabile rivincita morale dei loro antichi fallimenti.
Lasciamole libere di navigare e consentiamo – senza facili strumentalizzazioni, senza pretendere di soffocarle negli schemi ossificati della contesa politica contingente – che abbiano tempo e modo di fermentare e chiarificare quel che di buono sembrano poter promettere.
E, una volta tanto, è giusto invocare prudenza, effettiva oggettività, responsabilità e capacità di paziente attesa anche da parte del mondo della comunicazione che deve evitare di trasformare in un oggetto di consumo, nella quotidiana rincorsa mercantile all’ audience, un movimento che ha, in ogni caso, il merito di portare in superficie istanze e sentimenti che arricchiscono il contesto civile del nostro Paese.
Le sardine non meritano di essere infilate in un imbuto mediatico che trita tutto e di tutto fa carne da macello. Se son rose fioriranno…ma dipende da tutti noi consentire che questo germoglio possa crescere, possa esprimere le sue potenzialità.
Se poi dovesse appassire, sia piuttosto per una sua fragilità intrinseca che, ad oggi, non possiamo ancora tassativamente escludere e non per errori cui le sardine siano indotte dagli interessati osservatori al contorno.
Per ora, senza pretendere, programmi mirabolanti, dobbiamo apprezzare che, nel tempo del’antipolitica – che, non dimentichiamolo, non se l’è inventata Salvini, ma risale al primo Berlusconi del’94 – vi siano dei giovani che finalmente la sdoganano e chiedono un ritorno alla “politica”, a quella vera, antitetica alla violenza dei toni oggi in uso.
Sapendo che, ovviamente, non è questione di galateo, ma, se mai, di sapere che, anche nel loro caso, “il mezzo e’ il messaggio”, cioe’ la forma composta e seria del confronto politico gia’ ne fa la sostanza. Una politica condotta con la competenza e la pacatezza di una comprensione seria ed oggettiva delle questioni in gioco. Rifiutando la rissa e le contumelie; rifiutando un confronto che, del tutto a prescindere dai contenuti, non sia altro che la selezione muscolare del “maschio alpha” cui sottomettere l’harem dell’ intera pubblica opinione.Ed, infine, una politica francamente “europeista”.
Tornare alla “politica” – ancor prima di considerare i contenuti – significa due cose di importanza fondamentale.
Anzitutto, ritenere che la storia tumultuosa dei nostri giorni sia ancora ed effettivamente tale; non un accadere di eventi che si sovrappongono gli uni agli altri, in maniera casuale e caotica, bensi’ una sequenza di cui si possa cogliere un nesso di continuità. E, secondariamente, che la capacità di decifrare, per quanto possibile, questo senso della storia, consenta di orientarne, almeno in qualche misura, il corso.
Ad ogni modo, c’è da augurarsi che i ragazzi delle sardine si tengano alla larga da alcuni possibili errori che potrebbero rivelarsi esiziali. Anzitutto dalla trappola infernale del “leaderismo” e piuttosto conservino quanto più possibile – e sia pure intanto che via via il movimento si struttura – un’attitudine alla collegialità.
In secondo luogo, evitino di farsi imporre la tempistica impellente della quotidianità della politica e si prendano il tempo necessario a maturare e svolgere l’impasto di ragioni e di emozioni, di sentimenti, di attese e di contenuti, di aspirazioni di diversa origine che hanno portato in piazza. Che non subiscano e non ricerchino accostamenti impropri con le forze già in campo.
Che sappiano andare oltre l’empatia della piazza, le parole d’ordine e gli slogan del “politicamente corretto”, il moralismo strisciante degli ipocriti. E, soprattutto, ricordino che la libertà di ciascuno ha molto a che vedere con la giustizia sociale e le legittime attese della “povera gente”.
Domenico Galbiati