Letta, annunciando di non volersi ricandidare alla segreteria del PD, ha compiuto un gesto necessario, che sta, cioè, nell’ordine delle cose dopo il risultato negativo del 25 settembre, ma soprattutto coraggioso e leale nei confronti del suo partito. Gesto con il quale fa ammenda, in un certo senso, anche di responsabilità che non gli sono addebitabili, almeno in modo esclusivo, in quanto temporalmente risalgono ben al di là della sua segreteria, essendo addirittura connesse all’ idea stessa che potesse esistere un siffatto partito.
Anche la sconfitta cui approda oggi il PD appartiene, in ultima analisi, all’ordine della “necessità”. Non è ascrivibile soltanto alla particolare contingenza di questa fase politica, né ad una campagna elettorale non ben condotta. La mancata costruzione del cosiddetto “campo largo” – nuova formulazione della “vocazione maggioritaria” o, piuttosto, tarda “reminiscenza prodiano-ulivista” ? – è il risultato di una originaria e connaturata indeterminatezza di cultura politica che impedisce al PD di elaborare una visione strategica. L’assenza di quest’ultima dà poi conto di quel vermicolare di correnti interne al partito che, per un verso, tradiscono il suo prevalente carattere di mero aggregato elettorale in cui si intrecciano gli interessi particolari di vari clan d’apparato, più o meno personali, dall’altro testimoniano la affannosa e costante ricerca tentacolare di un “ubi consistam” che non c’è, né poteva esserci nella pur lunga teoria di segretari che si sono succeduti alla sua guida.
Per di più Letta è mancato – e prima di lui soprattutto Zingaretti, al momento della riduzione del numero dei parlamentari – all’appuntamento con una nuova legge elettorale proporzionale.
Non ha compreso, infatti, l’urgenza di liberarci dalla camicia di forza del bipolarismo. Sul quale, al contrario, ha addirittura dato l’impressione di voler investire cercando di ricondurre e ridurre il confronto elettorale ad una contesa tra lui e la Meloni. Invitando, con un infelice slogan dal tono imperativo, gli italiani a “scegliere”, cosa che hanno puntualmente fatto. Peraltro, i cosiddetti “diritti civili” – che hanno la loro ragion d’essere, purché non diventino il cavallo di Troia di una concezione individualista e di stampo radicale della vita – hanno finito per caratterizzano la proposta del PD senza alcun riguardo nei confronti di una vocazione “popolare” che pur avrebbe dovuto appartenergli. Né basta unire i “riformisti” per darsi un’identità, se non si precisa la cifra culturale secondo cui si intende orientare la propria proposta politica.
Ora il PD deve affrontare un severo esame della sua prospettiva politica. Esame che se intende essere
schietto, com’è necessario che sia, non può prescindere dal considerare l’opzione estrema dello scioglimento, cosicché le varie “anime” culturali e storiche che vi hanno concorso, possano riprendere ciascuna il proprio cammino, riscoprire le potenzialità che tuttora le abitano, vivificarle aggiornandole. E, da soggetti politico-culturali autonomi e liberi, affrontare ciascuno, per la propria parte, la sfida che oggi pone la destra al potere.
Domenico Galbiati