E’ sorprendente leggere negli atti di convegni che risalgono alla seconda metà degli anni ‘70, a ridosso della prima elezione diretta, a suffragio universale, del Parlamento di Strasburgo – quasi mezzo secolo fa, tanto per farsi un’idea – la timidezza, quasi l’ ingenuità con cui si cominciava ad ammettere come stesse prendendo corpo una stagione per la quale le politiche nazionali si avviavano ad essere, in molti ambiti, nient’ altro se non variabili dipendenti dalle politiche europee.
Oggi, in tal senso, la cosa è conclamata e solo la cecità ottusa del populismo nazional-sovranista pretende di negarlo.
Il concetto di “sovranità” andrebbe rimesso a tema e concepito al plurale, come concertazione di più livelli, ciascuno dei quali solo armonizzandosi agli altri, riesce ad esprimere a pieno la propria potenzialità. Chi pretendesse di trattenere la “sovranità” nel perimetro dei confini e degli interessi nazionali, di fatto la negherebbe. Questo vale nel rapporto tra l’Europa e gli Stati nazionali ed, a scalare, vale allo stesso modo tra questi ultimi e le regioni, come tra queste e gli enti locali.
La stessa “sussidiarietà” non avrebbe senso se fosse concepita, in sé e per sé, come la pretesa di sequestrare determinate competenze a favore dei ranghi inferiori della gerarchia istituzionale. Vale, piuttosto, nella misura in cui consente che determinati servizi vengano assunti in carico da livelli istituzionali, si potrebbe dire “umanamente accessibili”, cioè dimensionati in modo tale da minimizzare il pur necessario impianto burocratico e massimizzare il versante della relazionalità interpersonale tra gli attori del sistema.
La “sovranità”, in sostanza, non è un principio astratto, bensì esige, nella sua concreta attuazione, che vi sia, ad ogni livello, un correlato ottimale tra una certa funzione e la dimensione territoriale entro cui la si assume e la si esercita.
Politica estera e difesa, per restare ai riferimenti più immediati, sono ambiti tali per cui se la “sovranità” non verrà assunta pienamente a livello europeo, quella “nazionale” non sarà che mera finzione. Così in altri campi, ad esempio, la ricerca scientifica.
Uno scienziato, oggi, non è effettivamente tale se non è in grado di interloquire addirittura con l’intero scacchiere internazionale, ma nella singolarità di ciascun Paese la cosa riesce difficile e solo una strategia d’insieme ed una piattaforma programmatica di livello europeo gli consentono di competere con il resto del mondo. Eppure, cosa manca all’Europa perché possa camminare spedita verso l’unità politica e strutturare una propria ed effettiva sovranità?
Le manca la percezione del suo posto nel mondo, la consapevolezza del ruolo che la storia e la sua cultura le assegnano, eppure non osa esercitare. Le manca la capacità di credere in quell’ identità che nessuno – vale per la singola persona e vale per un popolo intero – si costruisce da solo, ma è data – anzi, “donata”, si dovrebbe dire – dalle circostanze della vita, dall’ apparente casualità degli eventi, dai vissuti e dalle esperienze che li accompagnano, dalle responsabilità che la storia, arbitro inappellabile, cuce addosso ad un popolo. Le manca la coscienza di essere un popolo solo.
Percosso, ferito e frammentato da lotte storiche immani, infine dal trauma di due guerre civili europee, combattute nel cosiddetto “secolo breve”, sul suo suolo, nel giro di soli trent’anni. Eppure, un popolo solo – non sembri un paradosso – proprio in virtù della condivisione di questa vicenda drammatica. L’Europa, come la conosciamo oggi, nasce da un progetto di pace e nella pace deve riconoscere il suo compito e l’ approdo della sua responsabilità.
Al contrario, si ha troppo spesso l’ impressione che la sua storia, anziché indicarle il cammino, sia, piuttosto, una palla di piombo al piede, un freno, un ingombro, una remora piuttosto che una risorsa.
Come se fosse esausta e preferisse sedere in panchina, piuttosto che battersi in campo. Senonché, come in quella di ognuno, anche nella vita di quella “persona collettiva”, si potrebbe dire, che sono i popoli, i processi di grande e rivoluzionaria portata, si sviluppano lungo una traiettoria che decorre tra la “vis a tergo” della propria vicenda storica ed un punto lontano che funge da “attrattore”, un porto auspicato, un “telos” atteso, velato dalla lontananza e che si può via via scorgere solo sciogliendo le vele ed andandogli incontro.
Ma l’ Europa non osa affrontare il mare aperto perché non ha fiducia in se’ stessa e, in questo modo, rischia di regalare alle pulsioni irrazionali del nazional-sovranismo il suo straordinario patrimonio storico ed ideale, culturale e civile.
Domenico Galbiati