Putin scherza con il fuoco. Con il discorso che ieri ha pronunciato a Mosca, in perfetto stile sovietico, spinge l’Europa intera fino ed oltre uno stato di tensione e di allarme quale i nostri Paesi non avevano mai conosciuto, neppure negli anni più crudi della Guerra fredda. L’ attacco a Kiev è, di fatto, anche un’aggressione all’Europa, all’idea stessa che l’ Europa possa esistere come tale.
E’ difficile, in queste ore, capire come possa evolvere la situazione in Ucraina già da oggi e nei prossimi giorni, ma, pur con tutta la prudenza che e’ necessario osservare, non e’ affatto escluso che ci si trovi nel mezzo della più pericolosa crisi internazionale, dopo la Baia dei porci e la vicenda dei missili sovietici a Cuba nell’ ottobre ‘62. Quando, negli stessi giorni in cui, a Roma, prendevano avvio i lavori del Concilio Vaticano II, l’alea di uno scontro nucleare aleggiava sui destini del mondo.
Crisi di questa portata sono drammatiche nella misura in cui appaiono scivolosamente aperte a sviluppi, in larga misura impredicibili, tali da potersi sottrarre al controllo delle parti e ai loro acrobatici giochi d’azzardo.
In ogni guerra, c’è una linea di combattimento e c’è un fronte interno. E questo è vero soprattutto oggi quando non si combatte solo con le armi da fuoco, ma anche mediaticamente, attaccando la coesione politica e civile e la tenuta morale dei Paesi contro cui è rivolta l’offensiva. Va detto, del resto, che, per molti aspetti, oggi le politiche interne di un Paese altro non sono se non una variabile dipendente dalla sua politica estera, dalla collocazione internazionale e dalle relazioni che coltiva, più o meno in linea con la sua storia e la sua tradizione.
In questo senso la crisi ucraina è un’occasione per osservare più da vicino quel che succede, su questo versante, in casa nostra. Cos’è rimasto delle simpatie leghiste per l’amico Putin, che, peraltro, Berlusconi ha mostrato, in più occasioni, di considerare una sorta di sodale? E della generosa considerazione riservata da Di Maio alla cinese “Via della seta”? E dell’euroscetticismo, se non dell’aperta avversione all’ Europa da cui, in tempi diversi, l’ uno e l’altro si sono tatticamente defilati, peraltro senza un effettivo chiarimento in ordine al reale intendimento strategico?
Draghi, dopo la “promenade” di Di Maio a Mosca, sarebbe stato in procinto di incontrare Putin che lo avrebbe invitato a colloquio, forse per indurre in tentazione il nostro Paese e saggiarne la “compostezza” atlantica. C’è ovviamente da augurarsi che, pure a guerra di fatto dichiarata, il prestigio internazionale del nostro Presidente del consiglio concorra a mantenere aperto un canale diplomatico al più alto livello.
Prima di lui anche Macron e Scholtz, pur senza ottenere alcun successo sul piano diplomatico, pare abbiano superato il loro esame di fedeltà all’alleanza, segnalando, in tal modo, ed almeno fin qui, una compattezza che non sempre l’Europa ha saputo mostrare in altre occasioni.
L’ Europa, oggetto del desiderio, è catturata nel gioco, si potrebbe dire “tripolare a due” tra Stati Uniti da una parte, Russia e Pechino dall’altra. Rappresenta una sorta di terzo o quarto incomodo in una geometria di potere nella quale il suo peso e la sua appetibilità attengono più che alla caratura economico-produttiva o al tenore tecnologico, al dato geopolitico e soprattutto alla valenza simbolica del profilo storico-culturale del vecchio continente e della sua attestazione attorno ai valori civili e morali della democrazia, in un mondo in cui le autocrazie per un verso ne soffrono la sfida, per altro verso fiutano il vento a loro favore.
Chi dovesse, in un certo senso, aggiudicarsi l’Europa, nel senso di attrarla stabilmente nella propria sfera di influenza geo-politica – o almeno escluderla dal gioco, ottenendo, se non altro, di non concederla al nemico – disporrebbe di una carta decisiva al tavolo del “Risiko” internazionale di cui si vanno muovendo le prime pedine di una nuova partita, resa più dirimente ed impegnativa dalla consapevolezza puntuale della dimensione “planetaria” in gioco, messa in forte evidenza dalla pandemia.
Non siamo in presenza di una partita cristallina, bensì zeppa di sottintesi – anzitutto in capo ai due grandi attori in campo, aggiungendovi poi pure la Cina – che forse solo nel tempo e secondo l’evoluzione degli eventi potranno via via chiarirsi.
Qual è la vera natura del nuovo rapporto che, con Biden, si va instaurando tra USA e vecchio continente? Fino a che punto gli Stati Uniti sono vitalmente interessati ad una relazione attiva con l’Europa e non considerano piuttosto questo rapporto più che altro funzionale a coprire il loro versante orientale, proiettando piuttosto la loro preminente iniziativa politica verso l’altro oceano? E verso quali lidi può immaginarsi l’evoluzione del “duopolio asiatico” messo in scena da Russia e Cina?
Intanto, certo è che l’Europa non può che lagnarsi con sé stessa se le tocca giocare la parte del birillo. Deve decidere se vuol vivere la sua storia millenaria come una palla di piombo al piede che la frena o non, piuttosto, come dovrebbe essere, quale faro di civiltà in grado di segnalare la rotta ben oltre l’orizzonte dei suoi confini.
In fondo, l’Europa è, sì, quel pezzo di mondo che, nel secolo scorso, ha combattuto, sul suo suolo, nel giro di soli trent’anni, due sanguinose e sanguinarie, cruente guerre civili, ma è anche una straordinaria categoria dello spirito, la sintesi di una meravigliosa vicenda umana. Senonché, deve decidere se farsi carico di sé stessa o, al contrario, scansare l’ onere ed il peso di una responsabilità che la sua stessa storia le consegna.
Il rifiuto, consumato a suo tempo, di riconoscere a pieno le sue radici cristiane depone per una ambigua e pigra propensione all’ oblio delle risorse che vitalmente le appartengono e sulle quali dovrebbe avere il coraggio di investire per trarne le speranze possibili per un futuro che è, pur sempre, nelle nostre mani.
Domenico Galbiati