Una nuova preoccupazione per l’Italia e le economie occidentali sta emergendo: la novità di una ventata inflazionistica, assente finora nel nuovo millennio, ma che aveva attanagliato, specie nel nostro paese, gli Anni Settanta-Novanta del secolo scorso. Ora si parla di inflazione dei prezzi su base annua del 4-7 per cento, a seconda dei paesi. Allora si trattava di inflazioni superiori al 10 per cento annuo, e in Italia fino al 25 per cento.
Si parla d’inflazione dei prezzi, ché il sostantivo “inflazione” regge numerose specificazioni (dei prezzi, dei salari, dei consumi, degli investimenti, delle esportazioni, dell’occupazione, della massa monetaria, di ogni altra grandezza suscettibile di crescere, di gonfiarsi, d’inflazionarsi). Se “inflazione” viene usata senza specificazioni, normalmente s’intende “dei prezzi”.
Ora – semplificando di molto rispetto al corpo della teoria economica – l’inflazione può essere attivata o da un aumento della domanda aggregata, a parità di offerta aggregata, o da un aumento dei costi di produzione, in costanza della domanda aggregata. Si parlerà di “inflazione da domanda” o di “inflazione da costi” e le due tipologie possono interagire nel senso che un’inflazione da domanda può evolvere di per sé in un’inflazione da costi, e viceversa.
L’inflazione che oggi ci preoccupa è chiaramente del tipo “da costi”, dovuta a un aumento rilevante dei prezzi dell’energia e da colli di bottiglia nelle catene si approvvigionamento di beni intermedi e di beni finali. L’ampia disponibilità di massa monetaria in essere a livello mondiale ha impedito che l’aumento della domanda di moneta – determinato inevitabilmente dall’aumento dei prezzi – attivasse un freno alla crescita dei prezzi stessi attraverso il conseguente aumento dei tassi d’interesse e la conseguente flessione della domanda aggregata.
A parte gli Stati Uniti, non si è avuta finora l’attivazione di un ulteriore stimolo alla crescita dell’inflazione in séguito a tensioni nel mercato del lavoro; fatto che si ebbe, invece, negli Anni Settanta e successivi del secolo scorso: aumento del prezzo del petrolio che fece aumentare i prezzi dei beni di consumo finale, che spinse all’insù i salari, che fece aumentare i costi di produzione interni e diede una nuova spinta all’insù dei prezzi; per cui l’inflazione attivata dall’aumento dei prezzi dell’energia generò una spirale inflazionistica salari-prezzi, che spinse l’inflazione dei prezzi nel mondo occidentale a livelli mai toccati nel corso del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale.
Finora questo ampliamento della dinamica inflazionistica non si è avuto in Europa, ma c’è chi – paventando soprattutto il ritorno al 20-25 per cento d’inflazione dei prezzi – richiama l’attenzione della BCE affinché aumenti i tassi d’interesse ai quali finanzia l’economia, di modo che la domanda aggregata sia ridotta e, così facendo, l’inflazione venga mantenuta sotto controllo. Ma la significativa flessione della domanda aggregata non potrebbe non avere effetti negativi sui livelli produttivi, sulla ripresa dell’economia europea in corso dopo la forte crisi del 2020, che ci pare così buona (6 per cento di crescita annua del PIL nel 2021 rispetto all’anno precedente), di un PIL che si era però ridotto del 10 per cento nel 2020, con un recupero del 4 per cento nel 2021).
Effetti negativi sulla produzione che non potrebbero che avere effetti negativi sull’occupazione del lavoro. In altri termini, non potrebbe che fa aumentare l’inoccupazione, in una delle varie forme che questa può assumere: persone senza occupazione in cerca di essa (i disoccupati), ma anche persone sottoccupate in termini di ore di lavoro svolte (part-time involontario) o di qualità di prestazioni lavorative rispetto alla propria qualificazione, ma anche lavoratori sospesi (in cassa integrazione guadagni, diciamo in Italia), ma anche persone in età lavorativa senza occupazione e che non la cercano attivamente in quanto scoraggiati nella ricerca per gli insuccessi avuti in passato, ma anche lavoratori occupati con elevata precarietà nel rapporto di lavoro, i quali presentano stati occupazionali, per certi versi – la dignità del lavoratore, in primis – simili all’inoccupazione.
Siamo arrivati al bivio fra provocare un freno alla domanda aggregata, che potrebbe contenere l’ulteriore aumento dei prezzi, ma che verosimilmente farebbe aumentare l’inoccupazione (in una delle varie forme che essa può assumere) oppure non attivare questo freno sulla domanda aggregata al fine di non provocare un aumento dell’inoccupazione ma, allo stesso tempo, non provocare un contenimento dell’inflazione.
La scelta fra le due vie da imboccare deve passare attraverso il confronto fra i costi che verosimilmente si avranno seguendo o l’una o l’altra.
L’aumento dei prezzi è indubbiamente fonte di disagio poiché fa variare il potere d’acquisto della moneta; cioè, in un’economia nella quale le transazioni economiche e finanziarie vengono definite in termini monetari, fa variare l’unità di misura adottata, creando confusione. Se ogni anno il metro con cui si misurano le distanze fosse ridefinito, riducendone la lunghezza, si creerebbero confusione e inconvenienti: nel misurare una distanza sarebbe infatti indispensabile specificare se la misura è in metri del 2020 o in metri del 2021 o in metri… Analogamente, il metro monetario diventa un’unità di misura meno utile e genera confusione quando il suo potere d’acquisto varia continuamente nel corso del tempo.
Dato per assodato questo costo dell’inflazione dei prezzi, abbiamo che ne esistono altri, i quali sono differenti a seconda che l’inflazione sia prevista o imprevista. Se l’inflazione fosse prevista, se ogni aumento dei prezzi dei beni acquistati fosse compensato da un uguale aumento dei redditi, se tutti i redditi fossero, per così dire, pienamente indicizzati ai prezzi, l’unico effetto dell’inflazione sarebbe quello di moltiplicare tutti i prezzi e tutti i redditi nominali moltiplicandoli per un fattore maggiore di 1, senza influire in alcun modo sulle grandezze reali (a parte i cosiddetti costi di revisione dei menù, dati dal consumo di risorse reali derivante dall’aggiornamento dei prezzi, dalla revisione dei cataloghi di vendita, dalla riprogrammazione delle macchine distributrici di prodotti e dalla rinegoziazione delle remunerazioni, a meno che queste ultime fossero perfettamente indicizzate all’andamento dei prezzi.
L’inflazione dei prezzi non è comunque un fenomeno caratterizzato da prezzi e da redditi che aumentano tutti nelle stessa misura e in modo perfettamente previsto; anzi, tanto più la media dei prezzi aumenta tanto più ne aumenta anche la varianza. I prezzi relativi vengono quindi a essere alterati in modo rilevante durante i periodi inflazionistici e tanto più quanto maggiore è l’inflazione. Viene fortemente ridotta l’efficienza del meccanismo dei prezzi, il che provoca distorsioni nell’allocazione delle risorse fra le diverse produzioni. Inoltre, all’aumentare del tasso medio d’inflazione, solitamente cresce la volatilità delle variazioni di mese in mese, con il che aumenta il rischio delle scelte di investimento e di produzione e, a meno che gli imprenditori siano propensi al rischio, ciò creerebbe intoppi alla crescita economica. Ma questa possibile correlazione di segno negativo fra inflazione e crescita economica non è comunque robustamente confermata sul piano empirico.
Poiché l’inflazione dei prezzi non è perfettamente prevedibile, essa produce certamente alterazioni nella distribuzione dei reddito e della ricchezza all’interno del sistema economico fra gruppi sociali.: 1) fra i percettori di reddito fisso e i percettori di reddito variabile; 2) fra i percettori di salario e i percettori di profitto; 3) fra i debitori e i creditori e altri ancora.
Sulla prima alternativa, va da sé che l’inflazione dei prezzi danneggia i primi rispetto ai secondi. Sulla seconda, tutto dipende dal fatto che i salari crescono più rapidamente o più lentamente dei prezzi; si può prevedere che l’inflazione da domanda tenderà a far aumentare la quota relativa dei profitti all’interno del reddito nazionale, mentre l’inflazione da costi (del lavoro) presumibilmente favorirà i percettori di salario a spese dei profitti. È evidente che l’aumento dei prezzi danneggia i creditori a vantaggio dei debitori, a meno che l’aumento dei prezzi non venga integralmente trasferito sui tassi d’interesse nominali, a salvaguardia dei livelli dei tassi d’interesse reali. In presenza d’imposizione fiscale progressiva, l’aumento dei prezzi fa aumentare il valore nominale dei redditi imponibili, con il possibile scatto verso aliquote marginali crescenti (cosiddetta imposta da inflazione). Ciò ha un significato di tipo riequilibrante nella distribuzione del reddito nazionale. Inoltre lo Stato può utilizzare il gettito da imposta da inflazione nella direzione di aumentare l’erogazione di servizi gratuiti o di sussidi monetari ai bisognosi e alle fasce di reddito più basse.
I dati mostrano che i costi reali effettivi dell’inflazione sono probabilmente contenuti e che gli effetti redistributivi dell’inflazione sono aleatori e tendono a operare in direzioni imprevedibili. Ciò non di meno, l’inflazione crea preoccupazione agli occhi della gente; v’è paura che anche l’inflazione di oggi finisca, prima o poi, per accelerare, tramutandosi in iperinflazione, come quella tedesca dei primi Anni Venti del secolo scorso, l’iperinflazione cinese e quella ungherese degli Anni Quaranta del secolo scorso e le recenti iperinflazioni registrate in alcuni paesi dell’America Latina e dell’Europa Orientale.
Ma normalmente l’inflazione non manifesta sempre un andamento cumulativo tale da evolvere in iperinflazione. Ciò anche perché le autorità i politica economica spesso intervengono per frenare la dinamica inflazionistica, servendosi di vari strumenti deflazionistici di natura monetaria o fiscale o varando vere e proprie riforme valutarie (come è avvenuto in Germania nel 1924 e in Argentina e in Brasile negli Anni Novanta del secolo scorso). Rilevante è anche il fatto che difficilmente l’inflazione può essere completamente anticipata: si dice che gli agenti economici soffrono tipicamente di illusione monetaria, cioè le loro aspettative non riescono a rendersi del tutto conto della dinamica effettiva dell’inflazione.
A questo punto, tirando le fila delle argomentazioni finora svolte, appare stupefacente che molti economisti, banche centrali, uomini politici, giornalisti possano credere veramente che l’inflazione sia la radice di tutti i mali dell’economia – per cui deve essere sùbito soffocata al manifestarsi dei primi sintomi – e che la stabilità dei prezzi sia l’unica vera ricetta per la crescita economica. Quest’affermazione, oltre che non essere corroborata dall’evidenza empirica, è priva anche di robusto fondamento teorico.
Che dire a proposito dei costi dell’inoccupazione? L’inoccupazione ha un primo costo a livello macroeconomico rappresentato dalla mancata produzione di beni che i lavoratori inoccupati avrebbero potuto realizzare. Al costo sociale, che deriva dalla non utilizzazione della forza lavoro disponibile, corrisponde un costo personale e famigliare costituito dal mancato reddito, il quale costo può però essere reso collettivo attraverso l’intervento redistributivo della Pubblica Amministrazione, che attui una chiara redistribuzione in quanto finanzia le provvidenze a favore degli inoccupati riducendo, tramite il prelevamento fiscale, il reddito disponibile dei soggetti che percepiscono, da parte loro, un reddito ritenuto adeguato. Diventa meno chiaro l’effetto redistributivo se i trasferimenti agli inoccupati sono finanziati con la creazione di base monetaria.
Il costo personale non è però solo economico, in quanto il lavoratore privo di occupazione, oltre che per la mancanza retribuzione (al netto dei costi opportunità dell’attività lavorativa, comprese le provvidenze previste per gli inoccupati), può soffrire anche per sentirsi escluso dal contesto economico-sociale dal quale è stato espulso o nel quale non riesce a inserirsi e può andar incontro a processi di emarginazione sociale e, mentre il costo di tipo economico può essere in qualche modo assorbito all’interno del nucleo famigliare – che agisce quale stanza di compensazione dei rischi e dei benefici economici dei propri membri – è più difficile che compensazioni di questo genere possano lenire, se esistono, le sofferenze d’ordine psichico e riguardanti le relazioni interpersonali. Anzi è possibile che lo stato d’inoccupazione porti al sorgere di tensioni all’interno dello stesso nucleo famigliare, che possono portare a incomprensioni e scontri personali.
Nel valutare i costi dell’inoccupazione, occorre quindi aggiungere, ai costi reali, rappresentati dalla perdita di produzione e di reddito rispetto al potenziale, gli effetti duraturi dell’inoccupazione sulla salute mentale e fisica degli inoccupati, per non parlare delle conseguenze dei possibili comportamenti criminali degli inoccupati a danno degli altri membri della comunità.
Un altro costo rilevante, di natura individuale e collettiva, è la perdita permanente di qualificazione, di abilità professionale, di capacità a svolgere attività lavorativa da parte del lavoratore che non svolga tale attività per un periodo di tempo prolungato. Dal momento che, in ogni curriculum formativo, vengono impiegate direttamente e indirettamente anche risorse collettive, il disinvestimento è anche in termini di capitale umano della comunità e non solo individuale.
Al di sopra delle tecnicalità sopra riportate esiste il piano valoriale, il piano dei valori che discendono dai principi fondamentali che ogni persona ha. Per una persona che ha, come tali, il principio della centralità e dignità della persona, unito al principio della fraternità intracomunitaria e universale (principi propri della Dottrina sociale della Chiesa), il giudizio di fondo è che chi è inoccupato o svolge lavori precari o sottopagati perde in dignità personale, e ciò deve essere evitato a ogni costo.
È mia convinzione che, di fronte al bivio di cui sto parlando, si debba scegliere la via che porta all’eliminazione dell’inoccupazione, anche lasciando vivere l’inflazione – purché questa non diventi una iperinflazione (fatto al momento ipotizzato da nessuno) – piuttosto che puntare sulla lotta all’inflazione, adottando misure di contenimento della domanda aggregata che creino inoccupazione e precariato nell’occupazione.
Daniele Ciravegna