Gli ambienti del mondo economico e produttivo che lamentano la precarietà del Governo e giustamente temono l’autunno caldissimo che ci attende sono spesso gli stessi che, al momento del crollo della prima Repubblica sostanzialmente guardavano con malcelato favore ad un ridimensionamento della politica che, secondo la loro incultura istituzionale, avrebbe favorito una espressione del loro protagonismo, cioè dei loro interessi, più spigliata e più ampia, meno condizionata dal riferimento al bene comune degli italiani.
Senonché, l’eclissi della politica altro non è che il tramonto del Paese. Infatti, il governo è debole sia di per sé che in quanto espressione di un intero sistema politico-istituzionale pericolosamente fragile. Reso tale da una sequela di errori che, attraverso un lungo cammino, hanno intaccato i fondamentali della politica. Occorrerebbe, infatti, guardare all’intero decorso, dall’avvio della cosiddetta seconda Repubblica ai giorni nostri, per ricostruire l’ eziologia e la storia naturale di una sindrome, ancora sprovvista di una diagnosi compiuta.
Viviamo in una condizione di permanente eretismo politico che rischia di mandare in fibrillazione perfino le linee portanti della stessa collocazione internazionale del Paese, peraltro secondo indirizzi cervellotici che piegano un aspetto dirimente, qual’e’, appunto, la politica estera, a volgari opportunità di bottega di questo o di quel partito.
In sostanza, un rovesciamento della consequenzialità di un percorso logico che vorrebbe questi ultimi subordinati al primo e non viceversa.
Attraverso uno strano processo di eterogenei dei fini oggi, paradossalmente, è la destra, con un risibile gioco a scavalco, ad intrattenere amichevoli rapporti con il regime di Putin, cioè con gli epigoni dell’aborrito comunismo sovietico. Il Movimento dei 5 Stelle, giusto per confermare di essere ambidestro, tiene insieme amicali relazioni con la Cina da una parte e Maduro dall’altra.
Insomma, ad oggi sia nel governo che nell’opposizione albergano “quinte colonne” di potenze di fatto ostili all’Europa, il che, non a caso, trova riscontro nell’ antieuropeismo palese della destra ed in quello, per ora mascherato da ragioni di necessità contingente, dei 5 Stelle.
Che poi queste posizioni rispondano ad un disegno consapevole oppure siano anche il prodotto del dilettantismo di una classe dirigente improvvisata, priva di cultura politica ed inconsistente, che si lascia condizionare dall’occasionalità degli eventi, rende il contesto anche più’ preoccupante. Analoghe fibrillazioni compromettono, soprattutto a fronte dei nostri partner, la vocazione europeista del nostro Paese. Che sia o meno a trazione germanica, che il duopolio franco-tedesco sia ben più rilevante di quanto non sia il peso politico del nostro Paese nello scacchiere europeo ed internazionale, l’Europa senza l’Italia non può esistere per un insieme di ragioni che, prima di riguardare il dato politico o economico del momento, sono di carattere storico, culturale e geopolitico.
Il nostro europeismo, cioè, va al di là dell’interesse per sé che vi ravvisa da sempre l’Italia, che, con Alcide De
Gasperi, si è posta a fondamento e garanzia della prospettiva di unità politica del vecchio continente. L’Italia ha una responsabilità oggettiva, storicamente fondata; si può dire, “moralmente” impegnativa nei confronti anche degli altri popoli europei.
Solo il nazionalismo da straccioni che viene demagogicamente sfruttato oggi può averlo dimenticato. Non a caso, ad interpretarlo ancora sono addirittura in campo anche gli ultimi eredi nostalgici di un regime che della dignità del Paese ha fatto strame. In quanto al sovranismo, altro non è che un’altra perla della collana di “idiozie” che, a cominciare dal separatismo, dalla Padania, dal “dio Po”, la Lega ci ha fin qui rifilato. “Idiozie” nel senso etimologicamente proprio che la parola trae dal greco, laddove sta ad indicare l’ “uomo privato” inteso come colui che si prende cura del proprio orticello e non va oltre.
Dunque, un termine che – ben lungi dal voler essere un insulto, che una forza oggi di vasta rappresentanza popolare in nessun modo merita – si attaglia perfettamente alla Lega, in modo del tutto particolare a questa sua fase sovranista. La quale, in definitiva, non fa altro che ampliare a livello nazionale, per ovvie ragioni di cassetta elettorale, lo stesso atteggiamento di chiusura entro i propri veri o presunti confini che la primitiva Lega di Bossi riservava al Nord del Paese.
Atteggiamento apparentemente baldanzoso e “forte”, in effetti espressione di un sottaciuto sentimento di insicurezza che invoca il “confine” come separatezza difensiva nei confronti di un ambiente che si avverte come potenzialmente minaccioso ed ostile, con cui e’ difficile confrontarsi e competere. Atteggiamento che, visto sul campo da qui, dalle Regioni del Nord, non è affatto consono, come si vorrebbe, anzi addirittura antitetico al coraggio civile ed allo spirito imprenditoriale con cui gli uomini dell’industria, grande o piccola che fosse, del dopoguerra, anziché chiudersi in casa, hanno conquistato il mondo. Che fossero anche costoro di un’ altra fibra rispetto ai loro epigoni oggi in campo?
Domenico Galbiati