Segue la prima parte pubblicata due giorni fa (CLICCA QUI)
Le analisi contenute nel Rapporto Annuale del CENSIS offrono un quadro dello stato d’ animo degli italiani, nell’ attuale frangente storico, francamente desolante. Per quanto una pluralità di cause concorrano a determinare una tale condizione, per comprenderne l’effettiva portata sarebbe necessario risalire alla sorgente comune da cui tutte derivano e dalla quale poi si irradiano tutt’ attorno, in forme differenti.
La questione ha sicuramente a che fare con la concezione di sé, della vita – e della morte – che l’uomo, inoltratosi nel XXI secolo, va rielaborando, provocato, sedotto e, nel contempo, disorientato ed intimorito dalle imponenti trasformazioni della cultura diffusa e dei costumi di vita. Trasformazioni che subentrano l’una all’altra, secondo un ritmo incalzante che toglie il fiato ed il tempo necessario a metabolizzarle e comporle nella cornice di una più adeguata ed aggiornata auto-comprensione dell’ umano.
C’ è una frattura drammatica tra le accelerazioni dettate dalla tecnica e la nostra capacità di assorbirle ed orientarle secondo indirizzi di carattere etico-antropologico e morale che siano consapevolmente assunti e non imposti dalla complessità indecifrabile delle mutazioni in corso. Per molti aspetti, l’umanità – le persone viste una per una, ciascuna nella sua singolarità – fatica a riconoscere se’ stessa, ha smarrito la coscienza delle proprie potenzialità ed insieme dei propri limiti.
E’ come se fossimo sospesi in un limbo, quasi che, privati di antiche certezze, attraversassimo un deserto e disorientati cercassimo una “terra promessa”, una nuova patria che ancora non appare all’ orizzonte. Siamo letteralmente “sfiduciati”, nel senso proprio del termine, deprivati o inconsapevoli della relazione originaria in cui siamo costituiti come “persona”, quindi abbandonati a noi stessi, quindi esposti all’ alea impredicibile degli eventi, di un accadere storico che semplicemente “avviene, si fà da sé, quindi impauriti, quindi depressi, inerti e rassegnati.
Come rileva il CENSIS.
Non abbiamo fiducia nella vita che non avvertiamo più come “dono” che sorprende e suscita meraviglia ed evoca un sentimento di gratitudine, la consapevolezza di una appartenenza, non necessariamente, per chi non crede, al Creatore, ma, se non altro, ad uno stupefacente ordine cosmico, di cui il nostro stesso esistere esprime lo strabiliante equilibrio, la coerenza, l’ armonia ed, infine, la bellezza. (La scienza, se accompagnata dall’ umiltà che i suoi stessi progressi suggeriscono non e’ affatto una forma di disincanto, ma piuttosto un invito alla contemplazione). Siamo, invece, indotti a concepire la vita come un accidente casuale, un artificio, forse addirittura un inganno del destino. In ogni caso, un “possesso” strettamente personale, chiuso, da cima a fondo, nella sua autoreferenzialità inossidabile ed intangibile.
La vita ci sembra faticosa e dolente, come se facesse male, appesantita, fin dalla sua stessa origine, ontologicamente, da un dolore idiopatico, senza ragione, senza causa apparente. Non abbiamo più fiducia nel “progresso”, per lo meno in quella concezione illuministica ed ingenua che ci ha fatto credere come i magnifici e progressivi destini del mondo fossero “necessari”, cioè inscritti in un ordine delle cose di per se’ statuito una volta per tutte, meccanico, automatico, indubitabile.
È cambiata la nostra percezione dello spazio e del tempo e, per quanto non mettiamo scientemente a tema la questione, sia pure in modo subliminale, questa differente prospettiva delle due categorie che presiedono ad ogni nostra esperienza, agisce nel profondo di ognuno e disorienta più di quanto non siamo disposti ad ammettere.
Da dove prende avvio, dunque, quella paura indefinita e pervasiva, l’inquietudine, l’ emotività esasperata, il turbamento che accompagna il sentimento di impotenza di cui soffriamo, la condizione di fragilità affettiva, una diffusa, collettiva “ciclotimia”, l’ irragionevole alternanza emotiva che sovrappone le une alle altre, le ragioni della mente e le ragioni del cuore, come la si evince dall’ indagine del CENSIS?
Le giovani generazioni, anzitutto, sono chiamate a sostenere, al limite delle loro possibilità, la sfida di comporre in una sintesi personologica strutturata e forte, l’ onda montante di stimolazioni disaggregate e contraddittorie, suadenti e, nel contempo, incontenibili, tali da travalicare troppo spesso lo soglia della tollerabilità. L’accondiscendenza al pensiero prevalente, l’ omologazione alle mode ed ai costumi correnti diventano la porta dell’ ovile, confortevole approdo difensivo, scontato, accomodante, eppure, a suo modo, necessario per sopravvivere in un ambiente insicuro e tellurico. Non a caso si incontrano persone che, anziché vivere, sembrano essere “vissute”. Cioè, passivamente attraversate, come fossero fantasmi, entità virtuali e trasparenti, da un flusso di percezioni, pensieri e sensazioni, intuizioni, sentimenti, concetti ed emozioni che provengono da un “altrove” ed altrove si dirigono, succedendo, via via, le une alle altre, in un flusso ininterrotto, ma senza lasciare tracce che, un passo dopo l’ altro, si condensino e prendano la forma di una individualità concreta, il profilo di una identità personale definita e coerente.
Un’ ipotesi attendibile suggerisce come sia lo smarrimento della dimensione trascendente della vita a rappresentare l’arco di volta di questo sordo, tenace, vischioso malessere esistenziale, che rappresenta un po’ la cifra dei nostri giorni.
Ci stiamo, infatti, avvicinando ad un punto di svolta decisivo, all’ apoteosi drammatica di un “antropocentrismo” ipertrofico e tronfio, avvitato in una opaca autosufficienza che condanna l’uomo ad una solitudine disperata.
Quasi volesse ribadire, come fece nel giardino dell’ Eden, la pretesa di bastare a sé stesso, la volontà di riconoscere soltanto sé stesso quale ragione e fondamento della propria vita. Quella nuova consapevolezza di sé, quella matura coscienza del proprio valore che ha fatto grande il Rinascimento ha tradito, nel tempo, il suo intento originario ed ha progressivamente assunto una forma talmente illimitata e tendenzialmente assoluta, così da collassare su sé stessa rovinosamente quando i maestri del dubbio – Copernico, Darwin, Freud – ne hanno messo in discussione la centralità. Ne consegue, come portato inevitabile della concezione che l’uomo ha di sé stesso, quella perdita della dimensione trascendente della vita, che rappresenta, in ultima istanza, l’ origine prima dell’ inquietudine esistenziale di cui oggi soffriamo.
Il sentimento della trascendenza appartiene a tutti ed è una cifra costitutiva originaria, talmente radicata nell’ essere umano, da costringerlo – ove, come oggi, ne abbia smarrito l’evidenza – a costruirne, sia pure inconsapevolmente, surrogati che vorrebbero, se così si può dire, pur di non perderla, “immanentizzarla”, ma in nessun modo reggono la prova.
Post-umano, trans-umano, la affannosa ricerca di una sorta di eternità digitale ne sono la prova evidente.
Solo l’ attitudine ad “andare oltre”, al di là dell’immediato e del contingente, permette ad ogni nostro atto di essere carico di futuro, condizione necessaria perché anche il più semplice gesto della vita quotidiana possa inscriversi in quella dimensione di senso di cui non possiamo fare a meno. Ma è soprattutto in ordine al nostro modo di vivere il tempo che si coglie drammaticamente quanto sia soffocante il venir meno della “trascendenza”, che ha a che vedere con ogni fede, non solo con quella religiosa.
La trascendenza dilata il tempo, lo spalanca sul futuro, lo arricchisce, momento per momento, di vita nuova, lo declina all’ infinito. Al contrario, se il sentimento della trascendenza svanisce, viviamo il tempo come se si volgesse all’ indietro e si rovesciasse su sé stesso. Come se si rattrappisse nell’ istante che fugge via prima di dar conto della ricchezza che pur lascia intravedere, in una rincorsa che non ha fine e mai giunge al dunque del suo pieno compimento e consumandosi inesorabilmente, istante per istante, ci sottrae a noi stessi, assumendo la tonalità opaca e grigia di una morte lenta, progressiva, inesorabile. E se fosse qui, la paura della morte, inconscia, velata, nascosta, rimossa, esorcizzata, eppure inespugnabile la radice ultima, abissale delle nostre mille paure ?
Domenico Galbiati