Il 20 maggio del 1970 venne approvato lo Statuto dei lavoratori. In questi 54 anni molto si è perso per strada. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro, internazionale e interno, ci fanno ritrovare oggi con un sostanziale svuotamento di quel provvedimento che, finalmente, creava le premesse per la definitiva acquisizione della “dignità” del Lavoro.
Il recente rapporto dell’Istat fotografa impietosamente l’arretramento dei salari e il vertiginoso aumento della povertà che riguarda anche i lavoratori (CLICCA QUI).
Precarietà, perdita di capacità di contrattazione, salari tra gli ultimi in Europa, e in taluni casi il ritorno a forme di sfruttamento vero e proprio ci dicono quanto da quel punto alto di inclusione politica, economica e sociale sia poi iniziata una regressione che non ha fatto bene né ai lavoratori né alle imprese intenzionate a far valere la loro forza per l’innovazione e non per la mera compressione dei costi della mano d’opera.
C’è dunque bisogno di rimettere al centro delle politiche nazionali che contano il Lavoro e in questa direzione vanno le proposte di INSIEME ( per la lettura del documento integrale realizzato dal Dipartimento Lavoro CLICCA QUI), di cui riportiamo di seguito alcune parti, e la Petizione presentata nel 2022 in materia (CLICCA QUI)
La tutela del lavoro
La nostra Costituzione si fonda sulla centralità del lavoro, considerato come strumento di
affermazione e sviluppo della persona ed attività utile alla Società (artt.1, 4 co.2), riconoscendo la
specificità del lavoro subordinato e l’esigenza di una sua tutela specifica (artt. 2, 35-40, 46).
Con il lavoro l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità;
dà prova dei propri talenti. Il lavoro è fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la
questione sociale e non deve essere considerato soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali,
bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona
e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo.
Papa Francesco quasi quotidianamente sottolinea che nel lavoro libero, creativo, partecipativo e
solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita; che il lavoro è qualcosa di
più che guadagnarsi il pane. L’uomo e la donna che lavorano sono degni e il lavoro appare non
come effetto di un calcolo economico utilitaristico riguardante l’impiego ottimale del tempo a
disposizione (che è l’approccio, ad esempio, della teoria economica neoclassica), ma come
espressione della creatività e della realizzazione della persona, permettendone l’integrale
sviluppo. Per questo, il lavoro non è un dono concesso a pochi raccomandati; è un diritto per tutti!
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la
sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che,
mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo,
oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella situazione precedente, anche chi è lasciato o tenuto fuori
dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con
un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del
termine working poor.
In effetti, un modo necessario per eliminare la povertà è che venga assicurato un lavoro a tutti;
non è però sufficiente, poiché il lavoro assicurato a tutti dev’essere dignitoso per tutti. La persona
che non ha un “lavoro dignitoso” continua a essere “povero”, che è concetto più ampio rispetto a
essere in stato di deprivazione materiale: una persona che ha accesso a un lavoro che non è
“dignitoso” è “povero” anche se può, col suo lavoro, non trovarsi in stato di deprivazione
materiale. Esiste poi la povertà non di tipo economico: la solitudine, la povertà di relazioni
interpersonali, la povertà di spirito comunitario, la bassa qualità della convivenza collettiva, la
povertà culturale, la povertà spirituale. Nell’era dell’intelligenza artificiale e dei big data sono
poveri, al pari di chi non ha denaro, anche coloro che sono ignoranti, ingenui o sfruttati. Perciò un
lavoratore può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza propria e della
sua famiglia (anche se lavora a tempo pieno e, a maggior ragione, se ha un lavoro a tempo
parziale) oppure per soffrire di uno stato di deprivazione non economica. Di fatto, tenendo conto
di tutte le sfaccettature sopraddette che la povertà può assumere, si può pensare che la povertà
non sia mai annullabile completamente, ma va comunque combattuta con tutti i mezzi.
Le parole precedenti ripropongono il tema di una vera cultura del lavoro, che non può realizzarsi
se non a seguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le
dimensioni del lavoro.
La persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo
intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. Dai contenuti di diversi documenti
della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro
è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il
lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale
e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo
e non l’uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e
per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità
e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia
un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice
“forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.
Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Oggi, soprattutto nei Paesi altamente
sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono
pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le
gerarchie sociali. Eppure la donna e l’uomo si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non
in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.
Abbiamo sottolineato la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente
dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione. Tuttavia, se lavorare è la
premessa per avere la produzione di “cose”, occorre che queste cose siano “cose buone”, siano
“beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al
lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Come nella
finanza etica si distingue fra “finanza buona” e non buona perché si finanziano attività ritenute
incompatibili con principi eticamente condivisi, come la produzione e il commercio di armi, così
non è sufficiente lavorare, ma è necessario che l’attività realizzi cose “buone”, “beni”, dovendosi
respingere forme di produzione e di gestione che non rispettino la giustizia sociale, il valore della
vita umana, della salute delle persone o dell’ambiente naturale e, quindi, fondate sullo
sfruttamento, diretto o indiretto, del lavoro e delle risorse naturali, nelle economie più ricche così
come nelle economie più povere, o che mirano a sostenere regimi politici dittatoriali o razzistici.
Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della
propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a
disposizione di altri, esportandoli e scambiandoli.
L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un
non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono
dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo
eticamente sufficiente per produrle.
In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo
risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo
finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la
realizzazione della propria persona.
San Giovanni Paolo II e papa Francesco hanno sottolineato la forte critica al consumismo, che
porta a produrre beni di forte rilevanza individuale, ma con scarsa rilevanza sociale, alla
distruzione di risorse naturali, a inquinamenti derivanti dalla loro produzione e dallo smaltimento
dei rifiuti, quando altrove vi è grande carenza di beni di primaria necessità. Vi è bisogno di
“consumatori socialmente responsabili”, che facciano da pendant alle “imprese socialmente
responsabili”; gli uni e le altre accomunati dall’agire, pensando, non solo al benessere personale,
ma anche al bene della comunità, nella sua configurazione del Bene Comune.
Dalla tutela del lavoro alla tutela della persona
La dichiarata centralità del lavoro ha subito nella sua applicazione una polarizzazione della tutela
dei bisogni vitali nei soli confronti dell’individuo produttore dell’attività lavorativa, non
riconoscendosi protezione a coloro i quali, per varie ragioni economiche, sociali e fisiche, siano
esclusi dal mondo del lavoro. Un esempio eclatante era rappresentato dalla tutela della salute,
resa universale solo con la riforma del sistema sanitario nel 1978. Anche nella tutela previdenziale
il lavoro mantiene ancora la funzione di determinare concretamente il diritto alla tutela, come per
l’indennità di mobilità o di disoccupazione.
La globalizzazione, in uno con l’avvento della finanziarizzazione e della digitalizzazione, stanno
esercitando una pressione sia sul numero degli occupati, sia sull’entità delle remunerazioni, come
già riferito.
Un gran numero di lavoratori sono stati vittime del dumping sociale, che ha causato la
delocalizzazione di molte imprese.
L’introduzione di strumenti di flessibilità del lavoro ha originato discriminazioni tra le tutele
accordate a prestatori di lavoro all’interno della stessa impresa e, segnatamente, tra lavoratori
subordinati, collaboratori a progetto, partite IVA fittizie, lavoratori interinali.
Anche la rivoluzione tecnologica, nel lungo periodo, è destinata a provocare un radicale
mutamento nell’organizzazione dell’impresa e comporterà la necessità di una revisione degli stessi
meccanismi di aggregazione del consenso tra i lavoratori.
Per tutti questi motivi, appare improcrastinabile una rivoluzione culturale tesa a reimpostare un
sistema di tutele che non sia più incentrato sul rapporto di lavoro subordinato, ma sulla diretta
tutela della persona, dando vigore alla portata pretensiva dei diritti costituzionali alla dignità ed
effettiva libertà della persona umana.
Principio cardine di tale rivoluzione è costituito dalla necessità di finanziare la formazione e il
lavoro, piuttosto che concedere sussidi di assistenza i quali, tra l’altro, molto spesso sono causa di
abusi.
Allo Stato dovrà essere rimesso il compito di integrare il divario delle retribuzioni dei lavoratori,
soprattutto delle imprese soggette al dumping sociale per sostenere la concorrenza; di finanziare
la formazione, le attività di volontariato e servizio civile; di rivedere la disciplina dei lavori
socialmente utili, la cui introduzione mirava a restituire dignità a coloro i quali, per età, esperienze
e cultura, non potevano essere reinseriti nel mondo del lavoro, eliminando gli abusi.
Lo strumento dei lavori socialmente utili deve necessariamente essere rimodulato per evitare che
intelligenze vive, soprattutto i giovani, ormai integrati nel mondo digitale, siano confinate a
svolgere attività inidonee rispetto alle loro capacità effettive o potenziali.
Nel mutato sistema le indennità in favore dei lavoratori espulsi e dei giovani in cerca di
occupazione rappresentano l’ipotesi estrema. In entrambi i casi, esse devono accompagnare un
progetto di formazione per il loro inserimento o reinserimento nei diversi settori economici in
relazione ad età, esperienze e capacità professionali del singolo. La formazione non sarà più
meramente teorica, ma sarà sostenuta dall’uso di tecnologie e una componente fondamentale
assumeranno gli stage presso le imprese o, per i lavoratori che sarebbero stati esclusi, il
mantenimento del rapporto di lavoro nell’azienda.
Si tratta di una rivoluzione da realizzare nella consapevolezza che nell’era post-industriale, dove
l’occupazione scarseggia, non può essere più il solo salario di scambio la fonte di reddito che
assicuri la dignità della persona; che si dovrà perseguire la strada di una diversa composizione tra
tempo lavorativo e tempo libero, valorizzando l’alternanza tra lavoro retribuito e impegno nel
volontariato sociale; che lo Stato dovrà farsi carico del reddito di assistenza nelle forme necessarie
ad assicurare lo svolgimento di attività di utilità sociale nell’amministrazione e nella comunità di
riferimento, salvo i casi di oggettiva impossibilità; che, pertanto, il costo del welfare non può
continuare ad essere sostenuto dalle imprese ad alta intensità di lavoro, ma deve essere trasferito
alle imprese più redditizie e alle rendite.
In conclusione, il lavoro deve essere libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale, affinché crei
vera inclusione sociale.
Conseguentemente, il mercato del lavoro, per essere considerato efficiente deve essere in grado
di permettere ad ogni persona in età lavorativa di poter soddisfare i propri bisogni e di realizzare la
propria persona attraverso l’espletamento di un’attività lavorativa, in un contesto in cui questa
può essere trovata in tempi rapidi e viene svolta al meglio della capacità lavorativa e produttiva
del lavoratore.
Questa visione è difforme dal concetto di efficienza che interessa il lato della domanda di lavoro e
che troppo spesso viene assunto a paradigma dell’organizzazione del mercato, limitata a mettere a
disposizione delle imprese forza lavoro con elevata produttività, basso costo per unità di lavoro ed
elevata mobilità funzionale, settoriale e territoriale.
Il mercato del lavoro efficiente può realizzarsi, quindi, quando esso è ampio (cioè in grado di
offrire possibilità di lavoro, in misura adeguata, alla popolazione presente in età lavorativa);
qualificato e qualificante (nel quale sia possibile per tutti arricchire le proprie capacità
professionali e, allo stesso tempo, siano valorizzati i talenti, la creatività e il capitale umano
presenti); accessibile e accogliente (cioè in grado di offrire opportunità di lavoro a soggetti con
caratteristiche sociali e professionali assai differenziate; con capacità, esigenze e vincoli
eterogenei; con particolare riguardo alle esigenze e ai vincoli relativi alla conciliazione del lavoro
con la famiglia); fluido e flessibile (nel quale sia possibile, senza penalizzazioni improprie, la
mobilità aziendale, professionale e territoriale).
Per creare un mercato del lavoro efficiente non sono sufficienti tradizionali politiche
dell’occupazione; occorrono specifiche politiche attive del lavoro per permettere ad ogni persona
un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni
affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile.
Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro;
favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze
della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del
mercato del lavoro; accrescere le possibilità di successo nella ricerca dell’occupazione nonché
specifiche misure a favore delle categorie deboli del mercato del lavoro (giovani, donne, persone
disabili, disoccupati di lunga durata).
L’attuale crisi strutturale non può essere risolta intervenendo con un solo strumento di incentivo o
su singole aziende, ma è necessario trasformare l’organizzazione per permettere interventi mirati
e programmati su singoli territori all’interno dei quali siano messi a disposizione risorse e
strumenti di ogni tipo, dal finanziamento a fondo perduto nei limiti autorizzati dalla UE a quello in
conto capitale, dall’apporto di finanziamenti privati a quello di management qualificato, dalla
formazione e riqualificazione dei dipendenti, dei giovani e dei disoccupati al loro reinserimento,
anche in progetti di utilità sociale e nei settori non profit.