Per definire la riforma costituzionale proposta dal governo Meloni, The Economist ha suggerito, al posto della “madre di tutte le riforme”, l’epiteto scelto dalla Presidente del Consiglio, il forse più calzante e realistico, “mother of all power grabs”, a quanto riferito su La Stampa, da Andrea Malaguti, in: La variabile Mario Draghi e il gollismo di Meloni, 12 novembre 2023. La riforma del premierato sarebbe cioè la “madre di tutte le prese di potere”, se proviamo a tradurre la difficile espressione inglese nel suo corrispondente più simile in italiano.
I costituzionalisti che sinora hanno cercato di analizzare i pochi elementi meglio definiti della riforma che introduce il premierato si sono adoperati per individuare limiti e contraddizioni, auspicabilmente da eliminare, limiti peraltro evidenti anche ai non addetti ai lavori ( emarginazione del ruolo della presidenza della Repubblica, incertezza sulle modalità di realizzazione della maggioranza al 55%, marginalizzazione del Parlamento, rottura degli equilibri costituzionali ecc.).
Più interessante forse però sarebbe cercare di indagare il senso della incoerenza e della contraddizioni interne alla riforma, anche quando esse paiano evidenziare scelte illogiche o assurde. In politica vale sempre l’osservazione shakespeariana che vi può essere del metodo anche nella follia.
La riforma propone nei fatti un premierato anomalo, sicuramente “innovativo” ( anche rispetto a quello sperimentato in via fallimentare da Israele), che nulla ha in comune, non solo coi sistemi presidenziali o semipresidenziali americano e francese, ma neppure con il modello del cancellierato tedesco che assicura, in Europa, la maggior stabilità e che nessun giurista o costituzionalista è mai riuscito a spiegare perché non sarebbe applicabile con successo oggi in Italia.
La stabilità dei governi certo è sempre stato un punto debole dei sistemi di governo italiano. Ma è davvero la stabilità dei governi ciò che la proposta del premierato persegue? Gli studiosi di diritto parlano da tempo di una verticalizzazione del potere come tendenza globale che accompagnerebbe il neoliberismo europeo, specie a partire dalla crisi del 2011 . Ed in effetti anche il noto documento dello studio commissionato dalla Banca J P. Morgan del 2013- quello che precedette il tentativo di riforma Renzi Boschi, non chiedeva affatto stabilità degli esecutivi, ma piuttosto esecutivi più forti e garanzie costituzionali più deboli. Detto in termini espliciti e chiari: “ I sistemi politici della periferia [europea] mostrano come loro tratto tipico parecchi dei seguenti tratti: esecutivi deboli, stati centrali deboli rispetto alle regioni, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi consensuali che stimolano il clientelismo politico ed il diritto a protestare ogni qualvolta vengono introdotti mutamenti sgraditi entro lo statu quo politico” ( J.P. Morgan Bank, The Euro area adjustement About half way there, 28 May 2013, p. 12, traduzione mia).
Obiettivi questi che, essendo posti da un grande potere finanziario, potrebbero forse pesare anche sulle valutazioni delle agenzie di rating del debito pubblico. La “sorprendente” valutazione della situazione italiana di Moodys del 17 novembre con promozione dell’ outlook da negativo a stabile, valutazione certo giustificata dalle aspettative a medio termine per gli effetti degli investimenti PNRR, al miglioramento dei segni di tenuta del sistema bancario, grazie alla riduzione dei NPL ( not performing loans) e alla crescita dei tassi, e quindi ad elementi oggettivi che sembrano controbilanciare il rischio recessione ed il rischio debito pubblico- oltre che le incognite legate al patto di stabilità e crescita- potrebbero essere state influenzate anche da altro. Ad esempio dall’attesa o dalla probabilità di un cambiamento costituzionale che, se configurato nelle modalità in cui è stato formulato, potrebbe garantire una discrezionalità assoluta di un potere verticalizzato abilitandolo così ad imporre decisioni pesanti anche socialmente, senza alcuna possibilità di interferenza di Parlamenti o di pressioni sociali.
Questa aperta richiesta di uno studio commissionato da una grande potenza bancaria, come anche altri fatti, sembra comunque confermare che il neoliberismo dilagante miri soprattutto a imporre, un po’ dovunque, una verticalizzazione del potere che forza e manipola l’intero quadro delle garanzie costituzionali, ma rafforza al tempo stesso le tutele del sistema finanziario, attraverso la riduzione del pluralismo sociale implicito nella rappresentanza politica, e quindi la riduzione della imprevedibilità delle future decisioni economiche. Con una finanza che “ingessa” l’economia, specie dei paesi più deboli, o ne predetermina gli sviluppi. Finora in Italia questo si è realizzato, ma non in via definitiva. La Costituzione e l’ostinata resistenza dei cittadini ha sinora fatto “muraglia” contro rese a discrezione ai nuovi poteri. Questa muraglia potrebbe essere però l’ostacolo che il “premierato” cerca di rimuovere. .
Bisogna allora partire da una premessa, per capire a che punto siamo con questa metamorfosi del potere nel nostro Paese. Chi è oggi il vero “decisore politico”, o “decisore di ultima istanza”, sulla scena politica nel contesto in cui ci troviamo in Italia?
Sono attivi in Italia, come in altri Stati europei, due distinti circuiti decisionali. L’uno funzionale al consenso immediato, quello che si consegue occupandosi di problemi impellenti, contingenti, più percepibili dal senso comune, utili a costruire slogan e a rafforzare identità divisive, che si combattono senza esclusione di colpi nella pubblica arena (la migrazione, lo jus soli, l’emergenza criminalità, l’emergenza climatica, il caro carrello, il caro benzina, l’età pensionabile, l’inflazione, la disoccupazione, il caro mutui , il bonus edilizio e via dicendo). In molti casi, quando non si tratta di problemi di criminalità o ordine pubblico, ma di politiche economiche, si tratta di decisioni che operano sulle “briciole”, cioè sui ristrettissimi margini di discrezionalità lasciati disponibili da decisioni ben più importanti che stanno a monte e che si sottraggono ad una pubblica discussione, producendo regole “blindate”, che la politica del livello più basso non può discutere.
L’altro, quello delle decisioni “a monte”, è il livello concernente il lungo periodo- che ovviamente condiziona il breve periodo – e delle policies pubbliche, affidato ad autorità esterne e “indipendenti” dal circuito elettorale nazionale. Autorità politiche, sia pure non elettive, ma proiezione dei governi nazionali, che, senza pubblica discussione (policies without politics), non in una sede parlamentare, ma negli organi intergovernativi, nel Consiglio dell’Unione, e negli organi ufficialmente sovranazionali come la Commissione di Bruxelles, decidono del debito pubblico, delle condizioni di finanziamento delle economie, dei vincoli finanziari da cui, in ultima istanza, dipendono poi le scelte “nazionali” residuali su pensioni, investimenti, salute, sviluppo economico e futuro collettivo. Decidono sulle premesse di ciò che più conta. Ora decidono nei fatti anche sulla guerra e sulla pace.
Questo è il livello decisionale più importante, ma attualmente più opaco, che verte sulle scelte di fondo che in UE sono assunte non dal Parlamento europeo, ma dagli accordi tra i governi che si svolgono nelle Istituzioni di vertice dietro il manto di competenze tecniche. Caso classico per l’ Italia fu la costituzionalizzazione della nuova legge di bilancio nel 2011, passata sì in Parlamento, ma in modo anomalo, senza discussione pubblica, senza dibattiti e contestazioni, nel silenzio cooperante di tutta la stampa e approvata all’unanimità o quasi in Camera e in Senato, come in un Parlamento sovietico.
Il fatto è che questa politica di alto livello, riservata alle discussioni di elites ristrette, che si nascondono dietro le competenze tecniche, per tener vivo, in modo virtuale, il volto della democrazia vera e propria, ha bisogno della cooperazione di un livello inferiore, quello in cui prevale la semplificazione da bar dello sport e quello in cui la discussione può essere assolutamente libera. Il rischio che si deve evitare, per far funzionare questo ”sistema” di “democrazia dimezzata”, è quello di avere un conflitto aperto in Parlamento sulle questioni del primo e più elevato livello e dover ricorrere ad una sorta di prerogativa eccezionale dei Governi, per imporre la decisione che si è presa,, come è riuscito a fare, in un Paese a democrazia forte e consolidata, il Presidente francese Macron sulla questione delle pensioni, con un procedimento dalla dubbia costituzionalità.
E’ per questo che la verticalizzazione assoluta, per nascondersi, richiede, a suo complemento, ciò che possiamo chiamare “populismo”, un meccanismo di identificazione tra elettore e governo, cioè l’opposto della valutazione libera e critica che caratterizza il rapporto di rappresentanza in una democrazia vera. Solo questa identificazione preventiva può rendere accettabile tutto ciò che il governo decide.
Diciamolo pure, ciò che chiamiamo “populismo” non è affatto una ideologia o un sistema di idee praticato da alcuni partiti, ma solo un modo di “funzionare” di sistemi a “democrazia dimezzata” , che rimuovono- o da destra o da sinistra- l’aspetto dia-logico tipico della vera polis, sostituendolo con meccanismi di identificazione col potere. I poteri elettivi, o meglio i governi ( non ci si può identificare in un Parlamento!) , perciò devono rimuovere le diversità, il dibattito, le discussioni, le differenze di tendenze che sono percepiti come altrettanti impedimenti, ostacoli e vincoli all’azione politica, e che vanno sempre bollati come compromissioni, negazioni ostinate ( chi dice sempre no) dissidi fastidiosi e inutili.
Questo è il “populismo omologante” oggi necessario al neo-liberismo. In Italia più che altrove. Da noi questo “populismo” ha anche antecedenti remoti nel tempo, ma non rimossi forse nel senso comune. Per esempio il modello astratto di un governo personalizzato, “autocratico”, fu assunto, più compiutamente che da Francesco Crispi, dal nascente fascismo, per coartare le libertà politiche e personali, un modello che oggi, in un contesto diversissimo, potrebbe invece essere di nuovo usato, per affermare la libertà assoluta e neoliberista di mercato, la libertà assoluta dell’individualismo competitivo ed ego-latrico, non certo per sopprimere le libertà politiche ed affermare il potere assoluto dello Stato
Si tratta del modello descritto con grande efficacia un secolo fa, nel 1923, nel dibattito parlamentare sulla legge elettorale Acerbo, dal colorito linguaggio politico del cavalier Benito Mussolini. Il governo adatto all’ Italia doveva essere secondo lui “un Governo nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi”.( XXVI Legislatura del Regno d’Italia, Atti parlamentari, Camera dei deputati, mercoledì 11 luglio 1923, Resoconto stenografico, p. 10476, intervento di Labriola laddove cita testualmente la Relazione governativa relativa al disegno di legge “Acerbo” )
Oggi, nelle condizioni della società di massa, una verticalizzazione assoluta del potere non potrebbe essere proposta altrettanto drasticamente, anche se certo si desidera un governo che risolve i problemi in modo rapido, fermo e univoco. La verticalizzazione richiede oggi, per render compatibile, almeno formalmente, il suo scopo con la democrazia e la libertà di voto, una “politica messa in scena” che consenta di rimuovere il fatto che nell’ ordine giuridico politico entro cui viviamo nell’ UE prevalgono le policies without politics vale a dire le politiche pubbliche senza alcun processo decisionale, senza alcun dibattito pubblico. E’ necessario deresponsabilizzare la cittadinanza democratica e realizzare ciò che si è definito democrazia dei followers , la democrazia in cui appunto leader diventa chi ha più followers, nella democrazia infantilizzata costruita dall’alto è essenziale fabbricarsi una audience diffusa, infantilizzata e fidelizzata. Ti sei fatto più seguaci degli altri? Bene, allora sei legittimato a governare, a prescindere da quanto fai. Che non sta poi all’elettore eventualmente cambiare.
Naturalmente non si ridiscute mai, non c’è luogo per farlo, il livello delle public policies affidato a organismi in prevalenza intergovernativi, non di tipo parlamentare. Nemmeno lo si fa nell’ Europarlamento che continua a svolgere un ruolo assolutamente marginale, essendo buona parte dei trattati e degli strumenti adoperati per costruire le politiche pubbliche economiche ( Fiscal Compact, MES, Patto di stabilità e crescita) operativi solo entro il diritto internazionale, ma fuori dal diritto euro-unitario. E quindi fuori dal controllo parlamentare e fuori dalla pubblica discussione.
Con questa verticalizzazione non ci saranno più governi tecnici, si assicura. Questo è vero probabilmente. Ma perché vi potrà essere il superamento dei governi “tecnici” ( rectius dei governi a “commissariamento indiretto europeo”, in sostanza tre dal 1995 ad oggi, il governo Dini, il governo Monti il governo Draghi )? Semplicemente perché le decisioni delle public policies saranno certo ancora prese da elites, ma prudentemente “schermate” dalla identificazione col leader di turno, che potrà sempre dire di star facendo tutto il possibile compatibilmente coi conti nazionali che “vanno sempre tenuti in ordine” e che sono regolati da vincoli tecnici e monetari. Non discutibili, come non si può discutere della somma di due più due, che deve sempre far quattro. Si potranno migliorare le regole o attenuare quei vincoli magari quando il premier italiano avrà più potere e più forza ancora. Quando sarà votato ancora di più. Che bisogno vi è in questi casi di un “governo tecnico”? Questo potere verticale non trae certo il suo consenso dalla “resistenza” ai poteri a lui superiori.
Non è quindi affatto probabile che il populismo sparirà . E’ vero anzi il contrario. Giovanni Orsina ha sostenuto nel brano “Perché il premierato di Meloni può essere un antidoto al populismo” ( La Stampa 12 novembre 2023) che il populismo sarà eliminato da questo premierato. Secondo Orsina la personalizzazione della competizione elettorale sarebbe inevitabile perché “ gli elettori contemporanei …sono mal disposti ad accettare che la scelta del vertice dell’esecutivo non tocchi a loro”. La crisi dei partiti avrebbe portato a “render necessario disintermediare e portare i leader in primo piano”. E questo sarebbe il modo di combattere il populismo. Il populismo in realtà si rafforzerà proprio per quanto scrive Ordina perché la disintermediazione, per lui inevitabile, sarà la fine della mediazione rappresentativa che è –giova ricordarlo- condicio sine qua non della democrazia. Sarà il passaggio alla democrazia intesa come scelta del capo.
Per questo, anzi, il nuovo premierato va benissimo. Se la rappresentanza serve a garantire la responsabilità, la responsabilità politica postula la distinzione tra chi “risponde” e chi fa valere la responsabilità. La responsabilità, senza istanze rappresentative, non può quindi esistere, perché solo il livello rappresentativo consente al corpo elettorale di sanzionare , con lo spostamento dei consensi, le maggioranze politiche che non abbiano soddisfatto le attese. Tale non potrebbe mai essere il capo eletto dal popolo che sarebbe comunque sempre un delegato, non un rappresentante. Sarebbe cioè una figura che incarna gli interessi e la volontà dei propri mandanti, un puro mandatario, un “replicante” della volontà della massa, portatore di una “volontà” non sua, ma dei cittadini elettori. Come erano gli eletti dell’antico regime, dotati del noto vincolo di mandato. Per questo i partiti moderni non servono più, che siano in crisi o no. Anzi serve che non esistano proprio, né a livello nazionale né europeo. Per questo è necessaria la “disintermediazione” che tanto piace a Orsina, che la presenta come un destino e un progresso (inevitabile e dunque da accettare, come ogni progresso neoliberista). Non come una causa del declino politico della UE, e della sua insignificanza internazionale.
Ma è qui il vero colpo di genio del nuovo premierato. Unicum mondiale è probabilmente il “ premier di riserva” introdotto dalla riforma. Qui c’è davvero del “metodo” entro una apparente follia. Anzi c’è un vero colpo di genio. Secondo il comma B dell’ art. 4 dello schematico progetto di riforma costituzionale “in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia”
Si prevede una possibile “cessazione della carica” del premier. Vale a dire si prevede una durata non determinata né dal tempo, né da un atto giuridico. S’intende con questo una cessazione per “sfiducia” del premier eletto dal popolo? Certo, ma la riforma non precisa le cose. Cessazione potrebbe esserci anche per volontarie dimissioni o per altro ancora. Ad esempio, per una sorta di staffetta informalmente concordata, magari per consentire al capo eletto di passare ad altre cariche, italiane o anche europee, o di non dover rispondere per ciò che non va. Tutto legittimo certo. Ma anche tutto molto significativo e rivelatore.
Lavorando un po’ di fantasia- della fantasia di cui non mancano certo i politici attuali- si è ipotizzato( Adalberto Notarpietro Il premierato :un cavallo di Troia? (CLICCA QUI) Politica Insieme 16 novembre 2023) che l’elezione diretta del premier con il premio del 55% sia un mezzo per blindare il Parlamento e rendere insignificante la minoranza. Non quindi per avere stabilità. Probabilmente è così. Ma siamo andati ben oltre. Che bisogno c’è di prevedere un “premier di riserva”, peraltro non più eletto dal popolo?
In effetti, almeno un buon motivo per avere un premier di riserva ci sarebbe. Questa Destra governa con un vertice bifronte: oggi Meloni/Salvini, domani chissà. E’ una coincidenza casuale o un dualismo strutturale?
Se ci pensiamo bene, questa Destra trae il suo consenso da aspirazioni non sempre sovrapponibili compatibili tra di loro. Vi sono due tendenze diverse, entrambe da assecondare. Da un lato, vi è l’aspirazione verso una legge positiva che esprima comandi assoluti e rassicuranti, che esonerino l’individuo dal peso di una libertà/responsabilità di cui preferisce sbarazzarsi in cambio di una rassicurante legalità che fissi per lui i confini del bene e del male. Le leggi allora paiono identificarsi con le catene artificiali che vincolano gli individui al potere costituito, per cui vero spazio di libertà è quello della deregulation e cioè del libero contratto, laddove la volontà del privato vale come legge. Fuori da questo spazio di “libertà” prevalgono durezza, ostilità e diffidenza, una sorta di “legge della sfiducia” che segna i rapporti sociali e configura l’esigenza di una legge penale preventiva e rassicurante. Anche se spesso solo figurativa, o virtuale. E l’idea di diritto dominante è quella di un diritto implacabile cui ripugna ogni equità, e che generalizza il ricorso alla forza, più che alla ragione. Esattamente come si fa nella guerra.
Solo la forza ha potere regolativo ed un autoritarismo coercitivo che viene dall’alto si combina con l’ assolutismo delle pulsioni individualistiche che sorgono dal basso. Ci sono truffe agli anziani? E’ necessaria una legge più rigida che le punisca. Ci sono violenze contro le donne? E’ necessaria una legge penale che sanzioni pesantemente i violenti? Ci sono quartieri dominati dalla malavita? E’ necessario avere leggi penali che ne consentano la “bonifica”.
Questo uso della legge però non basta a creare sempre e comunque identificazione del cittadino nei governanti e quindi consenso . E’ necessario bilanciare questo quadro con l’aspetto più accattivante – e più artificioso- del neoliberismo, lo spazio della libertà contrattuale e di mercato. La libertà in casa propria, l’imprenditorialità diffusa e alla portata di tutti, insegnata sin dalle elementari, la sicurezza assicurata dalla delocalizzazione degli immigrati, la detassazione generalizzata, flat tax per tutti o quasi tutti, la sanità efficiente e competitiva che fornisce prestazioni di alto livello tramite il mercato diventano altrettanti punti di forza e oggetti di identificazione mentale decisivi, Magari bisognosi di una seconda figura di premier capace di veicolare questo seconda linea di costruzione del consenso e quindi adatto sostituire in corsa il premier scelto dal popolo per correre verso una nuova investitura. E’ necessario cioè un “premier di ricambio” perché l’immagine è tutto, anzi la realtà virtuale veicolata dal leader è tutto, il programma da realizzare nulla o quasi nulla.
La realtà virtuale necessaria a dare fondamenta a questo potere verticale aggiunge un ulteriore elemento che rende superfluo ogni governo tecnico. Se la realtà virtuale è ciò che conta più ancora delle leggi-bandierina, figurative, inattuate o inattuabili, che configurano comunque law and order, vale la realtà, certo dotata di effetti concreti, delle agenzie di rating che possono ben valorizzare un governo e uno Stato che baratta le proprie potenzialità di sviluppo sociale ed umano con la fedeltà assoluta, sapientemente dissimulata, alle agenzie esterne che ci chiedono di ridurre i diritti del lavoro e di educare all’obbedienza i Parlamenti. Già, ma fino a che punto può arrivare l’obbedienza dei Parlamenti e la fidelizzazione dei cittadini-sudditi? E’ questa l’incognita che pesa su questa “innovazione istituzionale”, originale, ma fondata su meccanismi consensuali inossidabili solo a prima vista. Una innovazione che fonda il suo consenso su realtà virtuali che sembrano onnipotenti, ma in realtà sono fragili come un fondale di carta. Basta uno strappo anche piccolo per uscire dalla realtà finta ed entrare in quella effettuale.
Umberto Baldocchi