Quale sia la parte dell’Italia rispetto alla guerra ucraina risulta chiaro a tutti. Non tocca all’Italia decidere di porre fine a questo conflitto. Il ruolo internazionale dell’Italia è quello di stare al fianco di chi può farlo, gli Stati Uniti, con una convinta ed esemplare condivisione della linea atlantista. È quello che ha fatto Draghi, quello che sta facendo la Meloni, quello che avrebbe fatto, ancor meglio, Enrico Letta se avesse vinto le scorse elezioni.
Occorre sgombrare il campo dalla leggenda populista che vorrebbe Giuseppe Conte e Elly Schlein meno sensibili alle responsabilità derivanti dal nostro sistema di alleanze internazionali. Entrambi in caso di ribaltone parlamentare o di nuove elezioni, confermerebbero la posizione che l’Italia ha assunto nel conflitto.
Una posizione che oltre a farsi carico degli oneri che comporta il sostegno a una guerra di lunga durata e a intensità crescente, con scarse possibilità per entrambi i fronti di esser risolta con la sola forza, se non con il ricorso ad armi non convenzionali, sa guardare con fiducia all’evoluzione del dibattito nell’élite americana sul modo in cui gli Stati Uniti intendono partecipare alla guida del mondo multipolare di questo secolo.
Il sostegno, anche militare, all’Ucraina, va accompagnato dalla capacità di saper guardare oltre la guerra. Un obiettivo realizzabile a due condizioni.
La prima è quella di saper superare la convinzione, diffusa soprattutto in Europa, del ritorno ineluttabile della cortina di ferro a Est. Grazie al Cielo, non è così. Il solco scavato dalla guerra nelle relazioni tra la Russia e l’Occidente non è tale da aver tranciato del tutto i fili del dialogo. La Russia fa parte della storia e della cultura europea e i reciproci rapporti commerciali possono risultare momentaneamente ostacolati ma sono ineliminabili. Nel contempo in due delle aree strategiche per lo sviluppo in questo secolo, l’Africa e l’Asia Centro-Meridionale, si assiste a una coesistenza fatta di competizione e a volte anche di collaborazione in molti grandi e meno grandi Paesi in vorticoso sviluppo, tra Stati Uniti e Russia alle cui aziende vengono concesse opportunità di lavoro accanto a quelle cinesi.
È dunque sbagliato ritenere che la guerra per procura tra Stati Uniti e Russia sia su tutti i fronti.
La seconda condizione per riuscire a volgere lo sguardo oltre la guerra, è quella di porre delle domande sulla strategia che intende adottare l’Occidente di fronte a un mondo che non è più quello della fine del Novecento. Domande alle quali, beninteso, potranno rispondere solo quelle forze che detengono la sovranità effettiva per poterlo fare.
Riassumendo per sommi capi gli eventi, agli inizi degli anni Novanta, in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti uscirono vincitori dalla Guerra Fredda. Avrebbero potuto approfittare della loro superiorità per delineare gli assetti di un mondo multipolare in costruzione, al quale anelava anche il popolo americano non entusiasta degli oneri che comportava lo status di unica superpotenza rimasta. A prevalere fu invece una strategia con due priorità: lo spostamento sempre più a Est in Europa dei confini dell’Occidente e l’ambizioso quanto spericolato piano di rimodellamento del Grande Medio Oriente. Gli eventi rafforzarono questo disegno. A un popolo americano che dopo la prima guerra del Golfo e lo smembramento della Jugoslavia non ne voleva sapere di altre guerre, giunse l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, che creò il necessario consenso alle successive guerre in Medio Oriente e Nord Africa. Con altrettanto tempismo il terrorismo “islamico” non smise di ricordare ai recalcitranti europei di unirsi al sostegno di tali guerre, con eclatanti azioni terroristiche in vari Paesi europei.
Negli anni più recenti poi, grazie anche al grande sviluppo delle tecnologie digitali, questo disegno di egemonia unipolare si è ulteriormente rafforzato, pensando che i nuovi miliardari della globalizzazione in giro per il mondo potessero essere cooptati nel club degli oligarchi occidentali, senza un riconoscimento del ruolo delle nazioni emergenti da cui provenivano.
Invece, il resto del mondo ha gradualmente preso coscienza del suo ruolo. Nel 2008 nacque il Coordinamento BRIC tra quattro stati giganti, divenuti BRICS dal 2010 con l’entrata del Sud Africa. I nuovi ricchi della globalizzazione, nei BRICS come negli altri grandi Paesi emergenti, sono stati man mano “arruolati” alla causa dello sviluppo dei loro Paesi, anziché a quella dell’egemonia occidentale. Insomma, la situazione è ora in gran parte sfuggita di mano per quel tipo di progetto unipolare.
Alla luce di questo quadro, pur sommariamente delineato, credo possa emergere il fatto che ciò che più conta per la soluzione del conflitto non è tanto quante armi diamo all’Ucraina ma che idea ha l’Occidente della strategia da perseguire nel mondo del XXI secolo.
Il rischio per i gruppi dirigenti occidentali di scontare una inadeguatezza e un ritardo a comprendere le dinamiche del mondo attuale, appare reale e richiama l’arretratezza dei vecchi stati liberali a cavallo tra Otto e Novecento a comprendere le istanze della società industriale di massa. Allora i nuovi protagonisti erano le classi popolari, da sempre ai margini dello sviluppo e del potere, ora sono le nazioni che stanno uscendo da situazioni di povertà o di sfruttamento post coloniale, che costituiscono circa i sei settimi, oltre l’80%, dell’umanità. In particolare l’ascesa non solo della Cina, ma del blocco economico asiatico e di quello africano, paiono inarrestabili.
Una situazione che, per inciso, dovrebbe stimolare quelle identità politiche che nelle contorsioni della storia del secolo scorso si sono forgiate, come quella che scaturisce dal popolarismo, a definire dei nuovi obiettivi in termini di giustizia sociale e tra i popoli.
Se non vogliamo un secolo di guerre, rischiando un pericoloso arroccamento e una conseguente involuzione dell’Occidente, si deve costruire una nuova e diversa strategia che contempli una apertura degli Stati Uniti a un ordine mondiale multipolare nel quale anche l’Europa e l’Italia troveranno una loro dimensione, capace di collaborare, di riformare e aggiornare ai nuovi equilibri globali le istituzioni internazionali, di gestire le controversie, di creare condizioni di reciproco vantaggio anziché moltiplicare i casi di scontro.
Una svolta che compete primariamente ai gruppi dirigenti americani e dalla quale dipende in gran parte il futuro dell’Europa. Ma che le opinioni pubbliche periferiche possono influenzare, se assumono coscienza della sua importanza e della sua urgenza.
Giuseppe Davicino
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)