Pubblichiamo oggi la prima parte di un ampio e approfondito intervento sviluppato sul disegno di legge Zan – Scalfarotto, quello cosiddetto sull’omofobia, dal prof. Luciano Eusepi ordinario di Diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Lo scritto del prof. Eusepi è stato pubblicato su Settimananews.it
Partiamo dal presupposto che sia necessario garantire il rispetto di tutte le persone, indipendentemente dal loro sentire o dalle loro opinioni in tema di affettività o sessualità.
Come ha già scritto il prof Eusepi, “l’interrogativo che si pone, tuttavia, è se le modifiche normative proposte – e in particolare l’enfatizzazione dell’intervento penale rispetto a condotte già penalmente sanzionate – risultino ragionevoli rispetto all’intento summenzionato, o finiscano per rispondere, invece, a una prospettiva in realtà diversa: con possibili effetti controproducenti sullo stesso intento di tutela predetto, ma anche con effetti molto delicati in merito alla certezza del diritto e all’esigenza di non incrinare il principio cardine per qualsiasi ordinamento democratico-liberale costituito, ai sensi dell’art 21 Cost., dalla libera espressione di opinioni su qualsiasi tema, purché ciò non avvenga attraverso linguaggi offensivi (con il solo limite costituito dal divieto della propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, la cui trasgressione è punita dallo stesso art. 604-bis, comma primo, lett. a, c.p. e risulta aggravata, ai sensi del comma terzo, ove si fondi su atteggiamenti di c.d. ‘negazionismo’)”.
In effetti, nel nostro ordinamento penale non sussiste alcun vuoto di tutela in materia e “il creare una reazione penale differenziata circa le specifiche categorie di vittime, sostiene il prof. Esusepi, determinerebbe una palese violazione del principio di uguaglianza rispetto a medesime condotte illecite riferite ad altre categorie di persone.
1. Costruire contesti di rispetto, evitando criticità giuridiche
Se si trattasse, soltanto, di riflettere sui modi più adeguati per prevenire fatti offensivi che
traggano motivo dalle condizioni personali, dagli stili di comportamento o dai convincimenti
di taluno relativi alla sfera dell’affettività o della sessualità, non sarebbe difficile trovare
ampie convergenze: e già il ricercarle potrebbe favorire un dialogo in grado di promuovere il
rispetto reciproco tra le persone, quale che sia il loro modo di proporsi in merito al contesto
summenzionato.
La proposta di legge (infra, pdl) sulla c.d. omofobia adottata il 14 luglio 2020 come base per
la discussione dalla Commissione giustizia della Camera dei Deputati (in continuità con
progettazioni simili risalenti a diversi anni or sono), secondo il testo unificato predisposto dal
relatore Zan, intraprende peraltro una strada – fondata sull’estensione e sull’inasprimento
del ruolo esercitabile in materia dalle norme penali, ove si ritengano sussistere finalità di
offesa nel senso predetto – la quale suscita problemi complessivi alquanto delicati sul piano
giuridico e appare rispondere a scopi diversi rispetto al mero intento preventivo di cui s’è
fatto riferimento.
Ne deriva, in particolare, che le criticità della pdl non trovano soluzione, come talora si è
ritenuto, semplicemente affiancando agli interventi normativi proposti una più o meno
efficace clausola di garanzia – come se si trattasse dell’eccezione ad una regola o, addirittura,
di un privilegio – che faccia da argine a eventuali interpretazioni del nuovo testo suscettibili
di ostacolare la libera manifestazione del pensiero (di cui all’art. 21 della Costituzione) in
tema di affettività e sessualità.
Non si tratta, in altre parole, di accostarsi al dibattito sulla pdl secondo un approccio
meramente difensivo rivolto a conservare la possibilità – tema molto sentito in ambito
cattolico, ma anche in organizzazioni a orientamento femminista – di esprimersi
pubblicamente (sul piano della riflessione antropologica od etica, della formazione, della
catechesi, e così via) circa i temi in oggetto, senza il timore che ne derivi un contenzioso
giudiziario: tuttavia disinteressandosi, in tal modo, degli ulteriori contenuti di quel testo. Si
tratta, piuttosto, di far valere pur sempre considerazioni aventi portata generale, che
attengono essenzialmente alle modalità di utilizzo del diritto penale e al fatto per cui il rilievo
delle proposte formulate rispetto ad alcuni gangli molto sensibili degli ordinamenti giuridici
liberali, come quelli relativi all’espressione libera delle opinioni, non è di interesse soltanto
per alcune compagini c.d. di tendenza (laiche o religiose), bensì per tutti.
È necessario evitare, infatti, anche soltanto l’ombra di un’incrinatura – precedente assai
insidioso nel contesto di un sistema democratico – circa la possibilità per ciascuno di
esprimere senza angustie opinioni, giudizi o critiche (escluso soltanto l’utilizzo di modalità
ingiuriose) in merito a qualsiasi tema. Ma anche evitare un utilizzo simbolico della
penalizzazione per introdurre ex novo, o modificare, sensibilità sociali non riferite alla tutela
di beni giuridicamente tutelabili. Come pure evitare di indulgere, nella formulazione delle
norme penali in malam partem, a descrizioni delle medesime incentrate su finalizzazioni
soggettive non facili da ricostruire (il movente, l’intento istigatorio: tanto più se riferiti a un
concetto vago come quello del discriminare), piuttosto che su elementi materiali
empiricamente constatabili.
2. Le caratteristiche della proposta di legge in discussione
La pdl succitata prevede, anzitutto (mediante gli articoli 1 e 2), un’estensione relativa
all’ambito applicativo degli artt. 604-bis e 604-ter del codice penale [infra, c.p.] (ivi inseriti
con legge n. 21/2018, essendo precedentemente ricompreso il loro contenuto nella legge n.
654/1975, così come modificato dalla c.d. legge Mancino, n. 205/1993), che hanno per
oggetto le condotte di seguito descritte, quando originate da «motivi razziali, etnici, nazionali
o religiosi».
In particolare, la condotta di chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione»,
prevista all’art. 604-bis, comma 1, lett. a), c.p., con pena della reclusione fino a un anno e sei
mesi o della multa fino a 6.000 euro, la condotta di chi, «in qualsiasi modo, istiga a
commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza», prevista dall’art. 604-
bis, comma 1, lett. b), c.p., con pena della reclusione da sei mesi a quattro anni, e la condotta
di chi promuova o diriga «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» oppure ad essi
partecipi o presti assistenza, prevista dall’art. 604-bis, comma 2, c.p., con pena,
rispettivamente, della reclusione da uno a sei anni o della reclusione da sei mesi a quattro
anni, verrebbero riferite, secondo la pdl, anche all’aver agito per motivi «fondati sul sesso, sul
genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».
A sua volta, l’art. 604-ter, che prevede, salvo il caso della condanna all’ergastolo,
un’aggravante obbligatoria della pena inflitta fino alla metà, verrebbe riferito anche alla
commissione di fatti criminosi egualmente «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento
sessuale o sull’identità di genere».
Ora, ciò lascia emergere, in primo luogo, l’orientamento a introdurre un diritto penale
speciale relativo a determinate categorie delle persone offese. Il che, tuttavia, risulta
plausibile rispetto a medesime tipologie di comportamento solo quando certe potenziali
vittime si differenzino palesemente da tutte le altre in forza di determinate caratteristiche
loro proprie, che esigano una strategia preventiva differenziata. Requisito che sarebbe
difficile sostenere presente, in termini comparativi, nel nostro caso.
Da un lato, infatti, le potenziali vittime di offese arrecate per i motivi di cui alla pdl non
rappresentano una tipologia uniforme di persone (potrebbero, del resto, risultare vittime
anche persone eterosessuali). Mentre, dall’altro lato, deve riconoscersi che, una volta aperta
la via, si potrebbe invocare un diritto penale speciale rispetto a tipologie di vittime
sostanzialmente omogenee, e in rapporto ai moventi più diversi: si pensi a quelli che
riguardino l’essere portatori di menomazioni fisiche o psichiche, l’essere immigrati, l’essere
anziani (e all’inizio, almeno, della pandemia Covid-19 non sono davvero mancate
discriminazioni nei confronti di questi ultimi) o, ancora, l’essere fautori di determinate forme
di pensiero o di determinate concezioni politiche, l’essere poveri o senza fissa dimora, l’essere
ex detenuti, e così via. Non sarebbe dunque plausibile avere una legislazione penale speciale
per ciascun movente offensivo (salvo tener conto del movente stesso, come già previsto,
nell’ambito della determinazione in senso stretto o in senso lato della pena: e ciò tanto più
quando si giungerà a differenziare già in sede edittale le modalità sanzionatorie).
Il rilievo attribuito alle casistiche attualmente previste dagli articoli 604-bis e 604-ter c.p.
costituisce, in realtà, una vera e propria eccezione (esecutiva della Convenzione
internazionale del 1966, ratificata dall’Italia, sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale), la quale si configura orientata a prevenire il ripetersi di
accadimenti tragici (genocidi, deportazioni, “pulizie” etniche) che hanno coinvolto, nel secolo
passato, interi popoli: casistiche, inoltre, riferite a condizioni delle vittime potenziali o attuali
facilmente obiettivizzabili, cioè non legate a rappresentazioni in ampia misura soggettive del
proprio stato personale.
Il carattere eccezionale, e la delicatezza, di tali norme – si consideri che l’art. 604-bis, lett. a),
c.p. punisce anche «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o
etnico», previsione della quale, peraltro, la pdl che analizziamo non prevede alcuna
estensione applicativa – è del resto attestato dall’ampio dibattito emerso in occasione della
loro stessa introduzione, soprattutto con riguardo al dubbio circa l’opportunità del punire in
modo autonomo dalla commissione di ulteriori specifici reati – e sebbene in rapporto agli
scenari estremi poco sopra richiamati – la mera espressione di idee pur esecrabili oppure
generici atti discriminatòri o orientati a discriminare.
Ciò anche in forza dell’esigenza di evitare – attraverso la supplenza penalistica rispetto a
quello che dovrebbe costituire un contrasto essenzialmente culturale circa prese di posizioni
inumane o incivili –l’inopportuno accreditamento degli eventuali condannati come martiri di
un modus operandi ritenuto repressivo, da parte dello Stato, nei confronti di visioni non
gradite, con effetti di rafforzamento in determinati ambienti, piuttosto che di
delegittimazione, di simili visioni.
Perplessità, queste, le quali hanno trovato conferma nell’ulteriore discussione, che ha
coinvolto un gran numero d’interventi dottrinali in tutta Europa, in merito all’opportunità
d’introdurre una fattispecie penale autonoma di c.d. negazionismo: con l’esito di
compromesso, per l’Italia (stante l’opinione prevalentemente contraria a simile fattispecie tra
i penalisti), che si è sostanziato nell’integrazione di quello che, a partire dal 2018, costituisce
il terzo comma dell’art. 604-bis c.p., il quale prevede la pena da due a sei anni di reclusione
per il caso in cui le condotte di cui ai commi precedenti, commesse «in modo che derivi
concreto pericolo di diffusione», si fondino «in tutto o in parte sulla negazione», e ora anche
«sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia» (così ai sensi della l. n. 167/2017),
«della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra».
Circa le estensioni prospettate dalla pdl in oggetto con riguardo alla sfera applicativa degli
artt. 604-bis e 604-ter c.p. deve, d’altra parte, osservarsi, altresì, che se il loro intento fosse
soltanto quello di promuovere il rispetto tra le persone, al di là di come vivano la loro
affettività o la loro sessualità, e di prevenire il perpetrarsi di ingiustizie da ciò motivate,
sarebbe difficile comprendere perché lo strumento utile a tal fine debba essere individuato,
tout court, nell’estendere l’ambito della penalizzazione: cioè – pur quando non sia stato
commesso alcuno dei reati finora previsti – nel ricorso allo strumento, di fatto, maggiormente
divisivo circa quel rapporto di reciproco riconoscimento tra persone nella loro dignità che,
invece, si afferma di voler valorizzare. Sarebbe infatti assai più utile, onde evitare le recidive e
l’effetto diffusivo di condotte riconducibili alle descrizioni pur generiche operate dalla pdl,
agire immediatamente per il recupero di quel riconoscimento, specie attraverso gli strumenti,
come torneremo a dire, della giustizia riparativa.
Non trascurando, fra l’altro, come sia ben prevedibile che quelle condotte vengano poste in
essere, per lo più, da soggetti poco acculturati e con problemi di socializzazione: vale a dire da
parte di soggetti bisognosi di un intervento socio-riabilitativo, piuttosto che di una condanna
detentiva ulteriormente desocializzante: la quale, in pratica, finirebbe per rispondere a meri
intenti di esemplarità.
Ma anche rispetto al caso in cui uno dei reati classici, per i motivi suddetti, sia stato
malauguratamente commesso, non è chiaro perché dovrebbe aggiungersi alla valutazione del
giudice circa l’applicabilità dell’aggravante generale di cui all’art. 61, n. 1, c.p., relativa
all’«aver agito per motivi abbietti o futili», l’applicazione obbligatoria, come prevede la pdl,
della citata aggravante speciale prevista dall’art. 604-ter c.p. Ciò, infatti, configurerebbe una
palese disparità di trattamento rispetto al sussistere di altri moventi, altrettanto o anche
maggiormente riprovevoli, circa i quali simile aggravante non è contemplata. Con l’effetto di
poter addivenite, nel caso in discussione, a livelli sanzionatòri eccezionalmente pesanti, che
interesserebbero soprattutto i tipi di autore poco sopra richiamati.
3. Il nodo costituito dal rapporto scivoloso tra le riforme ipotizzate e la garanzia della libertà di
manifestazione del pensiero
Tutto ciò premesso, si pone certamente il problema dell’attrito tra le norme penali proposte e
l’esercizio del richiamato diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero: un
problema che non può essere eluso osservando, come talora si afferma, che le estensioni
delineate dalla pdl, ove sussistano i motivi cui attribuisce rilievo, in merito all’ambito
applicativo dell’art. 604-bis c.p. non investono la parte del medesimo riguardante chi
«propaganda idee» (si tratta, come sappiamo, delle «idee fondate sulla superiorità o sull’odio
razziale»), bensì soltanto le condotte di chi «istiga a commettere o commette atti di
discriminazione» oppure di chi «in qualsiasi modo istiga a commettere o commette violenza o
atti di provocazione alla violenza» (condotte, queste ultime, peraltro già punibili secondo
norme penali di rilievo generale).
Non corrisponde, infatti, a quanto esige il principio di legalità, sotto il profilo della
determinatezza, affidare al giudice la definizione del confine fra propagare (lecitamente) idee
e discriminare o istigare a discriminare (illecitamente) determinate persone: se formulare
idee implica proporre dei distinguo, potrà sempre dirsi, infatti, che sulla base di quelle idee si
discrimina, nel senso etimologico dell’argomentare secondo differenze: come bene indica,
individuandovi un valore, il titolo (disCrimen) di una nota rivista penalistica.
Senza dubbio, si potrà nutrire speranza sull’equilibrio dei giudici, su una lettura delimitativa
del concetto di discriminazione, su interpretazioni le quali muovano dal ruolo fondamentale
che compete all’art. 21 della Costituzione, sulla funzione nomofilattica della Corte di
Cassazione, al limite sull’intervento della Corte costituzionale. Ma è il legislatore che non deve
dare adito a incertezze, attribuendo deleghe implicite (e indefinite nei contenuti) alla
giurisprudenza solo perché non si sente, dinnanzi a determinati trend opinionistici, di
assolvere agli obblighi che gli derivano, in materia penale, dalla riserva di legge.
Soprattutto, tuttavia, al legislatore non è consentito porre nell’incertezza il cittadino, che non
deve giungere a ritenere di dover auto-imporsi un bavaglio, rispetto all’esprimersi su certe
materie, per il comprensibile desiderio difensivo di non veder proposte nei suoi confronti
denunce o iniziative giudiziarie: in quanto foriere di pesanti oneri psicologici, economici e di
immagine, ancorché non vengano a sfociare in una condanna definitiva.
Creare anche solo il dubbio di un limite alla libertà di espressione rappresenta il proporsi di
nubi che sarebbe davvero preferibile non osservare all’orizzonte della democrazia.
Non senza tener conto, fra l’altro, di come tra le pene accessorie previste dalla legge
(Mancino) n. 205/1993 e richiamate dalla pdl (art. 3) sia ricompresa, in particolare, quella di
cui all’art. 1, comma 1-bis, lett. d), che, stabilendo per la persona condannata «il divieto di
partecipare, in qualsiasi forma ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o
amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre
anni», potrebbe facilmente dare adito a denunce strumentali.
Deve rimaner chiaro, dunque, che in democrazia, esclusa qualsiasi modalità intrinsecamente
offensiva, è possibile esprimersi, anche pubblicamente, su tutto. E che, se alcuni limiti sono
stati fissati (invero con alcune già menzionate ritrosie di matrice liberale, oggi meno
nitidamente emergenti, per paradosso, rispetto alle proposte in discussione), ciò è accaduto
con riguardo a contesti del tutto eccezionali e che tali devono rimanere, in quanto legati –
come si osservava – a vicende tragiche, con vittime innumerevoli, nella storia ancor recente
dell’umanità: rispetto alle quali creare dei parallelismi – senza nulla togliere all’inaccettabilità
di qualsiasi contesto di offesa alla dignità altrui – dovrebbe essere ritenuto, anche
culturalmente, fuor di luogo.
Così che, se ogni opinione, condivisibile o meno, deve poter essere espressa, purché in forme
non offensive, pure in materia di esercizio dell’affettività o della sessualità, dovrà in
particolare potersi continuare ad affermare, per esempio, che la distinzione tra il femminile e
il maschile non è accidentale nell’esistenza umana (dunque, anche ai fini educativi e della
crescita psicologica), nonostante che il sentire di una persona, come sappiamo, possa talora
differenziarsi, in proposito, rispetto alle caratteristiche biologiche del suo corpo, oppure che
altro è un simile sentire, altro è una mera decisione soggettiva circa le forme di esercizio della
sessualità, sebbene le sfumature possano essere complesse.
Del resto, il mantenere aperta la riflessione nelle diverse branche del sapere (dal punto di
vista etico, psicologico, filosofico, educativo ecc.) nonché, in genere, nel dibattito culturale su
simili problematiche delicate e complesse, purché ciò avvenga nel pieno rispetto reciproco,
appare conforme all’interesse di tutti. Altra cosa, ovviamente, è vigilare affinché nessuno
subisca una deprivazione, per i motivi richiamati dalla pdl, rispetto a specifici diritti
riconosciuti dalla legge. ( Segue )
Luciano Eusebi
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