La guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina ripropone drammaticamente gli interrogativi sul ruolo della Corte penale internazionale. In molti si è fatta strada la consapevolezza che per la Corte questo 2022 sia davvero l’anno zero. A dispetto delle attese e delle speranze alimentate dal crollo del Muro di Berlino e dal faticoso farsi strada di una nuova domanda di pace e giustizia. E invece quel 24 febbraio, con l’ingresso dei carri armati di Mosca in territorio ucraino non solo ha riportato il frastuono della guerra nel cuore dell’Europa, ma anche il bisbiglio fattosi poi fragore, dei crimini di guerra perpetuati ai danni della popolazione civile.
Una tragica realtà che ha fatto sorgere spontanea la domanda sul ruolo della Corte e rilanciato la domanda più esigente: i colpevoli dei crimini di guerra saranno sottoposti ad un giusto processo? Domanda che, purtroppo, è destinata a non avere risposta. Non solo perché la guerra continua, ma soprattutto perché è proprio in questi frangenti che la Corte penale internazionale mostra tutti i suoi limiti.
Nata soltanto venti anni fa (primo luglio del 2002), a quattro anni dalla firma dello Statuto di Roma (17 luglio 1998), la Corte è un’istituzione giovanissima. Pur contando sull’adesione di 123 Paesi, questo organismo di giustizia sovranazionale sconta la mancata adesione (con l’inevitabile indebolimento politico) dei giganti della Terra: Stati Uniti, Cina, Russia e India. Basta dare un’occhiata alla cartina geografica per rendersi conto della debolezza di questa istituzione, non solo sul piano demografico quanto sul versante politico.
Quindi si impone una domanda diretta: Vladimir Putin sarà mai giudicato dalla Corte per l’aggressione all’Ucraina? La risposta, purtroppo, è un realistico e drammatico “no”. E con lui non saranno sottoposte a giudizio né l’élite russa né la catena di comando eventualmente responsabili di crimini contro l’umanità. E se a compiere reati infamanti dello stesso genere fossero gli ucraini? Anche in questo caso la risposta sarebbe negativa, perché neppure l’Ucraina aderisce alla Corte penale internazionale, pur evocandone a ripetizione l’intervento. Quindi né Mosca né Kiev possono essere sottoposte a indagine. E tanto meno a giudizio di un tribunale terzo.
Ecco perché chi, soprattutto in Europa, invoca l’intervento della Corte, dovrebbe sapere che dinanzi al dramma epocale della guerra scatenata nel cuore del Continente dei diritti e delle libertà, è necessario rilanciarne il ruolo e la funzione, pur nell’assoluta consapevolezza dei limiti operativi fin qui mostrati. E se pure tutto sembri congiurare contro il rilancio della Corte, a partire dalle sovranità nazionali sempre più muscolari che si manifestano nei confini della Comunità europea, nondimeno occorre riproporre la prospettiva di una conciliazione tra pace e giustizia che passi proprio attraverso l’azione di un giudice terzo. Un tribunale che garantisca i diritti della persona rispetto alla forza arrogante del principio di sovranità che spinge anche alcuni Paesi democratici a sottrarsi ai doveri rivenienti dall’adesione alla Corte penale internazionale. Primi fra tutti gli Stati Uniti e l’India. E’ del tutto evidente che se alla Corte non aderiscono convintamente tutti i Paesi democratici, ogni tentativo di fare giustizia a livello internazionale appare una utopia. Bella ma impossibile.
Anche la prospettiva di istituire, a guerra conclusa, un Tribunale speciale per il conflitto russo-ucraino può dare adito ai soliti sospetti: la giustizia amministrata dai vincitori. E’ già accaduto in passato, ma pensiamo che questo nuovo mondo sempre più segnato dalle democrature e da paesi comunisti ad ambizione globalista e trazione neo capitalista, difficilmente potrebbe accettare una scelta del genere. Troppi vincoli e troppe relazioni incestuose legano i grandi attori del mondo globalizzato. Quindi anche questa soluzione “minore”, pur evocata da Joe Biden e Ursula Von der Leyen, avrebbe poco futuro. Tanto vale, perciò, optare per il traguardo più alto, cioè quello del rilancio della Corte penale internazionale.
Dunque, se proprio non vogliamo mollare la presa, continuiamo a tenere lo sguardo limpido sulla guerra in corso, non stanchiamoci di riaffermare chi è l’aggressore e chi l’aggredito, gridiamo che la pace senza giustizia è iniqua. Ma soprattutto non archiviamo la Corte penale internazionale fra i fallimenti del nuovo secolo e difendiamone l’ispirazione di pace nella giustizia. Magari con un nuovo Patto di Roma per la cessione di sovranità.
Domenico Delle Foglie