Se verrà approvata nei dettagli delle bozze che circolano in queste ore la “Cassa Integrazione Europea” (il meccanismo Sure di mitigazione di rischio disoccupazione in questa fase di emergenza) sarà un primo passo importante per fare entrare l’Unione Europea nel mondo degli Eurobond e di una piena e consapevole condivisione del rischio tra Paesi membri.
Il meccanismo dovrebbe prevedere la raccolta a livello comunitario di circa 100 miliardi sui mercati attraverso l’emissione di obbligazioni garantite da 25 miliardi di euro raccolti attraverso contributi dagli Stati membri in proporzione al loro peso sul Pil dell’Eurozona. Trattandosi di un’emissione di obbligazioni di fatto europea (ovvero garantita dall’insieme dei Paesi membri) il tasso d’interesse sarebbe più basso di quello che un’analoga emissione realizzata dal nostro Paese avrebbe ottenuto sul mercato. I 100 miliardi raccolti verrebbero utilizzati per prestiti ai Paesi più in difficoltà – la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen parla di Italia e Spagna in primis – e andrebbero a finanziare l’aggravio di spesa per le misure di sostegno al reddito di cittadini che perdono il lavoro, finiscono in Cassa Integrazione o subiscono riduzioni di orari di lavoro a causa della pandemia. Si suppone, e si spera, che il meccanismo non sia costruito per generare margini d’intermediazione generosi e che dunque i tassi sui prestiti ai Paesi membri siano assai prossimi a quelli della raccolta sui mercati. Di fatto questa sorta di “Eurobond” emessi per finanziare le spese di sostegno nazionale all’occupazione potrebbero arricchire l’offerta di attività finanziarie a basso rischio per i quali esiste una grande domanda da parte dei mercati e che l’offerta di titoli di Stato tedeschi non riesce a soddisfare.
In un meccanismo del genere i Paesi membri “forti” metterebbero di fatto a disposizione la loro maggiore reputazione di solvibilità per ridurre il costo dell’indebitamento dei Paesi membri maggiormente indebitati. La proporzione di partecipazione al fondo di garanzia vedrebbe maggiori responsabilità dei Paesi a più alto reddito non necessariamente corrispondenti alla quota dei prestiti ottenibili se, come sembra trapelare dalle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, ci saranno limiti di erogazione per singolo Paese molto ampi (chi è nel bisogno, a quanto previsto, potrà avere in termini di prestiti di più della sua quota di partecipazione alle garanzie e fino al 60 per cento del totale).
È opinione condivisa da molti commentatori che la pandemia del Coronavirus sarà un banco di prova decisivo per il futuro della Ue. Come già accaduto con la Seconda guerra mondiale, grandi tragedie comuni possono dare la spinta decisiva per mettere da parte forme di autointeresse miope che impediscono, come insegna la “teoria dei giochi”, di scegliere strategie cooperative in grado di realizzare equilibri superiori e alla fine mutualmente vantaggiosi. La storia della risposta dell’Unione alla crisi da Coronavirus è nota. Alle gaffe verbali iniziali sono seguiti passi avanti importanti, ma non ancora del tutto soddisfacenti. La sospensione del Patto di stabilità, il “libera-tutti” sulla spesa in deficit per fronteggiare l’emergenza, l’aumentato impegno della Banca centrale europea non rappresentano, seppur lodevoli, il massimo della potenza di fuoco che una Ue unita e coesa potrebbe mettere in campo. E la rapidità d’intervento della Federal Reserve Usa con l’helicopter drop of money che mette denaro nelle tasche dei cittadini (senza passare per il deficit e per l’aumento del debito) ha reso evidente lo scarto tra le due sponde dell’Atlantico.
Da una parte, la nostra, la patria dello Stato sociale che “paga” la mancanza di coordinamento delle politiche fiscali e dei poteri decisionali che finiscono per indebolire anche la forza della Bce. Dall’altra un sistema sociale sicuramente molto meno capace di copertura universale, ma caratterizzato da una capacità d’intervento macroeconomica tempestiva e puntuale.
L’annuncio del “Sure”, per le caratteristiche del meccanismo messo in campo, potrebbe essere l’inizio di una svolta che ci consentirebbe di mettere insieme il meglio dei due mondi, conciliando il nostro modello di tutele evoluto e una capacità d’intervento macroeconomico adatta ai tempi e in grado di sfruttare tutte le potenzialità della cooperazione tra gli Stati membri. Se l’appetito vien mangiando, i Paesi membri potranno rendersi conto di avere la possibilità di finanziare con meccanismi simili progetti d’investimento, di potenziamento delle infrastrutture, di sanità e di istruzione su base sovranazionale attraverso l’emissione di obbligazioni a bassissimo rischio, particolarmente appetibili per gli investitori e finanziabili a tassi probabilmente negativi.
Leonardo Becchetti
Pubblicato su Avvenire il 3 aprile 2020