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L’uso strumentale del diritto internazionale – di Giuseppe Ladetto

La Russia è indebolita, come dimostrano la vicenda dell’ammutinamento della Wagner e la crisi del rublo, quindi bisogna continuare a sostenere l’Ucraina fino alla vittoria. È quanto ha deciso la componente più oltranzista della NATO. Altri in seno all’organizzazione, delusi dagli scarsi risultati dell’offensiva ucraina, si chiedono se non sia il caso di trovare un’altra soluzione. Ma da tutti i sostenitori della linea intransigente, si continua a ripetere il ritornello che “non si può trattare con chi ha violato il diritto internazionale con un’aggressione”.

Allora, andiamo ad esaminare che cosa dice in proposito il diritto internazionale.

L’articolo 2, paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, approvata il 26 giugno 1945, pone il divieto per gli stati membri di ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. L’unica eccezione all’impiego della forza militare è il diritto alla legittima difesa (art. 51) in virtù del quale lo stato che subisce l’attacco armato può ricorre alla forza finché non intervenga il Consiglio di sicurezza. Il diritto di legittima difesa, usando la forza armata, spetta anche a Stati terzi che possono intervenire in difesa del primo (legittima difesa collettiva in cui rientra la NATO).

Il Consiglio di sicurezza (CDS) è l’organo dell’ONU che, agendo in nome degli stati membri, ha la responsabilità primaria per il mantenimento della pace (art. 24) e della sicurezza internazionale (art. 41). È composto di 15 membri: 5 seggi permanenti appartengono rispettivamente a Cina, Francia, Regno Unito, Russia (ereditato dall’Unione Sovietica), e Stati Uniti; i 10 seggi non permanenti, con mandato biennale, ruotano tra gli altri paesi membri dell’ONU per elezione da parte dell’Assemblea Generale. Le deliberazioni sono prese con voto favorevole di 9 membri nel quale siano compresi i voti dei membri permanenti (art. 27), ciò che significa il conferimento a ciascuno di essi di un diritto di veto, e di poter quindi bloccare qualsiasi risoluzione “sostanziale”.

Il CDS può decidere misure economiche, commerciali, finanziarie, diplomatiche o di altro genere contro lo stato responsabile di violazioni della sicurezza internazionale. Qualora tali misure risultino inadeguate, lo stesso CDS può giungere a decidere un’azione militare contro lo Stato in questione (art. 42). Non essendo il CDS dotato dei necessari mezzi militari, esso fa ricorso ad operazioni di peace-keeping di carattere conservativo della pace, mediante l’invio dei caschi blu, autorizzati – di regola – all’uso delle armi solo per difendersi da eventuali attacchi. Nelle situazioni in cui occorra agire in maniera coercitiva contro uno Stato per fare cessare una aggressione, o per liberare un paese occupato militarmente da un altro, o per garantire la sicurezza di certe aree, o le popolazioni la cui sopravvivenza sia minacciata, il CDS adotta risoluzioni con le quali autorizza gruppi di Stati, o alleanze e organizzazioni regionali, ad usare la forza per conseguire l’obiettivo di volta in volta previsto e ristabilire la pace internazionale.

Quindi i soli interventi armati legittimi riguardano quelli messi in atto da chi subisce una aggressione reale, non semplicemente supposta o minacciata (la difesa preventiva non è ammessa), e quelli autorizzati dal CDS contro lo Stato responsabile di azioni aggressive o di violazioni della sicurezza internazionale. Tutto il resto, comunque motivato (esportare o difendere la democrazia, ragioni umanitarie, lotta al terrorismo, ecc.) costituisce una violazione del diritto internazionale in assenza di approvazione del CDS.

A seguito dell’intervento NATO in Kosovo del 1999, ha avuto luogo, nel settembre dello stesso anno, un dibattito in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla sua legittimità, e più in generale sulla legittimità di casi analoghi, un evento a cui il numero di “Limes” del dicembre 1999 ha dato ampio risalto.

In tale occasione, i paesi occidentali hanno assunto una posizione “revisionista”, tesa a rimuovere gli stringenti limiti posti dalla Carta delle Nazioni Unite all’uso della forza senza consenso del CDS. Ma gli altri paesi, e in particolare il gruppo di quelli tradizionalmente non allineati, hanno adottato una posizione di tipo legalitario, negando in via di principio la possibilità di ricorso all’azione militare se non espressamente autorizzata da un mandato del CDS; in assenza del quale (come detto dal ministro degli esteri svedese) si correrebbero rischi di anarchia e di messa in pericolo della pace e della sicurezza internazionale. Altri hanno sottolineato il pericolo di un “doppio standard”, cioè dell’intervento a protezione dei diritti dell’uomo o della sicurezza internazionale esclusivamente in quelle aree dove sono presenti interessi politici delle grandi potenze.

Ora, nell’ottica dell’illegittimità di ogni intervento non approvato dal CDS, diventa lungo l’elenco delle infrazioni della Carta delle Nazioni Unite commesse da numerosi Stati. Accenno ad alcune di quelle riconducibili agli USA, che oggi fanno una bandiera del rispetto del diritto internazionale.

Occupazione USA di Grenada (1983); attività militari e paramilitari americane dentro e contro il Nicaragua (1986); intervento a Panama di forze americane per deporre e catturare il presidente Noriega (1989); intervento NATO in Kosovo (1999). Ci sono poi le varie guerre ed operazioni militari “difensive” motivate da fatti o minacce rivelatisi falsità: incidente del golfo del Tonchino del 1964, casus belli per l’attacco americano al Vietnam del Nord; possesso di armi di distruzione di massa per giustificare la seconda Guerra del golfo nel 2003 (la provetta di vetro contenente presunta antrace sbandierata da Colin Powell); ed altre ancora sulle quali sarebbe troppo lungo entrare in merito.

Torniamo al discusso ruolo del CDS nell’autorizzazione di ogni operazione militare. Si potrà dire che ad impedire al CDS di fare quanto sarebbe necessario è sovente il diritto di veto a cui i membri permanenti possono fare ricorso. In effetti, sugli oltre 280 veti posti finora, vi hanno fatto ricorso principalmente l’Unione Sovietica/Russia (per poco meno del 50%) e gli Stati Uniti (per circa il 30%), il che certamente snatura la funzione di detto Consiglio. Posso aggiungere che di negativo non c’è solo questo: la stessa esistenza di membri permanenti pare oggi ingiustificata e pone degli interrogativi; inoltre, i membri non permanenti sono eletti da un’Assemblea generale dove sono presenti molti stati microscopici (con meno di 300mila abitanti) e piccoli Paesi (sotto ai 2-3 milioni di abitanti), tutti nell’insieme incapaci di avere una voce propria sulle questioni internazionali, ma totalmente condizionati dalla potenza egemone o dalle nazioni di cui sono stati colonie. Può così capitare che deliberazioni assunte dall’Assemblea Generale non abbiano avuto il sostegno dell’insieme dei paesi che raccolgono la maggioranza della popolazione del pianeta.

È quindi l’architettura delle Nazioni Unite a non reggere di fronte ai compiti che la stessa Carta assegna a detto organismo. Lo dimostra la oltre cinquantennale incapacità delle Nazioni Unite e della comunità internazionale di affrontare seriamente la questione della Terra Santa, a partire dall’inazione a fronte del mancato rispetto israeliano dell’ingiunzione di restituire i territori conquistati con la forza militare nel 1967 (risoluzione n. 242 delle Nazioni Unite), e in seguito con l’inerzia manifestata rispetto ai drammatici eventi che da anni, e ancora oggi, continuamente si verificano in questa terra.

Attualmente, un altro punto caldo è quello di Taiwan, una questione che, con riferimento al diritto internazionale, è di assoluta chiarezza: Taiwan non è uno Stato indipendente riconosciuto dall’ONU, né dai principali Stati, USA inclusi; è una provincia della Cina.

Dal punto di vista del diritto internazionale, Taiwan è nella stessa situazione della Crimea, dell’Abkhazia, dell’Ossezia, formalmente appartenenti rispettivamente all’Ucraina e alla Georgia, ma di fatto sotto controllo russo o indipendenti. Ma, mentre, da parte occidentale, alla Cina non è considerato lecito riappropriarsi di un territorio giuridicamente suo, lo si ritiene invece un diritto per l’Ucraina e la Georgia. La stessa cosa si può dire in Medio Oriente dei territori occupati da Israele con la Guerra dei sei giorni, da essa iniziata, o del Kosovo strappato alla Serbia con una guerra senza avvallo del CDS, quindi in violazione del diritto internazionale.

Quindi mettiamo da parte il ricorso pretestuoso al diritto internazionale, visto l’uso strumentale che se ne fa. In ogni caso, non si possono affrontare le questioni di ordine internazionale in modo astrattamente giuridico. Occorre tornare alla realtà, cercando di fondare la pace su una condizione di equilibrio tra le potenze, grandi e minori, che tenga conto delle legittime preoccupazioni di tutte, avendo presente la storia, e senza dimenticare la volontà delle popolazioni coinvolte.

Nel caso specifico della guerra in Ucraina, non è sostenibile la rappresentazione di una Russia ove Putin, un mattino di febbraio 2022, si sveglia e decide di aggredire un’Ucraina che badava ai fatti propri. Si trascura volutamente che sul confine ucraino orientale, era già in corso una guerra a partire dal 2014, innescata dalle questioni irrisolte lasciate aperte dal dissolvimento dell’URSS. Il crollo di ogni impero multinazionale porta sempre con sé una lunga serie di contrasti e conflitti locali (Crimea, Nagorno Karabakh, Ossezia, Transnistria, Cecenia ecc.) e pericolose situazioni di caos (nel Caucaso e nell’Asia centrale) che devono trovare soluzione in ambito regionale, senza che potenze esterne soffino sul fuoco per propri interessi, poiché ne derivano sempre sviluppi pericolosi per il mondo intero.

A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la Russia si è sentita minacciata dalla sempre più forte pressione occidentale con l’estensione a est della NATO. Nessuna potenza vuole ai suoi confini paesi ostili. Esemplare il caso di Cuba: prima (1961), il tentativo americano di rovesciare il regime castrista con lo sbarco di fuoriusciti cubani per dare pretesto a un intervento diretto; poi (1962) blocco statunitense di Cuba per impedire l’istallazione di missili sovietici nell’isola (che si sentiva ancora sotto minaccia di invasione), missili analoghi a quelli impiantati dagli americani in Turchia al confine sovietico.

Inoltre, la Russia ha visto con preoccupazione, in Paesi con essa confinanti, rivoluzioni “colorate” (in realtà colpi di stato con la decisiva partecipazione di squadristi e formazioni paramilitari, e il forte sostegno politico ed economico di nazioni occidentali) che hanno portato al potere accesi nazionalisti. Infine, a dare conferma alla minaccia da occidente, è sopraggiunto il preannunziato ingresso dell’Ucraina nella NATO, senza dimenticare le dichiarazioni di Zelenski (fatte a fine 2021 e inizio 2022) di essere ormai pronto militarmente per soffocare la rivolta nel Donbass e per riconquistare la Crimea.

Oggi, il proseguimento della guerra per ottenere la sconfitta e il dissolvimento della Federazione russa rappresenta una strategia pericolosa dalle conseguenze esplosive già sperimentare in altri scenari. La sola alternativa può essere una soluzione di compromesso, o, se vogliamo dire, una pace “giusta”. A tal fine, bisogna riconoscere che sono sempre in campo tutte le questioni già presenti prima del febbraio 2022, alle quali occorre dare una soluzione che rassicuri l’Ucraina, garantendole di non essere fagocitata dalla Russia e di poter mantenere la propria indipendenza, ma che tenga conto anche dei problemi posti da Mosca: 1) la preoccupazione di avere al proprio confine un Paese aderente alla NATO, alleanza rivitalizzata nel Novanta al solo scopo di spingere la Federazione russa sempre più verso est; 2) garanzia di libero accesso al Mar Nero, tenuto conto che tutti i porti della Russia meridionale possono essere bloccati da una Crimea in mani ostili; 3) mettere fine ai conflitti che dal 2014 insanguinano le terre russofone, fornendo una qualche risposta (come si tentò con gli accordi di Minsk) alle aspirazioni della popolazione russa maggioritaria nel Donbass, e in una Crimea che più volte – 1992, 1994 e 1998, ben prima che Putin fosse al potere – ha chiesto di essere indipendente da Kiev.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte

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