Il contesto: Nella giornata di sabato 24 Febbraio, secondo anniversario dell’attacco russo all’Ucraina, il G7 a presidenza italiana si è riunito a Kiev confermando l’impegno ad appoggiare l’Ucraina e chiedendo a Mosca di dare informazioni sulla morte del dissidente Navalny. In una cerimonia svoltasi presso l’aeroporto di Hostomel, il presidente Zelensky sottolineando la volontà di indipendenza del suo Paese ha ringraziato il popolo ucraino ed i suoi combattenti per il loro sacrificio.
I tre leader del G7 presenti, Giorgia Meloni per l’Italia, Justin Trudeau per il Canada ed il belga Alexander De Croo, hanno sottoscritto ognuno un accordo bilaterale per fornire aiuti all’Ucraina. Assente il presidente Macron che, di fronte al nodo spinoso della protesta del mondo contadino francese, ha preferito non disertare la grande fiera agricola di Parigi.
Riassumendo gli impegni presi, la Meloni ha dichiarato che nell’accordo è compreso “l’impegno alla collaborazione immediata e rafforzata nel caso di un futuro attacco nei confronti dell’Ucraina”. Fra i temi dell’intesa, anche la “cooperazione in ambito industriale della difesa, economico, delle infrastrutture critiche ed energetiche, del sostegno umanitario, dello scambio su cybersecurity e intelligence e della ricostruzione”.
In un contesto di crescente aggressività russa e di difficolta dell’Ucraina per insufficienza di uomini da schierare sul fronte e di strumenti di guerra, la portata di questa dichiarazione è talmente vasta che temo ricada nelle abitudini di molti politici che dopo aver parlato credono di aver fatto tutto. Se questo fosse il caso, si tratterebbe di un passo diplomatico miope, figlio di quel realismo di certa politica che con formule opache finisce con l’ingannare se stessa e gli altri.
Passando al fronte ucraino, benché sotto pressione, le forze di Kiev continuano a resistere pur difettando di proiettili e munizioni e soffrendo la mancanza di rimpiazzi da inviare in prima linea per sostituire i soldati esausti dopo lunghissimi periodi di combattimento.
Nel 2022 gli ucraini erano riusciti a fermare l’avanzata russa impedendo il realizzarsi dei disegni di Putin. In alcuni punti erano riusciti addirittura a far retrocedere gli invasori. Più difficile è stato lo scorso anno in quanto, dopo alcuni tentativi di sfondamento, la controffensiva di Kiev non ha dato gli esiti sperati: dopo alcuni tentativi di sfondamento il fronte si è bloccato, passando ad una guerra di logoramento che ancora oggi caratterizza il corso delle operazioni.
Anche se iniziato da poco, quest’anno si annuncia invece più incerto: più forti per potenza di fuoco ed in termini numerici, i russi riescono a rosicchiare terreno avanzando di pochi chilometri alla volta col probabile intento di allargarsi nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Gli ucraini cercano di tenere le linee e colpire dove sarà loro possibile. Maggior successo hanno avuto nel Mar Nero, riuscendo a liberarlo in modo sostanziale dalla presenza navale russa dopo aver inflitto una serie di gravi perdite ed abbattuto anche numerosi aerei. Si è trattato per Kiev di una vittoria importante che le ha consentito di riprendere le esportazioni, soprattutto agricole, compensando così le difficoltà incontrate sul terreno e consentendole di mantenere il suo ruolo nel circuito dell’economia mondiale.
In Ucraina aleggia adesso un clima di stanchezza perché è sempre più evidente come la guerra sia destinata a durare e gravare sulla vita della popolazione: gli attacchi russi, che continuano a colpire soprattutto le infrastrutture ed i centri abitati, si svolgono in modo ininterrotto, così come lo è il numero delle vittime civili.
Dall’inizio della guerra si è moltiplicato il numero delle regioni colpite passando da due a sedici, mentre è diminuito della metà il numero di missili russi abbattuti. Nessuno intende però arrendersi e continua la volontà di resistere e battersi con coraggio. Il presidente Zelensky lamenta il fatto che le forze armate abbiano ricevuto solo il 30% dei munizionamenti promessi dall’Europa, mentre dal canto loro i militari reclamano più armi e mezzi per combattere, soprattutto più potenti, per meglio rispondere agli attacchi russi. Ciò che consente agli ucraini di battersi è l’appoggio economico e militare degli Stati Uniti e dell’Europa.
Premessa: Mentre l’Occidente tergiversa, a Kiev servono le armi per continuare la guerra. Alle incertezze dell’Europa, e per via del blocco da parte del Congresso di sessanta miliardi di dollari destinati dal presidente Biden in aiuti, si aggiunge la concentrazione di truppe russe al confine che potrebbe far pensare ad una prossima offensiva. Proprio in questo momento, a due giorni dalla conclusione del vertice del G7, il presidente francese Macron ha riunito a Parigi una Conferenza Internazionale sull’Ucraina alla quale si sono recati una ventina di Capi di Stato e di governo.
Anche se la stampa italiana, notoriamente piuttosto addomesticata, ha preferito non dilungarsi, questo evento è stato un vero e proprio schiaffo al paese. Scopo di questa riunione era di come rispondere alla crisi ucraina. Con piglio deciso, il presidente francese ha chiesto ai suoi ospiti di compiere lo sforzo necessario per sostenere l’Ucraina. Per lui la Russia non può e non deve vincere la guerra: Kiev ha bisogno di tutto l’appoggio possibile ed è necessario da parte dell’Europa compiere un salto di qualità per la salvezza dell’Ucraina.
Dal punto di vista del diritto internazionale una simile annessione è priva di legittimità in quanto i confini non posso essere cambiati con la forza. A scontrarsi in questo caso sono due diverse visioni del mondo e, se l’Occidente rappresenta qualcosa che merita di essere difeso, è necessario a questo punto decidere se stare da una parte o dall’altra e se il Congresso americano continuerà a bloccare gli aiuti destinati a Kiev, gli europei in qualche modo dovranno farsi avanti per sostituirli. Personalmente resto convinto che entro breve questi aiuti arriveranno, ma nel frattempo le forze di Kiev sono in difficoltà: hanno bisogno di armi e munizioni per resistere e, soprattutto, di quei sistemi antiaerei indispensabili per colpire le crescenti capacità offensive di Mosca.
Zelensky ha risposto ringraziando i leader europei e sottolineando che al suo paese non servono tanto eloquenti dichiarazioni di sostegno, quanto piuttosto armi: per il momento il suo paese è ancora in grado di reggere, ma ha bisogno di più aiuti. A questi leader non sfugge il prezzo che Kiev sta pagando per difendersi e sono indubbiamente preoccupati. Malgrado ciò, continuano a guardare in direzione di Washington quando dovrebbe essere chiaro a tutti che è urgente fare qualcosa perché l’incertezza cresce, sale la pressione della Russia e l’Ucraina arranca.
Con quest’incontro Macron ha mostrato di aver cambiato idea riguardo Putin e ha finito per allinearsi con Zelensky nel sottolineare l’importanza di questa guerra riguardo il futuro dell’Europa. E’ a questo punto indispensabile che Bruxelles si mobiliti per venire incontro alle necessità di Kiev e che la Francia stessa debba impegnarsi più a fondo. Ancora più importante accelerare i tempi delle forniture militari. Benché in inferiorità numerica e materiale, agli ucraini non manca la volontà di battersi: sono loro ad essere in prima linea ed è dunque necessario prestare ascolto alle loro richieste. Egli ha ragione nel dire che nessuna opzione è da escludere e forse lo avrebbe dovuto dichiarare prima.
In tutta evidenza, il Presidente francese vuole assumere il ruolo di chi è pronto ad adoperarsi affinché Putin non possa vincere la guerra. La Francia non solo ha l’esercito più efficiente ma è anche l’unico paese dell’Unione ad avere l’atomica. Macron di queste Forze armate è il comandante in capo ed anche se per difetto, egli cerca di porsi a capo dell’Europa cosciente di essere l’unico a poter reclamare questo ruolo. Con queste parole egli ha lanciato una provocazione nella speranza di ridare slancio all’idea di Europa e sferzarla per infondere dinamismo ad un progetto di difesa comune: l’Unione deve dotarsi di una sua forza militare, sviluppare una propria industria bellica ed accelerare la produzione di armamenti.
Nel corso della conferenza il presidente francese ha menzionato la possibilità che forze armate straniere possano intervenire in aiuto a Kiev. Queste parole non fanno che sottolineare che per lui gli ucraini non devono perdere questa guerra. Se la posta in gioco è la democrazia, egli ha una sua logica: non si possono sempre condurre guerre per interposta persona. Per estensione territoriale, popolazione e ricchezza l’asimmetria è tale che in una guerra di logoramento i vantaggi sono tutti dalla parte di Mosca. L’Ucraina va dunque difesa e la Russia non deve avere la meglio, anche se questa guerra non potrà comunque vincerla.
Drammatizzando la situazione, Macron ha voluto smuovere le coscienze e preparare l’opinione pubblica ad affrontare meglio la questione, aprendole gli occhi al pericolo implicito nell’azione di Putin. Questa guerra non è solo territoriale, né riguarda unicamente l’Ucraina: è anche un conflitto di ideali che rappresentano due visioni opposte del mondo. I veri nodi sono l’Europa e la credibilità dell’Occidente.
Intorno a questa dichiarazione si è subito alzato un polverone e si sono affrettati tutti ad esprimere reticenza, se non addirittura contrarietà: no, gli Occidentali non invieranno truppe in Ucraina. La stessa Nato ha dichiarato di non aver nessun piano per l’invio di truppe. Da Berlino a Londra, da Varsavia a Bratislava, si sono tutti pronunciati contro di lui. Da Mosca, il ministro degli Esteri Lavrov ha dichiarato che dovrebbe dire cose più ragionevoli e meno pericolose per l’Europa. Dagli Stati Uniti è lo stesso presidente Biden a non poterlo appoggiare per le sue necessità elettorali, dato che le primarie gli impongono di tenere unito il suo partito. Egli è comunque contento che in Europa la Francia stia esprimendo una leadership capace di assumere una posizione decisa sulla guerra in Ucraina.
A Parigi, tuoni e fulmini all’interno dell’Assemblea Nazionale: le opposizioni sono insorte parlando di un passo in direzione della co-belligeranza che metterebbe a rischio l’esistenza di milioni di francesi. Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, si è mostrata furibonda mentre dalla sinistra estrema Jean-Luc Mélenchon si è dichiarato convinto che il presidente fallirà. Contraria anche l’opinione pubblica, per lo più stanca ed indifferente di fronte alle crisi internazionali.
Questa dichiarazione di Macron non va intesa come se fosse necessario inviare uomini a combattere sul terreno e neppure vuol dire oltrepassare la soglia dell’intervento. Vuol dire semplicemente che al punto in cui è giunto il conflitto non si deve escludere nulla: si possono inviare tecnici militari per assicurare la manutenzione ed il buon funzionamento delle armi a tecnologia avanzata, esperti in guerra elettronica ed informatica per ostacolare e combattere interferenze russe oppure istruttori per addestrare i soldati sul posto piuttosto che sparpagliarli tra vari paesi europei, cosa che prende più tempo e costa più caro. La guerra moderna è un’immensa macchina che per funzionare ha bisogno di molti talenti e non solo di fanti.
Si tratta anche di vedere di quanti uomini il presidente parla e di quale debba essere la loro missione. Già oggi la Gran Bretagna ammette la presenza di suoi militari in Ucraina e la Cia finanzia da tempo 12 basi alla frontiera con la Russia. Una presenza di personale europeo che copra circostanze simili non è da escludere. Così dicendo, il presidente francese ha semplicemente infranto un tabù affermando che non si può escluder nulla e che la Russia deve essere sconfitta.
Qualcuno ha finalmente lanciato il sasso nello stagno: è da vedere ora dove arriveranno le onde. Intanto tra le classi dirigenti europee sembra delinearsi una presa di coscienza delle difficoltà che l’Ucraina sta affrontando e già vi è chi evoca l’invio di missili a lunga gittata e di aerei più efficaci. Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, così come i danesi, sta chiedendo un’azione coordinata da parte dell’Europa per l’acquisto comune di armi da destinare a Kiev anche da paesi terzi come Corea del Sud e Sudafrica. Questo di Macron è stato un passo avanti necessario perché di fronte all’aggressività di Putin è indispensabile trovare risposte che non siano le solite formulette del “deploriamo”, “condanniamo fermamente” e così via.
Per avere la pace non si può essere deboli e chi pone dei limiti alla difesa dell’Ucraina finisce col fare la scelta della disfatta: di fronte all’aggressione di Mosca è necessario affermare la propria disponibilità a rispondere e se si vuole evitare di inviare truppe sul campo non c’è altra scelta che armare l’Ucraina: se la Russia dovesse vincere questa guerra sarebbe un tonfo per la credibilità dell’Europa e non vi sarebbe più sicurezza. Questo è tanto vero se si pensa che la Russia con un Pil simile a quello dell’Italia o della Spagna riesce a condurre una guerra, mentre l’Unione con i suoi 27 e spese militari ben superiori non ne è in grado.
Questa dichiarazione è stata se non altro utile ad aprire gli occhi agli inadeguati leader del continente, che hanno avuto bisogno di oltre due anni per capire con chi avevano a che fare al Cremlino e cosa fosse questa aggressione, iniziata di fatto nel 2014 con l’annessione della Crimea. Il presidente francese si è reso conto che ciò che è stato finora detto e fatto non è sufficiente. Per la maggioranza degli europei, fino ad oggi a far da esercito è stato l’ombrello difensivo americano incarnato dall’Alleanza Atlantica. Questo ha funzionato fino al 1991, data del crollo dell’Unione Sovietica.
Col nuovo secolo si sono susseguiti una catena di avvenimenti che dovrebbero aver fatto suonare più di un campanello di allarme. Il mondo si è andato facendo gradualmente più complesso, col risultato che è stato intaccato e poi alterato il sistema di equilibri globale come lo si è conosciuto fino ad oggi. Sono adesso necessarie profonde riforme e coraggiose risposte in direzione di un mondo multi-polare e perciò più difficile da gestire.
Data la rilevanza di questa dichiarazione non sarei sorpreso se prima di pronunciarla egli si sia consultato con il presidente Biden, attualmente in campagna elettorale, e che forse se ne sia fatto uso per mettere all’angolo i Repubblicani che da cinque mesi continuano a creare problemi all’invio di quegli aiuti destinati a sostenere lo sforzo militare di Kiev. Non è un caso che Biden si sia rivolto al Congresso avvisandolo che per via del suo immobilismo gli Ucraini saranno costretti a pagare un prezzo altissimo. Per gli americani resta comunque il fatto che si tratti essenzialmente di una guerra europea, combattuta sul suolo europeo e che dovrebbe spettare agli europei impegnarsi per primi e più a fondo.
A mio giudizio, quella di Macron è un’iniziativa da non criticare perché non fa altro che esprimere quel concetto di “ambiguità strategica”, indispensabile a spiazzare l’aggressore in un contesto di guerra privandolo di quella sicurezza derivante dal conoscere in anticipo le decisioni ed i limiti della parte avversa. Quando la Germania dichiara di non voler inviare uomini e missili e gli Stati Uniti nicchiano sulla fornitura di armi più avanzate, aggiungendo che non invieranno nessun soldato a combattere in Ucraina, Londra, dal canto suo, sottolinea di non prevedere un dispiegamento su larga scala e la NATO afferma di non aver nessun progetto di inviare truppe in soccorso a Kiev, tutto ciò non fa che rendere la vita più facile a Putin consentendogli di prendere quelle decisioni che meglio si addicono ai suoi scopi e alla situazione che deve affrontare.
Queste parole potrebbero anche servire ad abituare l’opinione pubblica occidentale ad agire con maggior determinazione nel caso di una massiccia offensiva russa tale da mettere in seria difficoltà lo schieramento militare di Kiev e le sue capacità difensive. Meritano elogio, se non altro per smentire quegli utili idioti persuasi che sia del tutto inutile venire in soccorso agli ucraini: la guerra è comunque persa e Mosca non può che vincerla. A che pro dunque impegnarsi se l’esito è scontato?
Malgrado le numerose e ripetute smentite per l’Ucraina questa dichiarazione resta un buon segno. Che questa abbia infastidito il presidente Putin lo conferma la sua affermazione che l’invio di truppe in Ucraina non sarebbe nell’interesse dell’Occidente. Al momento, comunque, tutto ciò fa parte di un falso dibattito perché attualmente ogni paese europeo invia armi ed aiuti per conto proprio. E’ più che mai necessario fare una scelta, non essendo più il caso di andare avanti tentennando ed a piccoli passi.
L’esito del conflitto dipenderà in gran parte dalla forza e dall’intensità del sentimento di unità nazionale del popolo ucraino. Come europei, nostro compito è quello di procedere uniti condividendo la stessa visione strategica e sapendo che direzione prendere. Ad oggi gli ucraini si sono mostrati soldati coraggiosi, abili, flessibili e dotati di immaginazione. Non molti sarebbero stati capaci di resistere e reagire all’offensiva russa nelle condizioni in cui si sono trovati.
Alcune parole sullo stato della difesa in Europa: L’industria europea della difesa non si trova in condizione di efficienza, tanto che in molti casi mancano sia i macchinari che le materie prime. Persino la Francia, che dopo gli Stati Uniti è il secondo esportatore di armi al mondo, non è in grado di produrre una quantità di armi sufficienti per un conflitto ad alta intensità. Parigi è oggi in grado di fabbricare intorno ai 20.000 proiettili l’anno, l’equivalente del consumo di due giorni di combattimenti in Ucraina. Spera presto poterne produrre il doppio e forse addirittura il triplo. La stessa Europa dall’inizio della guerra è riuscita ad incrementare di circa il 20-30% la sua produzione di munizioni, quantità comunque ben al di sotto di ciò che servirebbe a Kiev per continuare a battersi con qualche probabilità di successo.
Il presidente Macron ha capito che gli è oggi necessario trovare quell’insieme di risorse e competenze indispensabili ad alimentare le catene di produzione nazionali e dotarsi di quelle materie prime utili ad affrontare un conflitto. Lo stesso devono capire gli altri leader europei. Non si tratta solo di armarsi ma anche di salvare le rispettive industrie belliche: non si possono avere 27 ministri della Difesa, altrettante industrie militari e Forze armate. È tutto troppo caro ed inefficiente. Sarebbe d’obbligo ridurre e standardizzare il numero dei sistemi d’arma e collaborare ognuno secondo le proprie capacità. Il risparmio sarebbe enorme e si scenderebbe in campo con armi compatibili ed interscambiabili, a tutto beneficio di una ben maggiore efficienza e capacità militare.
Questo è tanto vero che il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg lamenta l’eccessiva lentezza delle forniture militari all’Ucraina e propone un fondo di 100 miliardi di euro in aiuti spalmato su 5 anni. L’Occidente, Stati Uniti inclusi, spende in armi 18 volte più della Russia e 4 volte più della Cina. Situazione a dir poco surreale alla quale è necessario porre urgente rimedio e non più muoversi in ordine sparso.
Riguardo la Nato, solo 11 Stati raggiungono la quota del 2% del Pil da destinare al suo finanziamento. E’ dunque urgente aumentare questa spesa per rafforzare le capacità di difesa comune. L’Ucraina al momento può sopravvivere solo con l’ausilio dell’Occidente: lasciata a se stessa non ha scampo. Ad oggi, l’Europa non ha sufficienti mezzi da destinare a Kiev: siamo sempre nella logica del “vedremo”, “faremo”, “daremo”.
Divisa, assorbita da cavilli, insicura e tentennante, l’Europa è lentissima nell’agire e, soprattutto, inadeguata di fronte ad una simile situazione. A molti non piacerà sentirlo dire, ma l’unico modo per giungere ad una pace con Putin è mostrargli con la massima determinazione di essere disposti a difendersi senza indugi ed eventualmente anche a combattere: quella dell’Ucraina rappresenta un’emergenza comunitaria rendendo necessario sviluppare quella consapevolezza che al netto del sostegno economico, politico e militare potrebbe forse essere necessario anche un’intervento armato. Più il fronte sarà risoluto e più sarà efficace. Questo è un momento chiave e l’Europa non può permettere la sconfitta di Kiev.
Gli errori dell’Occidente e loro conseguenze: Visto il modo di procedere del presidente russo, abilissimo nello sfruttare ogni segno di debolezza e portare qualsiasi situazione al limite, il primo errore è stato commesso nell’estate del 2008 a seguito dell’invasione della Georgia, di fronte alla quale l’Occidente a malapena ha aperto bocca. Vorrei intercalare un ricordo personale. All’epoca dirigevo l’Ufficio Affari Esteri del Movimento Repubblicani Europei ed avevo elaborato un progetto per incrementare la presenza dell’Italia proprio in quella regione. Feci amicizia con l’allora ambasciatore Gogsadze e decidemmo insieme di procedere in quella direzione. Inutile dire che non incontrai il minimo interesse da parte della politica.
Tentai allora di vedere se era possibile fare qualcosa nel settore della cultura, sempre un ottimo terreno di partenza per sviluppare un rapporto. Mi misi dunque in contatto con un buon amico al Ministero dei Beni Culturali che trovò piuttosto interessanti le mie considerazioni. Anche in questo caso non se ne fece nulla perché non vi erano fondi a disposizione. Provai allora ad organizzare un’esposizione di artisti georgiani contemporanei presso una nota galleria d’arte. Chiamai dunque il mio amico Pino Casagrande ed insieme all’ambasciatore ed al suo addetto culturale lo andammo a trovare. Anche qui purtroppo la cosa non ebbe seguito.
Quando nell’estate del 2008 le prime truppe russe entrarono in territorio georgiano, mi recai subito presso la loro sede diplomatica per offrire le mie simpatie e chiedere in che modo un partito insignificante come il mio potesse rendersi utile. A parte le parole, ahimè, vi era ben poco si potesse fare. Cercai in qualche modo di coinvolgere qualcuno del governo ma nessuno mosse un dito. Berlusconi era in Sardegna a divertirsi ed il suo Ministro degli Esteri, se ricordo bene, si trovava alle Seychelles con un’amica. Fui l’unico, mi venne poi detto, a mostrare interesse per le sorti della Georgia e a cercare di muoversi in qualche modo.
Penso a questo punto Putin abbia cominciato a realizzare che poteva invadere paesi senza che nessuno se la prendesse troppo a male. Il secondo fu quello del presidente Obama nel 2012 quando aveva annunciato la sua “linea rossa”, dichiarando che in caso di impiego da parte del presidente Assad di armi chimiche contro i civili, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in loro difesa. Le armi chimiche vennero poi usate ed Obama non fece nulla. Anche Francia e Gran Bretagna, che si erano espresse in modo simile, non agirono.
Compresa la situazione, il presidente Putin fece di tutto per preservare il potere di Assad, suo fondamentale alleato in Medio Oriente. Di ciò si era discusso a lungo nel nostro Tavolo di Politica Estera per giungere alla conclusione che si era trattato di un grave errore da parte della Casa Bianca: non è un caso che Putin decise un ulteriore passo avanti annettendosi arbitrariamente la Crimea e mettendo poco dopo in atto un tentativo di annessione dell’intera regione del Donbass. La risposta dell’Occidente è stata in entrambi i casi piuttosto blanda. Persuaso di avere a che fare con avversari decadenti, deboli ed insicuri, il presidente russo si è messo in attesa dell’occasione successiva per avanzare i suoi interessi. Con la sua inerzia l’Occidente aveva minato il suo prestigio e reso più probabile un futuro conflitto: l’opportunità si manifestò nell’Agosto del 2021.
Nel caos più totale, il 31 Agosto veniva completato il ritiro delle truppe occidentali dall’aeroporto di Kabul, divenuto luogo simbolo degli ultimi giorni in Afghanistan soprattutto dopo gli attentati dello Stato islamico del 26 Agosto. Le modalità e la tempistica del ritiro si riflessero in modo disastroso sulla condotta degli Stati Uniti e l’operato del presidente Biden che confermava un’idea di disimpegno.
Al presidente Putin tutto ciò non sfuggì e convinto di poter tutto osare, appena possibile ne approfittò per invadere l’Ucraina. Le cose non si svolsero come aveva sperato. L’avanzata del suo corpo di spedizione fu presto arginata da un’inaspettata volontà di resistenza del popolo ucraino e del suo presidente, Volodymyr Zelensky, erettosi a difensore della causa nazionale.
Il presidente Putin oggi conta su una stanchezza dell’Occidente che ne diminuisca la volontà di continuare ad impegnarsi nell’assistere l’Ucraina nella sua guerra. In questo contesto non sono di aiuto le parole del Papa quando afferma che “è più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca” e, soprattutto, “quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare”.
Se a queste si aggiunge l’intervento del cardinale Zuppi dove afferma che “le parole del Papa sulla guerra tutt’altro che ingenue, la vita prima di tutto” e che “la pietà prevale su ogni valutazione tra aggressori e aggrediti, a ragioni e torti”, non c’è da stupirsi se Putin possa interpretarle come un messaggio che la guerra è praticamente vinta. Quello suo non è un governo che rispetta gli obblighi ed è la debolezza a spianargli la strada. Più utile sentire Zelensky quando afferma che “non vi sarà nessuna resa”.
Cosa fare adesso: Al punto in cui siamo, dopo tutto ciò che è stato fatto ed i sacrifici degli ucraini, né Stati Uniti e né Europa possono consentire la caduta di Kiev, né tantomeno possono abbandonarla al suo destino fino a che il Congresso americano non sbloccherà i 60 miliardi di dollari promessi. Nel frattempo gli europei dovranno trovare il modo di fornire agli ucraini le armi necessarie nel più breve tempo possibile: questi infatti lamentano l’insufficienza di forniture militari evidenziando come in passato le due nazioni in guerra fossero in una situazione di sostanziale parità, mentre oggi su certi tipi di armamenti il rapporto è passato a 8 a 1 a favore di Mosca.
La parte ucraina: Se questo è il ruolo dell’Occidente, in Ucraina sia i militari che i civili devono mettersi in condizioni di stringere i denti e mostrarsi intenzionati a non mollare. In un contesto di crescente aggressività russa e carenza di armamenti, dopo due anni di intensi combattimenti i soldati sono stanchi e meritano qualche riposo. E’ molto difficile per loro continuare a battersi nelle circostanze attuali e benché in gran parte non giovanissimi – la loro età media si aggira intorno ai 45 anni – continuano a lottare con cuore, tanto che alcuni di loro, anche se mutilati, chiedono di poter tornare in prima linea.
Per via degli incessanti bombardamenti russi e delle crescenti pressioni sul fronte, il clima si sta facendo difficile ma il paese continua a resistere. Non è facile opporsi ad un nemico più forte, ma gli ucraini tuttavia continuano a dar prova di orgoglio e determinazione, mostrando di sapersi adattare anche in quelle zone più vicine al fronte e sul fronte stesso. La loro realtà è fatta di guerra e di resistenza.
Il governo dovrà presto trovare modo di procurarsi nuove reclute, il che significa allargare la coscrizione per mandare più soldati al fronte, soprattutto tra le classi più giovani. Se necessario potrebbero anche seguire l’esempio russo e cercare volontari nelle carceri. Queste sono misure da affrontare con urgenza, perché attualmente al fronte, a detta di alcuni veterani, i soldati russi sono dalle 7 alle 10 volte più numerosi. Anche se la cifra fosse esagerata, la differenza comunque resta e lo Stato Maggiore di Kiev afferma che per continuare a battersi l’esercito ha bisogno di qualcosa come 500 mila uomini in più.
Credo in queste circostanze che l’esercito debba impegnarsi più a fondo. Per capirlo è forse bene guardare al passato e citerò dunque due casi: nell’Agosto del 1914, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Francia, con una popolazione pressoché equivalente a quella dell’Ucraina di oggi, riuscì a mandare al fronte qualcosa come 4 milioni di uomini e l’Italia, a seguito della catastrofe di Caporetto, per far fronte alla gravissima emergenza non esitò a richiamare l’intera classe dei “ragazzi del ‘99”.
Di recente un mio amico si è recato in Lituania per motivi di lavoro e mi ha detto che vi aveva visto la nazionale ucraina di hockey. Si tratta di ragazzi giovani ed in ottime condizioni fisiche. Sarò forse antiquato, ma non penso fosse del tutto giusto che se ne andassero in giro a disputare partite in un momento così difficile per il loro paese: avrebbero dovuto togliersi i loro indumenti sportivi per indossare l’uniforme e contribuire alla salvezza della loro patria.
Considerando come si sta battendo, se l’Ucraina potesse avere un’aviazione ed un adeguato sistema di protezione antiaerea, sarebbe in grado di dare filo da torcere alla Russia. Putin lo sa e sta facendo il possibile per alterare gli equilibri sul terreno.
La parte russa: Riguardo la Russia, benché numericamente e materialmente in vantaggio, non credo abbia tutt’ora quelle capacità offensive sufficienti a condurre una guerra a dovere. Manca soprattutto di quelle indispensabili capacità logistiche per avanzare con successo: può reggere il fronte, impedire agli ucraini di contrattaccare, ma non avanzare in profondità. La situazione si presenta al momento in stallo dato che l’Ucraina non può vincere ma neppure la Russia, che al momento difetta della struttura militare adeguata. Quest’ultima fa comunque il possibile per alterare a proprio vantaggio gli equilibri sul campo, mostrando di attribuire poco valore alla vita umana e continuando a lanciare attacchi che causano molte vittime tra le fila dei suoi soldati, usati come carne da cannone.
Ad oggi, le vittime ammonterebbero a circa 150 mila, più di quelle americane nell’intera guerra del Vietnam e di quelle russe nel corso dei dieci anni di conflitto afghano.
Deciso ad andare avanti ad ogni costo e farneticante ancora di passati imperiali, Putin si arrovella a creare dissenso tra nazioni vicine e fonda la sua azione sulla forza. Ha fatto della Russia una nazione ancora più autoritaria nella quale non vige la minima libertà di informazione. Malgrado questo, con le sue dichiarazioni è sempre sulle prime pagine della stampa internazionale, anche se si tratta essenzialmente di propaganda e disinformazione. Il suo intento resta quello di indebolire l’Europa e neutralizzare l’Ucraina, tanto che nel loro intento di cancellare ogni traccia di cultura locale le truppe di Mosca stanno distruggendo e saccheggiando numerosi musei.
Il presidente russo segue un modo di procedere ereditato dall’Unione Sovietica: iniziava un’azione fermandosi solo al momento in cui diventava necessario farlo, mostrandosi abilissima nel fare accordi e subito dopo poi un altro passetto avanti fidando sulla debolezza o la bonomia dell’avversario. Così facendo, è sempre riuscita a migliorare le sue posizioni. Degno erede di questa tradizione, Putin, con le sue minacce giunte sino a palesare la possibilità dell’impiego di armi nucleari, ha fatto di tutto per suscitare paura e dissuadere l’Occidente da qualsiasi sorta di intervento.
Finora ha avuto buon gioco, tanto che ad oggi è stato soprattutto lui a dettare l’ordine del giorno. Partendo da simili princìpi non è un caso che il ministro degli Esteri Lavrov, a seguito delle parole del presidente francese, abbia dichiarato: “Macron dovrebbe dire cose ragionevoli e meno pericolose per l’Europa”.
Avvicinandosi al suo quinto mandato Putin tiene il paese con pugno di ferro, al punto che dopo 24 anni di potere i russi si sentono rassicurati. Il suo è un governo nazionalista ed autoritario che promette alla Russia che non verrà né schiacciata né intimidita e saluta il ritorno alla madrepatria dei territori annessi. Mostrandosi nostalgico di un passato imperiale, spesso più immaginario che reale, il Cremlino, con accenni alla Grande Guerra Patriottica, fomenta il nazionalismo del proprio popolo di fronte alla decadenza di un Occidente ipocrita, malevolo e corrotto.
Non si tratta che della solita retorica con la quale il presidente strumentalizza la Storia spiegando questo conflitto come una continuità della guerra contro la Germania hitleriana. Egli afferma infatti che il nazismo è oggi insito nel governo ucraino e che dunque la sua guerra è giustificata. L’Ucraina per lui non è mai esistita, si tratta solo di una provincia russa che va recuperata.
Questa visione esprime il crescente lato conservatore di Putin che, di fronte allo sfaldamento dell’URSS, si è ostinato a voler in qualche modo restaurare un’idea di questo impero. E’ questo l’aspetto inquietante di un’ideologia reazionaria che nessuno sa in che direzione continuerà ad esprimersi, ma lascia intravedere un elemento di fragilità e forse anche di incertezza.
Con lui la Russia è una nazione disciplinata dal terrore e tesa all’affermazione della potenza nazionale. Ogni sua iniziativa parte da un profondo disprezzo dell’Occidente. Nulla giustifica quest’aggressione all’Ucraina se non il desiderio di Putin di farne un protettorato della Russia. Si tratta in fondo di una guerra di aggressione condotta da una grande potenza ai danni di un paese molto più piccolo e debole che chiede solato di poter scegliersi la vita che vuole.
Intanto, all’interno del paese la guerra ha fatto salire la sua popolarità ed intorno a lui una popolazione inquieta cerca fermezza e protezione: vi è infatti una cospicua parte della Russia che ne ha fiducia e gli offre il suo appoggio. Putin, che di questo si rende conto, fa percepire al Paese di essere sotto assedio ma capace di resistere agli attacchi del mondo. Propaganda ed isolamento mediatico fanno il resto.
La concentrazione del potere in una sola persona è parte della storia della Russia, tanto che per comprendere quella odierna bisogna volgere lo sguardo a quella di ieri: se l’avvenire è condizionato dal presente, il presente lo è dal passato. Ponendosi ai suoi come uomo della provvidenza, Putin non è che uno Zar con i panni del Kgb. Vi sono oggi in Russia due società opposte, una che non può esprimersi e a cui è proibito dissentire ed un’altra, nazionalista, attaccata al suo leader ed alla quale piacciono i regimi autoritari e paternalistici.
Piuttosto che farneticare di passati imperiali, considerare la sua missione far la guerra e arrovellarsi a creare dissenso tra nazioni vicine, il presidente Putin dovrebbe capire che sul lungo termine sarebbe meglio per la Russia guardare all’avvenire, aprire un dialogo con gli Stati Uniti e cooperare alla nascita di un’Europa più forte ed integrata, risparmiando così al suo paese il dubbio onore di trasformarsi in un vassallo della Cina: al di là dei sorrisi e degli abbracci, egli dovrebbe essere il primo a sapere che tra le due nazioni non mancano problematiche ed ostilità. In fondo, vi è sempre qualcosa di bello nella Storia.
E’ possibile un negoziato?: Se si accetta la definizione che la politica sia la scienza del possibile, nulla è da escludersi. Finora però non si è visto niente e non traspare il minimo spiraglio di negoziato. Le posizioni sono agli antipodi, con il presidente Zelensky che chiede il rispetto del diritto internazionale e si batte per dare al Paese un’identità ed un avvenire ed il suo omologo russo che ha ripetutamente affermato la volontà di annettersi i territori illegalmente conquistati. Egli ha inoltre espresso l’intenzione di denazificare il Paese, ridurne al minimo gli effettivi militari ed impedirgli l’ingresso nella Nato e nell’Unione Europea: in poche parole, la sua idea di Ucraina è quella di uno Stato vassallo sul genere della Bielorussia.
Tutto ciò, inutile dirlo, non è che un pretesto: la questione Nato e l’idea di un assedio, come d’altronde quella di un’Ucraina brulicante di nazisti pronti a colpire, ne sono la conferma. La verità è ben più semplice. Il presidente Putin teme la democrazia e non si sente tanto sicuro oltre le mura del Cremlino con alla frontiera un paese che vuole essere indipendente e cerca la sua libertà. L’ultima cosa che vorrebbe è il veder soffiare sulla Piazza Rossa quello stesso vento che nel 2014 attraversò la Maidan, tre anni prima le piazze arabe e poco dopo Gezi Park in Turchia.
Colui che osserva le cose del mondo sa che la Storia non è mai scritta, che questo spirito di libertà è sempre vivo e che i giovani in maggioranza sono contro i regimi. Riuscirà Putin a controllarli? Questo è il dilemma di fronte al quale si sta confrontando e questa dunque la sua paura.
Di fronte ad un personaggio come il leader russo è un errore mostrare esitazione ed incertezza: con lui nulla è da escludersi e non si possono avere indugi o lasciar spazio alla confusione. Egli dà prova della sua forza dove sa che non vi sarà reazione. In via di principio accettare di escludere qualcosa è consegnargli un altro strumento per agire. E’ dunque necessario metterlo al suo posto facendogli capire che proseguire nelle sue azioni è controproducente: è solo allora che sarà possibile negoziare una pace. Questo è un caso preciso che pone un aggredito di fronte ad un aggressore, una guerra di liberazione nazionale contro una guerra di aggressione. Putin non può ottenere ciò che vuole.
Nessuno dei due contendenti intende cedere per il momento e comunque vada a finire, dubito ci si possa attendere qualcosa se non dopo i risultati delle elezioni europee e soprattutto di quelle americane. In Occidente, al momento, la politica estera è ostaggio di comunicazioni interne ed esigenze elettorali con ognuno che cerca di avvantaggiare la propria parte. Il presidente russo intanto ha fatto le sue scelte passando ad un’economia di guerra a scapito della crescita del paese e del benessere dei suoi cittadini.
A tutti coloro che parlano di bandiere bianche e di pace ad ogni costo, andrebbe ricordato che fine abbia fatto quel memorandum di Budapest che garantiva l’integrità territoriale dell’Ucraina a seguito della consegna del suo arsenale nucleare alla Russia.
Siglato il 5 dicembre 1994, il memorandum sulle garanzie di sicurezza in relazione all’adesione dell’Ucraina al trattato di non proliferazione è stato poi registrato il 2 ottobre 2014. I firmatari erano Russia, Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina. Quest’ultima, aderendo al trattato, ufficializzò con l’accordo la consegna delle armi nucleari presenti sul proprio suolo dopo lo scioglimento dell’URSS. In cambio, ottenne assicurazioni da parte della Russia e degli altri firmatari circa la propria sicurezza, indipendenza e integrità territoriale.
Servirebbe da parte occidentale un balzo avanti per aiutare Kiev, costretta al momento a lesinare su armi e uomini quando la sua industria e le sue infrastrutture sono degradate dagli attacchi di Mosca. L’Occidente deve chiarire ciò che vuole, ma parlare ora di negoziato sfiora l’irresponsabilità: sarebbe come consegnare a Putin un assegno in bianco affinché continui. Egli rispetta solo la forza. Allargando lo sguardo all’Asia, quale credibilità avrebbe questo cedimento nei confronti di Taiwan?
La Storia insegna che una cattiva pace è destinata a portare un probabile futuro conflitto. Senza andare troppo lontano perché non è possibile farlo, penso quasi certo che Putin, approfittando dell’attuale scarsità di capacità militari ucraine, cercherà di riconquistare tutte le posizioni possibili prima della giornata del 9 Maggio, anniversario della vittoria sulla Germania nazista. Intanto ha il pieno appoggio del patriarca di Mosca Kirill, detentore di un patrimonio da oligarca ed in passato agente del Kgb. Egli ha benedetto la guerra descrivendola come “santa” e sostiene che l’Ucraina deve tornare a far parte della Russia: si tratta di combattere il satanismo dell’Occidente e salvare l’anima della patria. In simili condizioni non vi è possibilità di dialogo e tantomeno di negoziato.
Ulteriori considerazioni: Ad osservarlo bene, questo conflitto non è che un prolungamento delle guerre coloniali del passato. Prima sotto il tallone degli Zar e poi dell’Unione Sovietica, nel 1991 l’Ucraina scelse la via dell’indipendenza e della democrazia. Questa di oggi dunque non è solo una guerra per liberare un territorio, ma anche una popolazione che tiene alla sua libertà e non vuole ricadere nell’autocrazia. Nessun negoziato è per ora in vista e quindi i combattimenti proseguiranno. Il popolo ucraino è coraggioso, resiliente e non vuole cedere. E’ dunque nostro compito appoggiarlo ed aiutarlo finché continuerà a chiederlo.
Quanto al presidente Macron, non è nuovo ad uscirsene con dichiarazioni sorprendenti. In questo caso si sarebbe trattato di dar prova a Mosca di quella “ambiguità strategica” che dal punto di vista non solo militare, ma anche diplomatico, non manca di logica dato che Putin non fa che giocare a dividere e creare confusione. Alcuni hanno espresso l’opinione che per l’Eliseo sarebbe stato forse meglio accordarsi in anticipo con le altre capitali europee prima di pronunciare questa dichiarazione e venire poi immediatamente smentito. Altri hanno voluto sottolineare l’agire del Cancelliere tedesco Scholz che rifugge sempre dall’esprimersi con enfasi: egli ha però le sue ragioni, dovendosi confrontare con i Verdi ed il resto della sua coalizione.
La Francia ragiona da potenza nucleare, utilizza lo strumento della dissuasione ed intende mandare a Putin un segnale forte. Inviare truppe in appoggio a Kiev non vuol dire necessariamente spedirle in prima linea. Può anche significare fornire tecnici, istruttori, esperti in sminamento ed in attacchi cibernetici. Macron non ha detto “invieremo soldati a combattere”, ma non lo ha neppure escluso. Questa dichiarazione potrebbe intanto servire da apripista a nuove coalizioni per fornire armi. Vorrei anche aggiungere che la politica non deve essere cassa di risonanza dell’opinione pubblica, quanto piuttosto guardar lontano, dirigere, e prendere le giuste decisioni di fronte alla Storia.
In quanto agli ucraini – va ricordato – il presidente Zelensky non aveva mai chiesto un intervento militare. Aveva addirittura affermato che i figli dell’Europa non devono andare a morire in Ucraina. Ciò che serve al suo paese sono le capacità militari per resistere sul campo: al resto avrebbero pensato loro. Nessuna implicazione dunque in termini di intervento armato.
Pronunciando queste parole a poca distanza dalle elezioni europee del 9 Giugno, in un momento in cui gli Stati Uniti si trovano bloccati da un Congresso che dà più peso alle questioni migratorie che alle sorti dell’Ucraina, il presidente Macron ha voluto inviare un segnale forte a fronte di questa aggressione che agli occhi di tutti dovrebbe considerarsi inaccettabile. Ha voluto fare un passo avanti suggerendo qualcosa di inedito di cui si preferisce non parlare per timore che da una questione locale si possa passare a qualcosa di più vasto e, forse, dare anche una scossa a coloro che per ignoranza e quieto vivere preferiscono non pensare e non dire nulla.
La direzione del mondo non può che far capire che è ormai indispensabile all’Europa una comune politica estera ed una comune difesa. Sino ad oggi erano in molti a pensare che non bisognava dirlo per non creare allarmismi tra tutte quelle persone aggrappate al passato e senza immaginazione. Fino ad oggi, a seguito della cultura del disarmo figlia della Seconda Guerra Mondiale, si era contrabbandata l’unificazione politica del continente passando per la strada dell’economia e degli accordi commerciali. Risultato: un’Europa marginale, esposta ad ogni contraccolpo internazionale ed evanescente dal punto di vista politico. Senza unione, non sarà mai protagonista del proprio destino.
L’Unione Europea al momento non ha un indirizzo sicuro e si trova in condizione di estrema debolezza, cosa che rende indispensabile trovare quell’unità fondamentale che le consentirebbe di presentarsi con una sua propria fisionomia di fronte al mondo. Essenziale dunque che i nostri mediocri politici trovino quel coraggio e quella volontà necessari per sviluppare un’azione veramente comune nel campo della difesa e della politica estera e trasformare l’Europa in una vera e grande comunità. Questo percorso di unità europea è l’unica politica estera originale, valida e senza alternative per i paesi del nostro continente.
Non sarà gradevole ammetterlo, ma l’essere umano combatte e fa la guerra. Sarebbe dunque necessario abituarsi all’idea che purtroppo il mondo non è un posto dei più tranquilli e che ogni tanto potrebbe anche essere necessario porsi di fronte alla possibilità di un intervento militare. Il miglior modo per prevenirlo resta sempre quello di farsi trovare pronti: se si vuole la pace bisogna anche saperla difendere. Guai a far sentire a Putin che ha la vittoria in tasca. Onore e buonsenso chiedono di continuare a difendere Kiev, anche se molti intorno a noi preferiscono intendersela con le dittature piuttosto che far loro la guerra.
In politica estera, come per la difesa, l’Europa deve rendersi conto che non sono più tempi per muoversi in ordine sparso. E’da quasi vent’anni che lo si andava ripetendo al nostro animato Tavolo di Politica Estera al fine di evitare il declassamento storico e sociale che stava investendo il continente. Lamentavamo anche che è da tempo purtroppo che a Bruxelles non si vedeva emergere una classe politica con sufficiente determinazione, coraggio ed immaginazione da essere in grado di dominare gli eventi, far comprendere all’opinione pubblica quella che è la realtà, né tantomeno preparare la popolazione a ciò che potrebbe accadere.
Oggi è proprio questa guerra che deve diventare l’occasione giusta per cambiare le carte in tavola e pensare alle cose che verranno: la speranza è che proprio dall’Europa possa esprimersi una lungimirante e tempestiva azione tale da portare ad una guarigione democratica della Russia, così come era avvenuto in passato e con successo con la Germania.
Di fronte ad una situazione che non è facilmente gestibile da nessuno l’Europa deve dunque fare un passo avanti e ricordare che alla base di ogni unione politica ci devono essere una politica estera e militare condivisa. Questo è tanto vero che già da oggi non si potrà più come in passato fare affidamento solo sugli Stati Uniti. Questi ultimi anni lo hanno confermato più di una volta e di ciò ebbi sentore da quando mi venne chiesto di mettere in piedi l’Ufficio Affari Esteri del Movimento Repubblicani Europei. A farmelo percepire sono stati gli anni passati in America.
Un ricordo americano: Intorno alla metà degli anni ‘90 ero stato invitato ad una gita in barca da alcuni importanti esponenti del mondo della finanza. Eravamo al largo dell’isola di Mount Desert nel Maine quando ebbi la sfrontatezza di dire che nel giro di una decina d’anni il loro Paese se la sarebbe dovuta vedere con la Cina e che era tempo di prestare maggiore attenzione al Pacifico. Non dico che mi risero in faccia ma poco ci mancò. Non c’era verso che la Cina potesse confrontarsi con loro: gli Stati Uniti erano i primi e non avrebbero avuto pari.
Per loro la fine della Guerra Fredda con la sconfitta dell’ideologia comunista e la dissoluzione dell’Unione Sovietica aveva posto fine alla percezione di una minaccia permanente e consacrato gli Stati Uniti a tutori dell’ordine mondiale. Senza più l’avversario russo a preoccuparli pensavano di avere il mondo ai loro piedi e si sarebbe da quel momento potuti tutti vivere in un mondo di pace nel quale avrebbero prevalso il progresso e “l’American way of life”.
Si era finalmente in una nuova epoca nella quale il loro paese poteva dedicarsi ad espandere affari ed investimenti, assicurandosi maggiore ricchezza e prosperità, unificando il mondo grazie al libero mercato ed alla conseguente diffusione della democrazia. Tutti ne avrebbero beneficiato ed era intanto inutile continuare ad investire risorse e mezzi per fare da poliziotti al mondo ed assicurare la pace agli europei.
Ebbi così modo di capire che a loro continuare a fare il cane da guardia all’Europa non andava più tanto bene e pensavano avrebbero potuto fare un uso migliore delle loro risorse: il cosiddetto “dividendo della pace”. Risposi che da quel punto di vista non potevo dar loro torto ma che la Storia non è incline a fermarsi, quanto piuttosto a riservare sorprese e, quando le riserva, in genere non sono buone. La Storia non è piatta e non ricorda certamente le infinite distese del loro Midwest, quanto piuttosto un luna park con le sue montagne russe: prima o poi sarebbe spuntato da qualche parte qualcuno che avrebbe avuto da ridire su questo nuovo ordine ed ecco che il mondo si sarebbe trovato ad affrontare nuove sfide. Confessai loro che non ero un seguace di Fukuyama e quindi ben poco convinto della sua teoria sulla “fine della Storia”.
E’ indubbio che la scomparsa della minaccia sovietica e la conseguente emersione degli Stati Uniti quale unica superpotenza avrebbero facilitato quel processo di globalizzazione che i miei ospiti andavano esaltando. Dissi loro che purtroppo non mi era possibile credere in un mondo unipolare che potesse durare a lungo: nello spazio di una generazione questo processo sarebbe stato inevitabilmente intaccato, soprattutto se avesse avuto esiti positivi.
Il mondo sarebbe gradualmente andato in direzione di un ordine multipolare nel quale attori costretti sinora a tenere il capo chino lo avrebbero rialzato reclamando un loro ruolo ed un diverso assetto internazionale. Quando ciò sarebbe avvenuto le sfide da affrontare sarebbero state tante che nessun Paese, per quanto grande, ricco e potente avrebbe mai potuto risolverle da solo.
Ai rivali di un tempo se ne sarebbero aggiunti di nuovi e avremmo visto ancora una volta il più forte schiacciare il più debole. A quel punto gli americani avrebbero avuto bisogno dell’Europa, come quest’ultima degli americani. L’Europa però avrebbe dovuto emanciparsi e cambiare profondamente, gli Stati Uniti rinunciare a quelle tentazioni isolazionistiche ricorrenti nel corso della loro storia: il quadro degli impegni internazionali sarebbe mutato profondamente ed entrambi sarebbero stati costretti a trarne le conseguenze ed agire di sorta.
Proseguendo nella conversazione e cercando di rispondere ad alcuni dei loro dubbi, dissi loro che avrebbero dovuto premere affinché si creasse un’Europa unita. Questa non poteva che restare la loro migliore alleata: non ne avrebbero potuto fare a meno, se non altro dal punto di vista psicologico. Per quanto gli Stati Uniti fossero larghi di spalle, non sarebbe stato facile trovarsi soli a reggere il peso di un ordine mondiale in cambiamento. Inevitabilmente, il ruolo e le responsabilità sarebbero stati così gravosi da trovare necessario il conforto e l’assistenza di un alleato.
Nel corso della conversazione e tenendo conto delle loro osservazioni piene di ottimismo, ebbi l’impressione che gli americani avrebbero presto imboccato una loro propria tangente che avrebbe potuto allontanarli da un’Europa considerata come meno importante e distrarli dal resto del mondo. Di fronte a questo cambiamento di vedute, destinato a non mutare nel breve, pensai fosse ineludibile che noi europei imparassimo a stare in piedi da soli.
Di conversazioni simili ne ebbi molte e con interlocutori provenienti da diversi ambienti. Tutto sembrava puntare ad una tendenza verso il disimpegno, qualcosa che annunciava in un certo senso l’idea dell’America First oggi espressa da Trump. Stavo anche iniziando a notare una tendenza che consideravo non solo negativa, ma forse anche pericolosa e di questo parlai varie volte quasi più che di questioni politiche. Stava crescendo in me la percezione che a Washington ci si stesse avvicinando troppo al mondo della grande finanza e mi domandavo se entro non molto si sarebbe potuto vedere il prevalere di una plutocrazia di affari sulle istanze della comunità, ridotta ad un gregge di consumatori sempre più povero di idee e di cultura.
L’Europa come unica scelta possibile: Tornando ai giorni nostri, il confronto con un mondo in rapido cambiamento, le recenti crisi e le incertezze riguardo il futuro degli impegni internazionali degli Stati Uniti ci hanno posto come mai prima di fronte alla necessità di fare dell’Europa un’entità sola: non sprechiamole se vorremo ancora contare qualcosa e conservare la nostra indipendenza. Come diceva Benedetto Croce, “un popolo che non sa fare politica estera è destinato a servire o perire” ed è pura illusione pensare di farla senza dotarsi di capacità militari comuni. In 27 purtroppo quest’indispensabile integrazione non è facilmente raggiungibile.
E’ impossibile pensare che ognuno di questi paesi sia in grado di affrontare il mondo da solo: non sarebbero che nani di fronte a potenze di dimensioni continentali e ad andargli contro è la stessa demografia. Se questa resta la marcia degli eventi, tra 40 anni la popolazione della sola Nigeria avrà superato quella dell’Europa intera.
Per molti anni il continente ha volto lo sguardo al suo interno affidando agli Stati Uniti i grandi problemi internazionali. Questo gli ha consentito di spendere meno in difesa e più per lo sviluppo interno. Questa fase si è oggi definitivamente chiusa quando ecco porsi la crisi ucraina ed il problema dei rapporti con la Russia di Putin.
Diventa così urgente dare un nuovo impeto all’Europa, fino ad oggi priva di una vera politica estera e militare, in quanto si è limitata a parlare di commercio, integrazione economica e potere di regolamentazione. Tutto ciò come se la questione non avesse anche aspetti strategici e questo era vero anche riguardo l’Ucraina che non può essere lasciata crollare: si aprirebbe ad est una situazione di allarme estremo.
Purtroppo non sarà compito facile darsi una comune politica estera e di difesa, ad oggi dominio riservato dei singoli Stati e quindi non facilmente superabili. Questo limite andrà oggi oltrepassato con la massima urgenza perché il mondo si muove ben più velocemente che in passato. Se si vogliono conservare la nostra indipendenza ed i nostri valori è tempo di agire, dare un futuro alle nostre industrie militari e consentire una difesa più efficace e meno onerosa, evitando doppi impieghi e sprechi assurdi: non esiste più oggi la capacità per un singolo Stato di operare in modo significativo in questi due settori cruciali.
Allo stato attuale, oltre a non essere credibili le nostre Forze armate sono un peso gravoso per le varie economie: non si può non pensare di fondere i bilanci della difesa e rendere omogenee le industrie militari. Se oggi in Europa la produzione militare è minima, è semplicemente perché minimi sono gli ordinativi. Se, come certo, non sarà possibile giungere ad una decisione unanime, che siano almeno i Paesi più importanti ad iniziare ad accordarsi tra loro in vista del raggiungimento di questo obbiettivo.
A spingerci in questa direzione devono essere pragmatismo e realtà: non è più possibile come in passato contare esclusivamente sull’ombrello nucleare americano. Gli Stati Uniti in questo mondo che cambia si stanno riposizionando e le loro priorità sono ora rivolte verso il Pacifico. Penso sia solo loro malgrado che si trovano attualmente a dover spendere un così grande impegno nell’affrontare gli eventi di Ucraina e Gaza, non più come una volta al centro dei loro interessi. In breve, di fronte al cambiamento epocale del quadro politico e strategico internazionale e alla grande sfida posta dalla crescente potenza cinese, Europa e Medio Oriente sono per loro meno rilevanti.
Non piacerà, ma vado oltre: in un mondo nucleare sarà prima o poi inevitabile affrontare il dibattito sull’atomica europea. E’ l’era nucleare che ha caratterizzato gli ultimi 80 anni e ciò significa che senza l’arma atomica poco si conta in politica estera. Non scordiamoci dunque della cosiddetta “clausola europea”, contenuta nel Trattato di non proliferazione. L’idea di una Nato affiancata da 27 entità disorganizzate non può più funzionare, quest’ultima deve diventare l’alleanza tra due grandi potenze: Stati Uniti ed Europa. Anche se americani ed europei resteranno alleati, gli interessi degli uni non saranno sempre gli stessi di quelli degli altri. Serve dunque un’Europa che vada oltre il mercato, la moneta comune ed i commerci internazionali.
E’ l’Unione capace in questo momento di difendere insieme all’Ucraina le sue frontiere orientali? Non può più giocare a fare lo struzzo: essa oggi non è in grado di affrontare un conflitto sul proprio suolo né tantomeno un intervento militare all’estero. Se vorrà conservare la sua autonomia deve mettersi nelle condizioni di svolgere un ruolo attivo nel contesto globale: ne va della sua rilevanza, della sua stessa sopravvivenza e sarà il solo modo di contribuire all’equilibrio internazionale e ad assetti di pace durevoli. Gli Stati Uniti d’Europa non devono essere uno slogan, ma un obbiettivo da raggiungere.
L’Europa ha regalato ottant’anni di pace ad un continente che non la conosceva e si era dilaniato in due conflitti mondiali. Ha anche contribuito a farci uscire dalla miseria e risolvere problemi spinosi quali il conflitto civile in Irlanda. A volte ha agito con lungimiranza in campi come quello scientifico e formativo ed attualmente detiene posizioni di punta nel settore della sostenibilità ambientale e nella riduzione dell’impatto climatico. Sapere dunque dove si vuole andare, avere obbiettivi ambiziosi ed agire con determinazione. Le sfide da affrontare già oggi sono immense e sinora l’Europa ha avuto un ruolo marginale: se non si decide a compiere quei passi necessari per unirsi non sarà protagonista di nulla né mai potrà realizzare il proprio destino.
Con l’affacciarsi di nuove forze che premono per nuovi equilibri, intorno a noi sta iniziando una transizione epocale che porterà ad un inevitabile cambiamento del quadro politico e strategico internazionale. Voglio per concludere ripetere quella lezione ereditata da mio padre e dal conte Sforza: quando si fa politica estera o si guarda lontano o non si fa nulla. O domani si vedrà grande o si sarà perduti. La Storia è un cimitero di popoli che non seppero guardare all’avvenire.