Nella narrazione che, del “premierato”, fa Giorgia Meloni, non poteva mancare – ed, infatti, non manca – il tratto classicamente populista rappresentato dall’ attacco frontale ai partiti.
La cosa in sé appare curiosa da parte della leader di una forza politica che si è, addirittura, preoccupata di blindare questo suo ruolo, anche ricorrendo alla provata fedeltà di parenti ed affini. Se ne dovrebbe dedurre che quelli che non vanno bene sono i partiti degli altri, ma non il suo. L’unico, a questo punto, che, a rigor di logica, si giustificherebbe in ragione di una funzione evidentemente “altra” – ma non viene precisato quale – rispetto al compito che comunemente viene riconosciuto a forze politiche organizzate attorno ad un fondamento culturale che accomuna chi vi aderisce.
Legittimate, anzitutto, dalla loro attitudine a dar corpo al pluralismo di culture, di visioni della vita e della storia che, fortunatamente, non possono più essere “soffocate” in un formale ossequio al pensiero unico del “carismatico” di turno.
Non so se la Meloni si rende conto che, fin quando i partiti vengono attaccati da un politico qualunque, la cosa ci può stare, ma quando vengono dileggiati – com’è successo in quella recente dichiarazione filmata che ha rilasciato avendo sullo sfondo la sequenza delle foto dei suoi omologhi Presidenti del Consiglio – appunto dal Capo del Governo, la cosa acquista tutt’altro aspetto. E finisce per apparire la versione – ovviamente secondo le modalità oggi storicamente possibili, cioè meramente a livello dialettico, ma non è poco – di quella loro formale giubilazione che l’ Italia ha conosciuto in altri tempi.
Nell’ ottica di una strategia di accentramento del potere nella singolarità personale del “capo”, la denigrazione dei partiti – o meglio del loro ruolo – non fa una grinza. Anzi, risponde ad una logica ferrea. Infatti, in un quadro istituzionale quale viene proposto dalla destra, tutto ciò che si interpone tra il cittadino e l’ “uomo solo al comando” non è altro che una pietra di inciampo. Interferisce con quell’ ideale afflato diretto tra chi detiene il potere e chi, ciascuno per conto suo, gli si raccorda, secondo una declinazione di tale relazione in cui il fattore emozionale prevale nettamente, fino ad oscurarlo, sul profilo critico, che, al contrario, è imprescindibile per quell’assunzione di responsabilità che, invece, nel nostro caso, viene negata. In altri termini, la cosiddetta “democrazia diretta” passa attraverso una atomizzazione della società tale per cui la dimensione popolare della comunità si dissolve in una moltitudine di monadi impermeabili l’ una all’ altra, capaci di condividere esclusivamente l’ omologazione supina al pensiero del leader. Senonché, quando ci si abbandona ad una sorta di transfert affettivo ed emozionale, la cosa si ingarbuglia ed i ruoli si sovrappongono e si confondono.
I grandi leader “populisti” del secolo scorso ne sono la plastica dimostrazione, a destra ed a sinistra. Basta considerare le piazze oceaniche, zeppe, si potrebbe dire, dei “follower” di quel tempo oppure le piazze mediatiche dei nostri giorni, per accorgersi della sostanziale fragilità di quel presunto “uomo forte” che, a sua volta, è letteralmente “plasmato” dai suoi seguaci, ben più di quanto non creda, secondo un gioco rimandi spesso inconsci, cosicché il leader carismatico, di fatto, diventa prigioniero e addirittura vittima di sé stesso, del monumento che innalza a sé stesso.
Il rapporto tra il capo ed i suoi singoli corrispondenti scivola in un limbo nebuloso e da qui progressivamente decolla dalla realtà fattuale di un certa condizione storica, si impenna in un mondo favolistico, talché la parabola approda, infine, ad un crollo verticale e drammatico.
I partiti, i sindacati, le forze sociali e culturali, le categorie economiche, le mille forme associative e di volontariato, in altri termini l’ intera articolazione di quei “corpi intermedi” che sono, a vario titolo, luoghi di elaborazione di un pensiero e di una prospettiva, sono da difendere a tutti i costi, se non vogliamo che, sia pure per una sorta di lenta osmosi, il principio d’autorità che si vorrebbe imporre al Paese, mini seriamente il fondamento della nostra libertà.
Domenico Galbiati