Premessa: A seguito dell’abbattimento di un elicottero russo sui cieli dell’Armenia da parte delle forze armate di Baku, all’inizio della seconda settimana di novembre è giunta inattesa la voce del presidente russo Putin.
Era mezzanotte, ora di Mosca, ed egli annunciava un accordo definitivo di cessate il fuoco tra armeni ed azeri in guerra da sei settimane a causa della provincia secessionista del Nagorno-Karabakh. I due campi erano in lotta per il controllo di questa regione nella quale vivevano 150.000 armeni, circa la metà dei quali costretti a spostarsi verso la madre patria a causa della violenza dei combattimenti.
Sotto l’egida della Russia, armeni ed azeri sono stati condotti a firmare un trattato che mette ufficialmente fine alle operazioni militari riguardanti la provincia secessionista del Nagorno-Karabakh. A precipitare l’accordo è stata la caduta di Chouchi, centro importante per entrambe le parti in conflitto: la sua conquista permette, infatti, di controllare tutta l’area del Nagorno-Karabakh.
Quella del Nagorno-Karabakh è un enclave armena posta in pieno territorio dell’Azerbaijan. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica questo territorio si è autoproclamato indipendente non ottenendo però il riconoscimento da parte di alcun Stato appartenente alla famiglia delle Nazioni Unite. L’origine del problema è da attribuirsi a Stalin che nel 1921, quando svolgeva il ruolo di Commissario russo delle Nazionalità, aveva inserito questa regione popolata in gran parte da armeni all’interno della Repubblica Socialista azera.
Che l’area del Caucaso, frazionata in popoli, lingue, etnie, culture, identità e religioni diverse tra loro sia un’area complicata, non giunge come una sorpresa per nessuno. Ai tempi dell’Unione Sovietica queste popolazioni vivevano tutte assieme, ma con la sua scomparsa il coperchio è saltato e ciò potrebbe aprire un interessante dibattito sui lasciti rimasti aperti ogni qualvolta un impero scompare o viene smembrato.
L’accordo: per via dell’impegno profuso dal presidente Putin in persona, quest’accordo non può che essere preso sul serio e mette certamente fine ad ogni azione militare e al mancato rispetto delle tre precedenti tregue stipulate e violate. Non a caso, poco tempo prima il presidente russo aveva parlato del Nagorno-Karabakh come di “una tragedia che deve concludersi il prima possibile”.
Per volere di quest’accordo siglato con la Russia è previsto il ritiro delle forze armate e della popolazione civile armene dalle aree circostanti al Nagorno-Karabakh, occupate nel luglio del 1993. Si tratta adesso di applicare quelle intese richieste all’epoca dalle Nazioni Unite che prevedevano il ritorno della popolazione azera dislocata dagli scontri e l’allontanamento degli armeni che vi si erano insediati.
Mosca invierà sul posto una forza d’interposizione di 2.000 uomini per assicurare che la tregua non venga violata. Dovrebbe rimanervi per la durata di 5 anni, garantire un esodo pacifico della popolazione armena, assicurare la tolleranza religiosa e tutelare i luoghi di culto, così come qualsiasi abitante.
L’annuncio della tregua è stato presto seguito da grandi manifestazioni di gioia in Azerbaijan per la vittoria ottenuta. La popolazione esultava ed in alcuni casi la si è vista ballare per strada. Gli sfollati del conflitto di 27 anni fa, spesso commossi, parlavano del ritorno nelle terre che erano stati costretti a lasciare come il più bel giorno della loro vita.
In Armenia invece è esplosa la collera: di fronte alla capitolazione la gente si è sentita ingannata dal governo. Ne sono seguite alcune giornate di manifestazioni nelle quali la folla accusava il primo ministro Pashinyan di aver venduto la causa della nazione e tradito il Paese. Nella giornata del 10 novembre i manifestanti si sono diretti in gran numero verso il palazzo del governo e la sede del Parlamento, prendendoli d’assalto e occupandoli poco dopo.
Di fronte a queste reazioni il premier armeno ammetteva a testa bassa di aver firmato un accordo senza dubbio molto doloroso per tutti, ma indispensabile e necessario per porre fine alla violenza della guerra. Di fronte a questa tragedia, non rimane che l’angoscia per il futuro di una popolazione travolta dal conflitto e per la difficile situazione politica in Armenia.
Ricordiamo che si è trattato di un cessate il fuoco e non di una pace definitiva: nulla è stato regolato e restano irrisolti tutti i problemi di fondo. Vediamo adesso chi sono i vinti e i vincitori.
I vinti: questo conflitto si è concluso in una vera tragedia per la popolazione armena del Nagorno-Karabakh ed in un’umiliante sconfitta per Erevan.
L’opinione pubblica non era stata preparata e molti giovani armeni, infiammati di entusiasmo patriottico e pieni di ottimismo, avevano deciso di recarsi volontari al fronte. Oggi molti di loro, tra i quali anche studenti di appena 18 anni, giacciono in letti di ospedale paralizzati, ustionati o gravemente mutilati. Di fronte all’orrore di certe ferite e al ritrovamento di proiettili sferici all’interno di numerosi corpi alcuni medici sospettano l’uso di armi improprie. All’inizio si diceva che le vittime sarebbero state più o meno 1.500. Oggi si parla di circa 2.400, ma in questi giorni circola la voce che di fatto i morti siano intorno ai 5.000. Non sono poche le famiglie che ancora aspettano notizie od il ritorno di figli, padri o fratelli.
Le forze indipendentiste armene sono state costrette a cedere perché continuavano a perdere terreno sotto la pressione delle armi nemiche e, fatto ancora più grave, correvano il rischio di perdere definitivamente Stepanakert, capoluogo della provincia secessionista del Nagorno-Karabakh e popolata al 95% da cristiani. Hanno così perduto il controllo di un territorio che per secoli è stato parte integrante della loro nazione. Oggi, questa repubblica autonoma non può che descriversi alla deriva e ormai sotto la protezione della Russia, che s’impone come garante della sua sicurezza, della cessazione delle ostilità e del rispetto dell’accordo.
Per l’Armenia si è trattato di una sconfitta non solo militare, ma anche strategica e politica. La regione del Nagorno-Karabakh era infatti considerata suo bastione storico ed oggi si vede militarmente amputata di qualcosa come il 30% del proprio territorio. Ha cessato di esistere come dai primi anni ‘90, quando aveva finito col darsi delle istituzioni proprie. Agli sfollati in fuga dalla regione non resta che chiedersi se potranno un giorno rivedere le loro case e tornare alla loro vita passata in una terra che ormai non è più loro e non sarà mai più ciò che è stata prima del conflitto.
Come detto, la sua sicurezza è ormai interamente nelle mani di Mosca. Sulle strade dell’enclave secessionista si continua ad assistere allo snodarsi di colonne di camion, di mezzi blindati e di carri armati russi diretti verso le aree d’assegnazione per sorvegliare il rispetto della tregua. In direzione opposta procedono lentamente file di automobili, furgoni, camion, in alcuni casi carrette e anche gente a piedi, carichi di ogni bene trasportabile diretti verso l’Armenia. Hanno tutti dovuto abbandonare case e proprietà in quelle aree che saranno gradualmente occupate dalle truppe dell’Azerbaijan.
Nelle campagne e nei villaggi si sono viste innalzare verso il cielo colonne di fumo: sono tutte case che gli armeni in fuga, dopo averle svuotate, hanno preferito incendiare piuttosto che lasciarle in mano agli occupanti azeri. In più di un caso si sono visti i proprietari abbattere alberi da frutta, uccidere il bestiame e devastare il più possibile ciò che si lasciavano appresso. Altre volte invece sono stati gli sfollati stessi a fermarsi di fronte a proprietà abbandonate per rimuoverne gli infissi, le mattonelle o altri pezzi trasportabili e di qualche utilità.
Carica d’inquietudine, questa massa di persone ha cercato di portarsi appresso ciò che era possibile raccogliere delle loro vite passate: mobilio, materassi, attrezzi di lavoro, vestiti e oggetti di casa. Addirittura si sono viste famiglie portarsi appresso persino i morti, disseppelliti in fretta pur di non vederli riposare, e forse dissacrati, in un suolo che cadrà presto in mano a quelle che loro considerano le soldataglie musulmane dell’Azerbaijan.
Quel pugno di abitanti che hanno scelto di rimanere si troveranno ad affrontare un avvenire incerto e non resta loro che augurarsi che la presenza militare russa possa garantire una qualche sicurezza.
Gli eventi, la confusione, il terrore dell’esodo cui si è potuto assistere nel distretto di Kalbajar, confinante con l’Armenia e perduto dagli azeri nel 1993, non sono che un’eloquente e tragica testimonianza del dramma in corso tra la popolazione armena. Ad oggi si pensa che i profughi in fuga dai territori intorno al Nagorno-Karabakh siano almeno 17.000, anche se in qualche raro caso si sono visti dei piccoli gruppi di sfollati tentare un timido rientro. Un’altra parte della popolazione resta in attesa di vedere se le vie di comunicazione rimarranno aperte e quale sarà il comportamento dei militari russi, determinante nel mantenere la pace tra le due comunità.
Scene di addio particolarmente strazianti si sono viste all’interno dell’antico monastero di Dadivank, per i cristiani d’Armenia luogo di grande rilevanza storica e culturale. In lacrime, molti dei fedeli sono venuti a dare il loro addio al santuario, illuminato dalla tremula luce di un gran numero di ceri e candele. Commossi e con voce spezzata dal dolore, si sono detti convinti che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero potuto vederlo, perché convinti che le truppe azere lo faranno saltare per aria nel futuro.
Questi timori sono estesi anche ad altri luoghi sacri e monumenti storici e non a caso l’Unesco ha deciso l’invio di una commissione. Va ricordato che l’Armenia nel 303 d.C. è stato il primo paese a far propria la religione cristiana, che il 95% degli armeni sono credenti e che la Chiesa ha avuto un ruolo importante nel venire in soccorso alla popolazione civile.
I vincitori: Da questo conflitto durato sei settimane ad uscirne decisamente rafforzata è stata la Repubblica dell’Azerbaijan. Anche se non è stata ancora affrontata la questione dello statuto del Nagorno-Karabakh, reclamato da Baku e riconosciuto come territorio azero dalla comunità internazionale, l’accordo ha consacrato comunque le vittorie territoriali ottenute dai militari azeri.
L’Azerbaijan ha conservato tutte le posizioni conquistate nei pressi di Chouchi, centro di grande importanza strategica a circa 10 km da Stepanakert, oltre alle sette province che circondano il Nagorno-Karabakh, inclusi i territori di Jabrayil, Zangilan, Agdam e Fizouli. In quest’ultima provincia, ora costellata di carcasse di mezzi militari distrutti, prima del 1993 vivevano circa 12.000 persone. In seguito all’occupazione armena, tutti i suoi abitanti furono evacuati e l’area trasformata in una zona cuscinetto tra l’Armenia ed il Nagorno-Karabakh.
Dopo aver detto che avrebbe cacciato gli armeni come dei cani e parlato di una vittoria storica, il presidente azero Ilham Aliyev si è congratulato per il successo e la capitolazione dell’Armenia nel Nagorno-Karabakh. Come indicato, malgrado la vittoria la definizione dello statuto politico ed amministrativo di questa provincia secessionista resta irrisolta e la sua sicurezza è saldamente nelle mani di Mosca.
La Russia: da questa partita ad uscirne vincitore è anche il presidente Putin. E’ da lui che ormai dipendono la sicurezza del Nagorno-Karabakh e il rispetto degli accordi. Per la Russia era urgente mettere fine alle ostilità, che avrebbero finito per sottrarre agli armeni l’intero territorio della repubblica secessionista del Nagorno-Karabakh. Dati i buoni rapporti con l’Armenia, questa era cosa che il Cremlino non poteva permettere: ne sarebbero andate scalfite sia la sua influenza, sia la capacità di manovra nella regione.
Mosca possiede in Armenia una base militare e quel paese è per lei importante, in quanto luogo sicuro per tenere d’occhio la regione e contenere il temuto espansionismo islamico. In passato, era stato sottoscritto un trattato di sicurezza collettiva e tra i due paesi esisteva anche un’associazione per la difesa comune. Erevan era inoltre cliente russo per l’acquisto di forniture militari, spesso di qualità migliori rispetto a quelle offerte a Baku.
Il comportamento russo potrà sorprendere, ma non deve stupire: è dettato dalla volontà di presenza nell’area del Caucaso. Benché vicina all’Armenia e non priva di rapporti con l’Azerbaijan, nel corso del conflitto la Russia si è astenuta dallo schierarsi apertamente con una delle parti. Gli accordi tra Erevan e Mosca – va ricordato – riguardavano la nazione armena e non includevano il Nagorno-Karabakh.
A seguito di questa disfatta che l’ha fortemente indebolita, l’Armenia, stretta tra una Turchia ostile e una Repubblica azera non meglio disposta, non avrà altra scelta che rafforzare i legami con Mosca, la quale ha la possibilità di tornare a svolgere un ruolo di rilievo in un’area che, prima del crollo del 1991, era parte integrante del territorio sovietico.
Aggiungerò che il presidente Putin non mostra simpatia per il premier Pashinyan, salito al potere da due anni e causa dell’indebolimento dei clan armeni vicini a Mosca. Altro suo difetto agli occhi di Putin è quello di volgere lo sguardo verso l’Occidente e mostrarsi troppo autonomo: atteggiamenti che al Cremlino non possono che dispiacere. La sua elezione si è svolta democraticamente e senza brogli e dal punto di vista ideologico il premier armeno non può considerarsi affine a Putin.
La situazione di crisi e di difficoltà nella quale è precipitata l’Armenia per via della sconfitta lo ha indubbiamente indebolito e potrebbe provocarne la caduta, cosa che al presidente russo certo non dispiacerebbe. Già si è dimesso il ministro degli Esteri ed è stato estromesso quello della Difesa: Pashinyan ha commesso l’errore di far leva su quel nazionalismo che i governi precedenti al suo non avevano fatto che alimentare.
La Turchia: era opinione diffusa tra gli armeni che a scatenare il conflitto sia stato il coinvolgimento della Turchia a sostegno dell’Azerbaijan. Malgrado i suoi atteggiamenti spesso provocatori, fatti soprattutto per una platea interna, il presidente Erdogan in questa occasione, però, non è andato alla ricerca di uno scontro con la Russia. Egli sa bene che idealmente Mosca non vorrebbe concedergli il minimo spazio nella regione: i russi considerano infatti il Caucaso quasi come un loro territorio per via dei tre secoli impiegati a conquistarlo.
E’ caratteristica di Erdogan scegliersi le situazioni di cui approfittare fin dove gli è possibile farlo. E’ però ovvio che con un personaggio come Putin più di tanto alcuni scherzi non possono essere portati avanti. Il presidente turco è maestro nel dipingere se stesso ed il suo paese come più forti di quel che sono in realtà. Abile e spregiudicato giocatore, egli agisce con maestria e spesso sul filo del rasoio al fine di mostrarsi agli occhi del mondo, e soprattutto dei suoi sostenitori, come un leader internazionale capace e degno di rispetto.
Allo stesso tempo egli non è alla ricerca di complicazioni e sa che se da un lato gli è utile giocare la parte del grande leader regionale, dall’altro non dispone dei mezzi necessari per proiettarsi con successo in tutte le aree ove decide di agire. Lo svolgersi degli eventi ha comunque fatto sì che dagli esiti di questa situazione egli possa dichiararsi soddisfatto.
La Turchia aveva più di una volta chiesto all’Armenia di interrompere il sostegno alla provincia secessionista del Nagorno-Karabakh, insistendo che vi potrà essere pace solo quando gli armeni si saranno ritirati dai territori da loro occupati 27 anni fa. Questo è ora avvenuto grazie anche all’appoggio, alle armi, ai consiglieri ed a oltre 200 miliziani islamici provenienti dalla Siria che Ankara ha fornito agli alleati azeri.
La Turchia è stata presente come alleato, ma non ha combattuto né in territorio armeno né in quello azero. Per Ankara, l’Azerbaijan ha tutti i motivi e le ragioni per considerare illegittima la secessione del Nagorno-Karabakh e dei distretti che lo circondano. A dimostrarlo, il distretto di Agdam battezzato “l’Hiroshima del Caucaso”. A 27 anni di distanza dall’ultimo conflitto la città è in totale rovina, preda della vegetazione e tutta l’area è rimasta incolta e cosparsa di campi minati. Abbandonata all’epoca dalla totalità dei suoi abitanti azeri, necessiterà di alcuni anni di intensi lavori e bonifiche di mine prima di poter essere nuovamente abitata. Lo spopolamento della provincia è stato completo.
Il presidente Erdogan non ha esitato a schierarsi dalla parte degli azeri e ad opporsi all’Armenia e ai secessionisti del Nagorno-Karabakh. Nella sua visione delle cose, missione della Turchia è quella di ergersi a faro del mondo musulmano e a porsi quale protettrice dei popoli turcofoni. Gli azeri devono perciò tornare in tutte le terre dalle quali erano stati costretti a fuggire.
L’esercito azero era ben equipaggiato per via delle ricchezze petrolifere che Baku ha a disposizione. Ha potuto importare armi soprattutto dalla Russia, dalla Turchia e da Israele, i cui droni micidiali hanno avuto un ruolo importante nella vittoria.
In questa regione Erdogan non ha perduto un colpo. All’inizio delle ostilità si è presentato al parlamento per richiedere l’invio di truppe nelle zone di conflitto. Per storia e cultura non poteva che schierarsi dalla parte azera. Come nel caso della Siria e della Libia, vi è in corso un interessante partita tra Russia e Turchia. Questo potrebbe far pensare che i turchi non saranno del tutto esclusi dagli accordi sul cessate il fuoco, rendendo possibile ad Ankara di riuscire ad ottenere un proprio, specifico ruolo.
Intanto, Erdogan è riuscito ad ottenere quella continuità territoriale con gli stati del Caucaso e dell’Asia Centrale contemplata dagli ideali pan-turchi da lui propugnati e desiderata da quei suoi sostenitori fautori di un acceso nazionalismo. A Nachichevan vedrà la luce un corridoio che allaccerà la Turchia all’Azerbaijan, creando un continuo che dal Mar Nero si estenderà fino al Caspio. Questo non credo che Putin l’abbia contemplato. Il ruolo assunto da Ankara fa pensare che gli sarà possibile chiedere l’invio di osservatori sul terreno, cosa anche questa poco gradita alla Russia.
La dinamica degli eventi ha mostrato che tra i due presidenti il rapporto non sia dei più facili. Altrettanto vero però che Putin ed Erdogan tra loro si parlano e che nessuno dei due ha interesse di vedere la situazione precipitare nel caos.
L’Iran, l’Europa ed il Gruppo di Minsk: tra Russia e Turchia, l’altro grande protagonista nella regione è l’Iran. Dati i trascorsi storici tra russi e armeni, turchi ed azeri e tutti questi fra loro, l’Iran, che al momento ha seri problemi economici, resi più acuti da una serie di gravi sanzioni e dai costi di una politica di presenza attiva in Medio Oriente, ha preferito mantenersi defilato. In passato, la parte settentrionale dell’Azerbaijan faceva parte dei territori persiani ed il suo Islam è sciita, ma più importante per Teheran è oggi il rapporto con Mosca, sua unica alleata di peso. In assenza di tensioni alla frontiera, l’Iran non ha motivo di intervenire e non lo farà.
L’Europa ha un’altra volta scontato la propria debolezza politica e la mancanza di unità. La sua voce non si è sentita tranne qualche dichiarazione di Parigi, l’ultima delle quali attraverso una richiesta del Senato francese di riconoscere la repubblica del Nagorno-Karabakh. Gli azeri, a stretto giro, hanno risposto di volere escludere la Francia dal processo di mediazione. Poco prima, il ministro degli Esteri Le Drian aveva chiesto di riunire il Gruppo di Minsk per affrontare le contraddizioni derivanti dal conflitto quali, per esempio, il ruolo della Turchia.
Va tenuto presente che la Francia ha sempre mostrato simpatia per Erevan, anche per la presenza di una grande comunità armena al suo interno. Ha infatti condannato più di una volta l’operato di Ankara nel conflitto. Il Caucaso non è però dietro l’angolo e con l’epidemia di Coronavirus ancora in agguato, il presidente Macron ha in questo momento altre priorità.
Non è da escludersi che possa riattivarsi il Gruppo di Minsk, che finora non si è distinto per iniziativa. Suo compito sarebbe quello di mettere ordine alle cose, affrontare le contraddizioni implicite nella situazione che si è andata creando intorno al conflitto per il Nagorno-Karabakh, decidere sullo statuto di questi territori, sui diritti e gli obblighi dei rispettivi Stati, sul destino delle popolazioni e dei monumenti di importanza storica e culturale.
Il nuovo anno: Con l’arrivo di quest’anno, nella giornata del 14 Gennaio, presente il presidente azero Ilham Aliyev, dopo ben 26 anni è tornata a sventolare la bandiera dell’Azerbaijan sulla città di Shushi. Successivamente il presidente si è recato in visita nel distretto di Fizouli per ispezionare, nell’ambito di un programma di ricostruzione dell’area, alcuni luoghi in cui dovrebbero sorgere una nuova autostrada ed un aeroporto. Lui e la sua famiglia stavano assaporando i privilegi dei vincitori.
Mentre in Azerbaijan il presidente gongolava per la vittoria, in Armenia la sconfitta militare ha portato ad una profonda crisi istituzionale e alla spaccatura del Paese. Le opposizioni hanno presto chiesto le dimissioni del primo ministro Pashinyan. Questi si è trovato sotto attacco per quella che gran parte degli armeni consideravano come un’eccessiva arrendevolezza di fronte al nemico azero. Gli sviluppi interni hanno portato ad un’erosione del consenso di cui godeva: si sono presto viste nascere una serie di manifestazioni di piazza che hanno coinvolto sia i suoi sostenitori che le forze dell’opposizione.
Nel corso di una di queste giornate, alcuni manifestanti sono riusciti a fare irruzione in un palazzo del governo gridando alle dimissioni del premier, avvisandolo che non vi era posto nel paese in cui potesse trovar rifugio. Dal canto loro, decine di alti ufficiali avevano firmato una lettera nella quale Pashinyan veniva accusato di portare l’Armenia sull’orlo del collasso.
Il 25 Febbraio Pashinyan denunciava un tentativo di colpo di Stato da parte delle Forze armate. Queste chiedevano le sue dimissioni per via del licenziamento del primo vice-Capo di Stato Maggiore Tigran Khachatryan per una polemica sul funzionamento dei missili di fabbricazione russa Iskander in dotazione all’esercito. Il premier aveva poi ordinato la rimozione del Capo di Stato Maggiore Onik Gasparyan.
Alla notizia, il presidente Armen Sarkisian aveva subito respinto questa richiesta. Successivamente il Consiglio di Sicurezza gli aveva chiesto invece di accettare il licenziamento. Mostrando la sua volontà di lottare contro le forze che lo minacciano, Pashinyan ha invitato i militari a rispettare la Costituzione ed astenersi dall’interferire nelle questioni politiche.
Di fronte a questa situazione, Mosca non ha tardato ad esprimere le sue preoccupazioni. Per tradizione infatti, in Russia l’esercito si tiene distante dalla politica, consuetudine che è stata mantenuta anche negli Stati ex-sovietici. Critiche sono giunte anche da Ankara per via delle reminiscenze del tentato golpe avvenuto nel luglio del 2016.
Malgrado una popolazione frustrata ed il Coronavirus che colpisce pesantemente, il premier Pashinyan, nella speranza di rafforzarsi, ha indetto nuove elezioni parlamentari per il 20 di giugno. Per renderle possibili, il 24 marzo ha revocato la legge marziale che era stata proclamata il 27 settembre 2020. Il 28 marzo ha poi annunciato che in vista di queste elezioni avrebbe presentato le sue dimissioni entro il mese di aprile . Sarebbe per lui il miglior modo di uscire da questa crisi politica. Ha inoltre proposto un referendum per il prossimo ottobre allo scopo di redigere una nuova Costituzione.
Conclusioni: Questo conflitto, che ha visto tornare nuovamente in mano azera i territori che non facevano originariamente parte del Nagorno-Karabakh e l’Armenia costretta a cedere l’intera regione meridionale della repubblica secessionista, non poteva dirsi imprevedibile.
Il cessate il fuoco raggiunto nel 1994 aveva concesso agli armeni una serie di distretti abitati da genti azere e confinanti con il Nagorno-Karabakh. Era rimasto irrisolto il nodo dello statuto del Nagorno-Karabakh, la cui indipendenza nessuno riconosceva. Per far fronte a questi problemi, in attesa di una soluzione definitiva, due anni prima era stato creato il Gruppo di Minsk, presieduto da Stati Uniti, Russia e Francia. Presenti ovviamente Armenia ed Azerbaijan. A farne parte, anche rappresentanti di Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia.
Da quel giorno in poi, i leader delle due nazioni in conflitto hanno in più di un’occasione lanciato degli appelli ai loro popoli. Si trattava per loro di rafforzarsi sul fronte interno facendo leva sui rispettivi nazionalismi, alimentando le tensioni ed infiammando gli animi. Una soluzione esclusivamente militare in questo caso era possibile. Quello che però non era possibile è che Mosca consentisse agli azeri una piena e completa vittoria, seguita da una rotta totale dell’Armenia.
Nata 29 anni fa come Stato indipendente, per tutto questo periodo l’Armenia era stata in gran parte governata da persone originarie del Nagorno-Karabakh, che hanno avuto un ruolo preminente nell’orientare il punto di vista e gli atteggiamenti della popolazione. Nel 1994 l’Armenia vinse la sua guerra, ma senza un trattato di pace. Tutto era dunque rimasto sospeso in attesa di riesplodere. E’ accaduto adesso ma i problemi di fondo restano tutt’ora irrisolti.
Per ora a cambiare è stata solo la geografia e la distribuzione della popolazione: alcuni torneranno in quei territori precedentemente parte dell’Azerbaijan, mentre altri li lasceranno per cercare sicurezza e rifugio in terra armena.
Con questo cessate il fuoco è ora giunto il momento di affrontare il problema e trovarne la soluzione. Questo significa cercare la legittimità e non la rappresaglia, l’equilibrio e non le riparazioni: saper tendere la mano ricordando che non si può fondare uno Stato sull’oppressione di un altro.
La Storia insegna che le migliori soluzioni diplomatiche sono quelle che si reggono da sole, senza il puntello della forza. Stanno su per conto loro perché basate sul consenso delle parti: per essere durevole, un accordo deve ripartire equamente tra gli avversari i motivi di scontento e di insoddisfazione. E’ difficile attendersi una pace duratura da una situazione che mortifica ed umilia il vicino.
Merita di essere ricordata in questo senso la frase che pronunciò il ministro degli Esteri Visconti Venosta al delegato tedesco Tattenbach nel corso della Conferenza di Algeciras nel 1906: “L’idea che Ella si fa dei negoziati diplomatici è che si salta alla gola dell’avversario, lo si butta per terra, lo si calpesta e poi gli si dice: mettiamoci d’accordo. Un metodo simile, se si generalizza da voi, vi porterà alla disgrazia”.
Un accordo durevole significa dunque ripartire equamente fra i contendenti i motivi di insoddisfazione e creare poi le basi per una regione pacificata ed un migliore tenore di vita per tutti. In un mondo imperfetto è importante fare avanzare la giustizia e credere più nelle idee che negli apparati. Alla fine va ricordato che in politica estera gli errori e i delitti conducono sempre a nuovi errori e nuovi delitti.
Per armeni ed azeri, le possibilità sono molteplici. Riguardo al Nagorno-Karabakh, in attesa di una soluzione, si potrebbe pensare ad un consorzio internazionale con amministrazione mista. Se dovesse rimanere parte dell’Azerbaijan, gli andrebbe concessa un’ampia autonomia che ne possa garantire il rispetto della lingua, delle istituzioni, della cultura e delle tradizioni: in poche parole, l’anima armena. Per il resto si potrebbe pensare ad uno scambio di popolazioni od a una permuta di territori.
Edoardo Almagià
Nota: Tra le contraddizioni da affrontare in questo conflitto vi è certamente quello del ruolo della Turchia. Parigi, l’Europa e l’Occidente già hanno dei problemi con Ankara riguardo la Siria, gli eventi in Libia e una disputa sull’estensione delle acque territoriali nell’oriente Mediterraneo a seguito di scoperte di importanti giacimenti sottomarini di gas. Da non scordare anche la questione cipriota.
Quello dei rapporti con la Turchia è un dossier che va affrontato, dato che ci tocca tutti da vicino. Se non parte dell’Unione Europea, la Turchia lo è però della Nato. Dopo quelle americane, le sue forze armate rappresentano l’esercito più importante dell’Alleanza Atlantica. Questo rende necessario gestire la Turchia e trovare modo di ricucire le lacerazioni e meglio integrarla all’interno di quelli che sono gli interessi dell’Occidente, determinandone la volontà di collaborare, soprattutto con l’Europa.
Questo discorso andrebbe indirizzato anche al disegno di un nuovo ruolo per la Nato. E’ necessario adeguarla ai tempi, rendendola un’alleanza non solo militare, ma anche politica per aprirla a prestare attenzione alle nuove sfide e allargare lo sguardo all’Asia e al Pacifico. Non può più esser vista solo come baluardo contro la Russia: ha bisogno che gli venga dato un più ampio respiro e di allargarsi a nuovi campi quali l’intelligenza artificiale, la sicurezza cibernetica e lo spazio.
Questa crisi, insieme ai fatti di Siria, Libia e ciò che si è visto nelle acque orientali del Mediterraneo, dovrebbe portarci a spendere due parole sull’Europa, che anche in questa occasione si è rivelata del tutto assente. A dire qualcosa è stata soprattutto la Francia, ma non basta. Sarebbe finalmente il caso di capire che non si può dare all’Europa una dimensione unicamente economica: affinché funzioni ed abbia capacità di convincere bisognerà darle una dimensione politica e militare.