Nei racconti, sempre un po’ romanzati, di quegli episodi di una malavita un po’ artigianale e disperata che si riscontravano nelle nostre città, a cavallo tra Ottocento e primi decenni del secolo scorso, l’ espressione “O la borsa o la vita” rappresentava, nell’immaginario popolare, l’ ingiunzione con cui un malandrino affamato e male in arnese affrontava, in qualche vicolo avvolto nel buio, il malcapitato di turno. In effetti, negli anni ‘30 ci fecero pure un film.
Anche Putin è un malandrino che, puntandoci una lama alle giugulari, pone pure a noi la ferale alternativa. In effetti, l’invasione dell’Ucraina determina una tale variazione nel quadro complessivo delle relazioni internazionali, da doverci chiedere se intendiamo privilegiare la vita – cioè la nostra autonomia, la dignità della nostra piena sovranità – a scapito della “borsa”, cioè delle condizioni di vita complessivamente rassicuranti e serene, se non agiate, di cui godiamo o se, al contrario, preferiamo tenerci la borsa, pagando qualche prezzo alla vita.
Tanto per cominciare, se si potesse scherzare, potremmo dire che siamo, letteralmente … alla canna del gas… Ma non si tratta solo della dipendenza energetica di cui soffriamo. Gli investimenti in campo militare, i sistemi di difesa e la sicurezza, la competizione in campo tecnologico, l’approvvigionamento di particolari materie prime, politiche di aiuto e di solidarietà internazionale nei confronti dei Paesi del sottosviluppo che non possiamo regalare alla concorrenza: sono molti i campi verso cui dovremo dirottare risorse altrimenti destinate a quella più allegra stagione di consumi cui ci siamo adattati. Insomma, oltre la pandemia, c’è un motivo in più che consiglia o meglio ci impone una vita più morigerata e parca.
E’ quella “sobrietà” – vedi, del resto, il tema della difesa dell’ambiente – di cui spesso parliamo, soprattutto per ritardarne l’esercizio e, nel contempo, non soffrire di un complesso di colpa. Insomma, la cosa già gravissima così- soprattutto per i sacrifici umani di cui si comincia ad avere notizia dall’una e dall’altra parte – non si risolve in Ucraina. E’ in atto un “confronto” di sistema, si potrebbe dire, tra le autocrazie “asiatiche” – in senso concettuale, ancor più che territoriale, essendo l’Asia storicamente incline all’instaurazione di regimi dispotici piuttosto che non ad ordinamenti democratici – e le democrazie occidentali. In un contesto di risorgenti imperialismi che, in qualche modo, allineano l’Ucraina di oggi, all’Ungheria del ‘56 ed a Praga ‘68.
In ultima analisi siamo messi alle strette e cambia la vita. Davvero si entra in una nuova storia, non intesa come tema di analisi e di studio degli esperti del ramo, bensì’ come “cifra” che incombe sulla nostra vita quotidiana e ne rimodella i confini. Può darsi che questa sia un’analisi sopra le righe, eppure è bene tenerla sullo sfondo, augurandoci che sia sbagliata. E’ un po’ come nella clinica, quando si deve fare diagnosi di una malattia di cui si capisce solo che è grave, ma per il resto sfuggente. Bisogna partire dall’ ipotesi peggiore, escluderla e poi scendendo giù per ha li rami, avvicinarsi, per successive approssimazioni, al punto. Anzi, procedendo così, ogni qual volta si scende uno scalino, si ha un certo conforto e la malattia appare meno brutta e più gestibile. In ogni caso, perfino nell’epoca della “guerra fredda” conclamata, si cercava la “distensione”, cioè, pur nel conflitto, una qualche dimensione di dialogo e di una certa reciproca affidabilità. E’ su questa falsariga e non su un mero calcolo di potenza, che Kennedy e Krusciov risolsero la crisi di Cuba. Trattando, ma anche, alla fin fine, fidandosi l’uno dell’altro.
Oggi, in un tal senso, nessuna distensione è più possibile e chissà per quanto. Vale piuttosto un sentimento di diffidenza e di sospetto che rende precario ed incerto anche quel margine risicato di rapporto diplomatico che pur non dev’essere mai spento del tutto.
E l’Europa? L’invasione dell’ Ucraina è, a tutti gli effetti, un attacco frontale all’Europa, anzi alla stessa idea che un’Europa, come la intendiamo noi, abbia diritto di esistere o non debba essere ridotta, come Putin ha detto della stessa Ucraina, ad una mera “espressione geografica”. Non è difficile immaginare che Putin, già che c’è, faccia conto di esercitare sull’Europa una pressione tale da provocare, nel suo edificio, almeno crepe e fessure, da cui ricavare, nel tempo, eventuali fratture vere e proprie. L’Europa da’ fastidio, è un ingombro da rimuovere, se non altro perché
rammenta e richiama quei valori di civiltà e di libertà che sono, per il fatto in sé di esistere, un monito.
Ora, l’Europa ha, se ne sarà capace, l’occasione per essere finalmente all’altezza della sua storia. Si apre un discorso ampio ed impegnativo che concerne anche il rapporto con gli Stati Uniti e su cui sarà necessario tornare.
Domenico Galbiati