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Oltre il salario minimo: la crescita degli investimenti, delle competenze e della produttività- di Natale Forlani

La Direttiva europea sul salario minimo dei lavoratori sta per essere approvata definitivamente. Le rappresentanze degli Stati aderenti all’Unione hanno infatti raggiunto un’intesa che si propone l’obiettivo di ridurre la quota dei lavoratori sottopagati, intendendo per tali quelli con le retribuzioni inferiori al 60% del salario mediano della nazione presa a riferimento. Un obiettivo da ottenere tramite l’adozione di specifici provvedimenti legislativi o con il concorso diretto della contrattazione collettiva promossa dalle parti sociali. 

I provvedimenti attuativi, e la scelta di procedere per via legislativa, contrattuale o tramite una combinazione tra queste tipologie di intervento, rimane nelle prerogative dei singoli stati aderenti. In tal senso, la direttiva si limita a fornire la cornice di riferimento per la valutazione del fenomeno – l’entità dei lavoratori da tutelare stimata con il criterio evidenziato in precedenza e l’efficacia della contrattazione collettiva ritenuta tale se superiore almeno all’80% della tutela effettiva generata sul complesso dei lavoratori dipendenti; l’obbligo di monitorare periodicamente i risultati ottenuti -, riservando alla Commissione europea la potestà di valutare l’efficacia degli interventi promossi dai singoli Stati e di suggerire le azioni correttive.

Sul valore della Direttiva europea in questione, e sulle implicazioni nel contesto italiano, sono sorti molti equivoci. Per la gran parte frutto delle pulsioni ideologiche che caratterizzano il dibattito italiano sulla materia. Come ricordato, la direttiva si propone di favorire il raggiungimento degli obiettivi, senza obbligare gli Stati ad adottare l’introduzione di un salario minimo con una legge. Non lo potrebbe fare in via di principio, non essendo materia di competenza delle istituzioni europee, e nemmeno in via di fatto, data l’estrema eterogeneità dei contesti economici e giuridici in atto nei singoli Paesi che renderebbe difficile offrire un’interpretazione condivisa della definizione di salario minimo. Come vedremo di seguito, questo aspetto assume un particolare valore nel contesto italiano.

Fatte queste premesse, entriamo nel dibattito italiano sulla materia. Caratterizzato da molte polemiche e dalla convinzione prevalente che l’introduzione del salario minimo legale possa ottenere il doppio risultato di alzare i salari percepiti per una buona parte dei lavoratori e ridurre la quota dei cosiddetti lavoratori poveri (quella dei lavoratori che hanno un salario inferiore al 60% di quello mediano e appartengono ai nuclei familiari con un reddito sotto la soglia di povertà).

Come precisato in precedenza, la direttiva europea non impone affatto l’adozione di un salario minimo definito per via legislativa. Nel caso italiano la Commissione europea stima l’applicazione dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori più rappresentative vicina al 90% dei lavoratori dipendenti. Un valore comunque superiore a quell’80% preso a riferimento per valutare l’efficacia della tutela contrattuale dei salari minimi.

Questa valutazione viene contestata dai sostenitori del salario minimo legale in relazione ad altri dati. In particolare alla quota dei salari che risulterebbe di fatto al di sotto della soglia di povertà, che riguarderebbe circa un quarto dei lavoratori dipendenti. Queste stime, sono riferite ai salari effettivamente percepiti che risentono dell’intensità (numero di ore ufficialmente lavorate) e della durata dei contratti. Risentono pure della quota delle retribuzioni sommerse, che in Italia sommano l’equivalente di 3,4 milioni di lavoratori a tempo pieno. Il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico azzarda il numero di due milioni di lavoratori con retribuzioni inferiori ai 6 euro l’ora (i numeri cambiano in ogni intervista rilasciata dall’interessato). 

Il valore del salario orario, in termini di costi effettivi sostenuti dalle imprese, deve tener conto delle prestazioni indirette (ferie, mensilità aggiuntive, trattamento di fine rapporto, assicurazioni contrattuali per malattia, maternità e permessi retribuiti) e dei contributi sociali obbligatori. Solo la parte del salario indiretto vale oltre 20% della retribuzione oraria ufficiale. Quella relativa ai contributi sociali obbligatori (pensioni, infortuni, casse integrazioni e indennità di disoccupazione) vale circa il 38% del salario diretto.

La domanda sorge spontanea: cosa intendiamo per salario minimo legale? Oltre ai fattori di costo già evidenziati, la risposta deve tenere in debito conto la specificità del modello di tutela italiano. In Italia non esiste il salario minimo legale. ma è giuridicamente consolidata la tutela del giusto salario (adeguato alla prestazione professionale rivolta a soddisfare i bisogni essenziali della persona e del nucleo familiare) come previsto dall’art 36 della Costituzione. L’attuazione del dispositivo costituzionale trova conforto in numerosi pronunciamenti della Consulta, e nei conseguenti orientamenti della magistratura, che identificano i contenuti del giusto salario con la piena attuazione dei contratti collettivi nazionali di settore o affini, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro più rappresentative. Il combinato disposto degli orientamenti giuridici e del ruolo svolto dalle organizzazioni di rappresentanza del mondo del lavoro offre la spiegazione del 90% del grado di tutela offerto dalla contrattazione collettiva. Ma anche l’impatto effettivo del tutto inconsistente dei cosiddetti contratti pirata (quelli sottoscritti dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori improvvisate per lo scopo di sottoremunerare i lavoratori) che vengono presi a pretesto per mettere in rilievo la scarsa efficacia della contrattazione collettiva. Tanto numerosi, circa 500 su un totale di 956 secondo il Cnel, quanto privi di attuazione pratica. Anziché pirata meriterebbero di essere definiti come contratti fantasma. 

L’introduzione di un salario orario minimo legale, nonostante venga negato dai proponenti, finirebbe per scardinare l’obbligo di attuare i contratti collettivi, legittimando quelli che si vincolano alla mera previsione dei salari minimi previsti dalla legge e alle prestazioni obbligatorie analogamente previste. Dalla padella alla brace, con il sigillo di una legge destinata a smantellare un tessuto consolidato di tutele promosso dalla contrattazione collettiva.

Della proposta avanzata dal ministro del Lavoro Orlando, quella di far coincidere il salario minimo legale con il valore del salario orario che tenga conto delle prestazioni indirette previste dai contratti collettivi nazionali, non si comprende l’utilità dato che, nella sostanza, la proposta equivale nel migliore dei casi a quanto già avviene nella realtà. Senza considerare l’inutile complessità dei calcoli che si renderebbero necessari per attribuire di volta in volta un valore economico al complesso degli istituti previsti nel contratto collettivo nazionale.

Ma se andiamo alla sostanza degli argomenti e delle proposte dei sostenitori dell’intervento legislativo sulla materia, l’obiettivo non sembra affatto quello di stabilire un salario minimo legale (l’ipotesi fatta circolare dal M5S dei 9 euro l’ora), ma di imporre un rialzo dei salari a prescindere dalle condizioni di sostenibilità da parte dei settori e delle imprese. Un’esplicita contestazione della capacità delle parti sociali di fare il loro mestiere.

Nei giorni recenti ha trovato un ampio risalto una tabella diffusa dall’Ocse sull’andamento dei salari in rapporto al potere reale d’acquisto nei Paesi sviluppati a partire dal 1990, che mette in evidenza l’arretramento italiano (-2,9%) rispetto alle tendenze decisamente positive registrate nella media dei Paesi dell’Ue-15, superiori al +30%.Con l’unica eccezione della Spagna che registra comunque un significativo +6,9%.

In un pregevole articolo pubblicato da  Giuseppe Sabella (CLICCA QUI) ha offerto una spiegazione approfondita del fenomeno negativo nazionale dovuto ai ritardi strutturali accumulati in materia di investimenti scarsi, produttività stagnante e mancata crescita della dimensione delle imprese. Ritardi che si manifestano soprattutto nei settori dei servizi che rappresentano i tre quarti degli occupati italiani. 

In economia ci sono due cose che non sono mai state smentite: l’andamento del reddito di una popolazione dipende dal livello della crescita dell’economia e quello dei salari dall’incremento della produttività. 

Se si vogliono aumentare i salari devono crescere gli investimenti, le competenze delle risorse umane e la produttività complessiva dei fattori. In assenza delle quali gli aumenti dei costi possono generare nuova inflazione od offrire nuovi spazi per ampliare le prestazioni sommerse che, in Italia, sono la vera fonte del dumping contrattuale in molti settori importanti dell’economia, a partire dai servizi.

L’attuazione della direttiva europea può fornire la condizione per migliorare l’impianto delle tutele in modo dinamico su tre versanti: le politiche rivolte a incrementare la produttività e i salari, gli interventi finalizzati a ridurre il cuneo fiscale per contribuire ad aumentare i salari netti, quelli rivolti a rafforzare la rappresentatività delle parti sociali che sottoscrivono i contratti collettivi. Se necessario, anche con accordi confederali, rivolti a ridurre il numero dei contratti nazionali, a promuovere la contrattazione collettiva aziendale e territoriale, a riconsiderare i valori parametrali minimi delle retribuzioni anche per rivalutare il ruolo e l’attrattività del lavoro manuale esecutivo. Con il legislatore si potrebbe individuare un percorso per ridurre il cuneo fiscale sui salari legati agli aumenti della produttività. Ma questi interventi richiedono un lavoro meticoloso e costante che non ha niente a che fare con la scorciatoia del salario minimo legale per cercare di forzare in modo improprio, e non previsto dalla direttiva, la crescita dei salari medi nazionali.

Fino a prova contraria la retribuzione del reddito continua ad essere condizionata dalla crescita dell’economia. E l’incremento dei salari condizionato da quello della produttività dei fattori.

In assenza di tutto ciò aumentano i prezzi, per le aziende che se lo possono permettere, e il lavoro sommerso. Generando nuovi squilibri distributivi all’interno del mondo del lavoro a danno dei lavoratori più deboli.

Nei tempi recenti queste poche certezze sembrano venir meno per l’introduzione di due variabili che vengono sbandierate in ogni occasione: la possibilità di distribuire ricchezza stampando moneta, mettendo i relativi debiti in saccoccia a qualcun altro, e di tentare di aumentare i salari e i posti di lavoro con l’approvazione di appositi provvedimenti di legge.

In modo tale da far sembrare degli autentici imbecilli tutti coloro che sono impegnati a far quadrare i conti e a sbarcare il lunario svolgendo mansioni disagiate, ancorché indispensabili per la collettività.

Natale Forlani

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