La guerra in Ucraina e quanto sta accadendo tra israeliani e palestinesi, in particolare a Gaza, sono tra gli argomenti affrontati da Papa Francesco nell’intervista rilasciata, all’inizio di febbraio, a Lorenzo Buccella, giornalista della Radio Televisione Svizzera (RSI) per il magazine culturale “Cliché” in una puntata dedicata al bianco, il colore del bene, della luce, ma sul quale gli errori e la sporcizia risaltano maggiormente. L’intervista, anticipata oggi da alcune agenzie, verrà trasmessa dalla Tv elvetica il prossimo 20 marzo. Pubblichiamo di seguito il testo integrale secondo la trascrizione della Radio Televisione Svizzera (con alcune modifiche).
Come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina?
«Dobbiamo andare avanti. Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. I responsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa».
Però non bisogna perdere la speranza di provare a mediare?
«Guardiamo la storia, le guerre che noi abbiamo vissuto, tutte finiscono con l’accordo».
In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?
«È un’interpretazione. Ma credo che è più forte quello che vede la situazione, pensa al popolo e ha il coraggio della bandiera bianca e negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. Ci sono. Quella parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando tu vedi che sei sconfitto, che la cosa non va, avere il coraggio di negoziare. E ti vergogni, ma se tu continui così, quanti morti (ci saranno) poi? E finirà peggio ancora. Negoziare in tempo, cercare qualche Paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio con la guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, per esempio … Non avere vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggio».
Anche lei stesso si è proposto per negoziare?
«Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il Paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto…».
È il bianco del coraggio?
«Va bene, è il bianco del coraggio. Ma delle volte l’ira che ti porta al coraggio non è bianca…».
Torniamo al 2020, alla preghiera in piazza San Pietro durante la pandemia. Lei era una macchia bianca in mezzo alle tenebre.
«In quel momento si vedeva la macchia bianca, perché era notte, tutto era oscuro. È stata una cosa spontanea, fatta senza accorgermi che avrebbe avuto un grande significato, una cosa spontanea, sia la solitudine sia la preghiera».
In quel momento lei era concentrato su quello che voleva fare. Capiva anche, però, che il messaggio stava entrando in tutte le case, a tutte le persone che erano costrette a rimanere in casa?
«Non me ne sono accorto in quel momento. Ho pregato davanti alla Salus Populi Romani e davanti al crocifisso in legno che hanno portato da via del Corso. Pensavo a ciò che dovevo fare, ma non mi sono accorto della trascendenza che ha avuto quel momento. Anche io ero provato. Avevo quella sofferenza e avevo il dovere del mediatore, del prete, di pregare per il popolo che soffre. Ho pensato a un passaggio biblico, quando Davide pecca nel fare il censimento di Israele e di Giuda e il Signore distrugge 70 mila uomini con una pestilenza. Alla fine, quando l’angelo della peste sta per colpire Gerusalemme, il Signore si commuove e ferma l’angelo perché ha pietà del suo popolo. Sì, io con questa peste pensavo e pregavo: “Signore, commuoviti e abbi pietà del popolo che soffre questa peste”. Questa è la mia esperienza in quel giorno».
Sentiva la solitudine di quella piazza che era anche una solitudine fisica?
«Sì, perché pioveva e non era facile».
Il bianco è il simbolo della purezza, dell’innocenza. L’abito bianco per eccellenza è il suo. Da dove nasce questa tradizione? E perché il Papa è vestito di bianco?
«È stato un Papa domenicano. Aveva l’abito domenicano, che è bianco. E da lì tutti i Papi hanno usato il bianco. È nata lì. Se non sbaglio era Pio V, che è sepolto in Santa Maria Maggiore. Da lì nasce la tradizione che i Papi vestono di bianco».
Qual è il valore principale che ha il bianco per la Chiesa?
«La Chiesa usa i paramenti bianchi, per esempio, nelle domeniche di Pasqua, di Natale. Il bianco ha un significato anche di gioia, di pace, di cose belle. Per esempio, nella Messa dei defunti si usano i paramenti viola. È un significato di gioia e di pace, si usa nel tempo di Natale, nel tempo di Pasqua».
Per lei cosa ha significato indossare l’abito bianco quel 13 marzo del 2013, il giorno dell’elezione al soglio di Pietro?
«Non ci ho pensato, soltanto penso alle macchie, perché questo è terribile: il bianco attira le macchie».
L’aveva già detto: più il vestito è bianco più le macchie diventano visibili…
«È vero, è così».
Ma vale anche a livello simbolico, oltre alle macchie fisiche?
«Sì, tante volte le macchie si vedono bene. Per esempio: una persona che è in un posto di servizio. Pensa a un prete, a un vescovo, a un Papa. Le macchie lì si vedono meglio perché quell’uomo è un testimone di cose belle, di cose grandi. E sembra che non debba avere macchie. Il bianco ci apre anche a questa sfida del non avere macchie».
Ma si possono non avere macchie? Lei ha sempre detto che è un peccatore…
«Sì, siamo tutti peccatori. Se qualcuno dice che non lo è, sbaglia: tutti. È vero, un peccato sporca, sporca l’anima. E per simbologia possiamo dire che sporca anche il bianco. Quando penso al bianco penso ai bambini, al Battesimo: tutti sono vestiti di bianco. Penso alla mia Prima Comunione, ho la fotografia della mia, in bianco. Il bianco ha un significato di purezza, di cose belle. Penso anche ai bambini, alle donne che si sposano. Il bianco è un colore forte, non è debole».
Sono tutti riti di passaggio: il bianco aiuta anche in questi passaggi?
«C’è un tango argentino che rimprovera una donna che si sposa di bianco dopo aver vissuto una vita non buona. Il tango dice: “Quale scandalo, signora, vestirsi di bianco dopo che ha peccato”. Cos’è la saggezza popolare… Il bianco significa un’anima pura, un’anima con buone intenzioni: pensa al Battesimo, alla Prima Comunione. Sono simbologie che dicono tanto».
Quando è diventato Papa è cambiata la sua relazione col bianco?
«No, è la stessa. Ma non te ne accorgi: ti vesti di bianco, ma non te ne accorgi. Me ne accorgo quando vedo le macchie… È una cosa naturale».
È pesante la responsabilità che deve portare?
«Questo sì, ma non dobbiamo drammatizzare. Tutti abbiamo delle responsabilità nella vita. E il Papa ha una responsabilità più grande: un capo di Stato più grande, un prete, una suora sono responsabili di testimonianza. Per me, per esempio, è più la responsabilità della testimonianza che quella delle decisioni. Perché con le decisioni mi aiutano in tanti qui dentro, preparano, studiano, e mi danno qualche soluzione. Invece, nella vita quotidiana, non hai tanto aiuto. Le decisioni sono anche pesanti».
E lì è quasi più difficile per lei?
«Per me è più facile qui per tutto l’aiuto che ho. Se penso alla responsabilità è pesante. Ma il Papa ha tanti aiuti, tanta gente che l’aiuta».
Il Papa ha tanta gente che l’aiuta. Ma siccome è da solo, vestito in questo modo, come punto di riferimento può soffrire anche di solitudine. Può sentirsi solo in questa veste bianca?
«Ci sono momenti di grande solitudine quando devi prendere una decisione, per esempio. Ma questo non è solo del Papa. Nella vita clericale, anche i vescovi sentono questo, o i preti … Anche un padre di famiglia, tante volte: pensa a quando deve prendere decisioni sui figli. O quando un matrimonio non va: prendere la decisione di allontanarsi. Sono decisioni che pesano tanto. Tutti noi, come persone, abbiamo situazioni di solitudine davanti a delle decisioni da prendere. Anche sposarsi. Quando uno è solo, dice: questo è per tutta la vita. Sono decisioni che pesano e si può dire che queste decisioni portano nella solitudine. E la solitudine è bianca. Non è neanche buia né nera, ma è bianca. C’è una solitudine brutta che è quella dell’egoismo. Quello di tante persone che guardano solo a loro stesse. Non è una solitudine bianca, quella, ma brutta».
Ci sono le macchie individuali e poi ci sono le macchie collettive, le grandi macchie che sporcano come le guerre. E cosa si può fare?
«È un peccato collettivo questo. Mi diceva l’economo, un mese fa – mi dava il rendiconto di come stavano le cose in Vaticano, sempre in deficit – mi diceva: lei sa dove oggi gli investimenti danno più reddito? La fabbrica delle armi. Tu guadagni per uccidere. Più reddito: la fabbrica delle armi. Terribile la guerra. E non esiste una guerra bianca. La guerra è rossa o nera. Io questo lo dico sempre: quando sono stato nel 2014 al Redipuglia ho pianto. Poi lo stesso mi è successo ad Anzio, poi tutti i 2 novembre vado a celebrare in un cimitero. L’ultima volta sono andato al cimitero britannico e guardavo l’età dei ragazzi. Terribile. Questo l’ho detto già, ma lo ripeto: quando c’è stata la commemorazione dello sbarco in Normandia, tutti i capi di governo hanno celebrato quella data ma nessuno ha detto che su quella spiaggia sono rimasti ben 20 mila ragazzi».
L’uomo ha la percezione netta di quello che le guerre comportano ma ci ricasca sempre. Penso anche a lei, con i suoi appelli… Come mai non si riesce a far passare il messaggio di quante vittime comporta la guerra?
«Due immagini. Una che a me sempre tocca e la dico: l’immagine della mamma quando riceve quella lettera: “Signora, abbiamo l’onore di dirle che lei ha un figlio eroe e questa è la medaglia”. A me importa del figlio, non della medaglia. Le hanno tolto il figlio e le danno una medaglia. Si sentono prese in giro… E poi un’altra immagine. Ero in Slovacchia. Dovevo andare da una città a un’altra in elicottero. Ma c’era maltempo e non si poteva. Ho fatto il tragitto in macchina. Sono passato per diversi paesini. La gente sentiva per la radio che il Papa passava e veniva per strada per vedermi. C’erano bambini, bambine, coppie giovani, e poi nonne. Mancavano i nonni: la guerra. È il risultato della guerra. Non ci sono nonni».
Non c’è fotografia più forte di questa per far capire l’eredità che lascia la guerra.
«La guerra è una pazzia, è una pazzia».
La colomba è il simbolo della pace, è il segnale che la guerra è finita. Ma poi c’è il dopoguerra, che comunque è un altro momento in cui si devono ricucire tutte queste ferite…
«C’è un’immagine che a me viene sempre. In occasione di una commemorazione dovevo parlare della pace e liberare due colombe. La prima volta che l’ho fatto, subito un corvo presente in piazza San Pietro si è alzato, ha preso la colomba e l’ha portata via. È duro. E questo è un po’ quello che succede con la guerra. Tanta gente innocente non può crescere, tanti bambini non hanno futuro. Qui vengono spesso i bambini ucraini a salutarmi, vengono dalla guerra. Nessuno di loro sorride, non sanno sorridere. È un bambino che non sa sorridere sembra che non abbia futuro. Pensiamo a queste cose, per favore. La guerra sempre è una sconfitta, una sconfitta umana, non geografica».
Come le rispondono i potenti della terra quando chiede loro la pace?
«C’è chi dice, è vero ma dobbiamo difenderci… E poi ti accorgi che hanno la fabbrica degli aerei per bombardare gli altri. Difenderci no, distruggere. Come finisce una guerra? Con morti, distruzioni, bambini senza genitori. Sempre c’è qualche situazione geografica o storica che provoca una guerra… Può essere una guerra che sembra giusta per motivi pratici. Ma dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi».
La guerra è sempre associata all’oscurità, alle tenebre.
«Una guerra è tenebrosa, sempre, oscura. Il potere dell’oscuro. Quando si parla di bianco si parla di innocenza, di bontà e di tante cose belle. Ma quando si parla dell’oscuro, si parla del potere delle tenebre, di cose che non capiamo, di cose ingiuste. La Bibbia parla di questo. Le tenebre hanno un potere forte di distruggere. È un modo letterario di dirlo, ma quando una persona uccide – pensiamo a Caino, ad esempio – è una persona tenebrosa. Quando una persona si occupa soltanto del proprio beneficio, ad esempio con gli operai, questa persona uccide moralmente altra gente. O penso a un padre di famiglia che non riesce a vedere i suoi figli addormentarsi la sera perché arriva tardi e di mattina esce presto per avere uno stipendio… Questa persona è tenebrosa, è nera».
Ma tutti noi rischiamo di avere un po’ di tenebre dentro di noi…
«Siamo peccatori, e un po’ di tenebra l’abbiamo».
Anche un Papa.
«Anche un Papa. Tutti abbiamo un po’ la saggezza di conoscere cosa succede. E tante volte noi non capiamo cosa succede».
Può essere anche un lungo percorso.
«Tutta una vita, ma quando tu cerchi tutta una vita di sistemare bene, di correggere le cose, arriverai a una cosa molto bella che è la vecchiaia felice. Penso a quei vecchi, quelle vecchiette con gli occhi trasparenti, sono stati giusti, hanno lottato… Pensiamo un po’ alla vecchiaia. Possiamo dire la vecchiaia bianca, quella vecchiaia bella, trasparente».
Ma lei crede di viverle queste sensazioni adesso, per esempio la trasparenza, in questo momento?
«Cerco di non essere bugiardo, di non lavarmi le mani sui problemi altrui. Cerco, sono peccatore, e alle volte non riesco a fare così. Poi quando non riesco vado a confessarmi».
Quale rapporto ha un Papa con l’errore?
«È forte, perché quanto più una persona ha potere (tanto più) corre il pericolo di non capire le scivolate che fa. È importante avere un rapporto autocritico con i propri errori, con le proprie scivolate. Quando una persona si sente sicura di sé stesso perché ha potere, perché sa muoversi nel mondo del lavoro, delle finanze, ha la tentazione di dimenticarsi che un giorno starà mendicando, mendicando giovinezza, mendicando salute, mendicando vita… È un po’ la tentazione dell’onnipotenza. E questa onnipotenza non è bianca. Tutti dobbiamo essere maturi nei nostri rapporti con gli errori che facciamo, perché tutti siamo peccatori».
Abbiamo parlato spesso di come una cosa o l’altra dipende dallo spirito con cui la si fa. Il bianco solitamente si accompagna a delle cose belle, ma c’è anche il rischio di un bianco di facciata, della vernice che usiamo per nascondere l’ipocrisia. Ci può essere questo rischio?
«C’è la persona verniciata, diciamo così, che sa nascondere le proprie debolezze e si presenta in modo artificiale. Quindi abbiamo questo problema di fare finta di … E questa si chiama ipocrisia, le persone ipocrite… tutti abbiamo un pochettino di ipocrisia».
Anche la società stessa può essere ipocrita, ad esempio facendo le guerre e poi mandando aiuti umanitari…
«Interventi umanitari? Sì alle volte sono umanitari, ma sono per coprire anche un senso di colpa. E non è facile».
Il bianco è anche un colore neutrale. Quando ci sono contrasti tra ideologie diverse, anche tra persone diverse, è un valore la neutralità per lei?
«Tanto. Alla base della nostra vita possiamo parlare della pagina in bianco. Non si dice la pagina nera, la pagina verde, la bandiera gialla… Quando si parla di una pagina da scrivere è una carta bianca. E ognuno deve scrivere lì le proprie decisioni, sul bianco che è la vita. La vita è una carta in bianco e sarà bella se tu riesci a scrivere su quella carta una cosa bella, ma se tu scrivi cose brutte non sarà bella quella pagina».