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Partiti senza identità – di Giuseppe Ladetto

Mentre le sinistre progressiste incontrano un periodo difficile, è il momento dei conservatori, scrivono alcuni commentatori politici. A conferma di questa affermazione, citano il recente successo di Fratelli d’Italia nel nostro Paese e le affermazioni in Europa (Svezia, Polonia, Finlandia, Paesi baltici) di partiti riconducibili a una sia pur generica etichetta di conservatorismo.

Inoltre, a Bruxelles, sembra procedere il tentativo di portare il gruppo sovranista (Identità e democrazia) ad allearsi stabilmente, se non ancora a fondersi, con l’ECR (partito dei conservatori e riformisti europei), il raggruppamento presieduto da Giorgia Meloni. Ne scaturirebbe una formazione unitaria di destra in grado di condizionare gli equilibri del Parlamento comunitario stabilendo una solida alleanza con il PPE, orfano di Angela Merkel. Di qui, si aprirebbero vasti spazi per una politica di conservazione.

Verrebbe in tal modo a crearsi un nuovo spartiacque nella collocazione delle forze politiche, dove il conservatorismo andrebbe ad occupare quasi completamente lo spazio di una destra la cui espansione ha trovato limiti non superabili nella sua stessa natura di forza estranea al sistema.

Malgrado queste favorevoli prospettive per il conservatorismo, continuo a pormi l’interrogativo sul significato e sulla sostanza politica del termine, tema che già avevo affrontato alcuni anni fa (Conservatori e progressisti in un mondo che cambia).

La contraddizione fondamentale presente nell’idea di conservatorismo consiste nell’impossibilità di far convivere la difesa dei valori tradizionali con il liberismo nella sfera economica, e in particolare con l’esaltazione del capitalismo considerato il motore di uno sviluppo che migliora la qualità della vita. Perché c’è questa incompatibilità?

Nel linguaggio comune, conservatore è chi è legato alle tradizioni, alla cultura ereditata dalle passate generazioni, è fedele ai modi di vita trasmessi nell’ambito familiare, mentre tende a mantenere le abitudini maturate nel corso della vita. I valori tradizionali possono essere compendiati nel trinomio Dio, Patria e Famiglia, una formula che, se pur ci riconduce a un passato lontano, resta ancora oggi l’espressione più completa, nella sua brevità, di una classica mentalità conservatrice.

Ora, rispetto a tali riferimenti, il capitalismo si rivela devastante. Infatti, è il principale agente di quella accelerata trasformazione del mondo che non solo mette fuori gioco le strutture economiche non in grado di tenerne il passo, ma è altresì l’affossatore di ogni tradizione, di ogni cultura e di tutti i legami di appartenenza: riguardino questi la Nazione, o la Famiglia (con la maiuscola riguardando quell’istituzione considera un tempo la cellula della società), mentre viene messo in disparte ogni interesse religioso e perfino spirituale per il connesso affermarsi di un individualismo orientato al consumo materiale e teso alla ricerca del semplice piacere. Allora è inevitabile chiedersi che cosa mai i conservatori vogliano o possano conservare.

Sul piano storico, il conservatorismo ci rimanda all’opposizione a quel percorso inaugurato dall’Illuminismo volto ad emancipare persone e popoli dai pregiudizi dettati dalla metafisica, dalle tradizioni, dall’ignoranza. Qui il termine “conservatore” si sovrappone o confonde con quello di “legittimista” (se teso a conservare l’Ancien Régime) o di “reazionario” (se rifiuta totalmente le istanze liberali). Come, a partire da queste basi, i conservatori sono giunti all’attuale totale adesione alle logiche dello sviluppo capitalistico e sono diventati sostenitori del liberalismo?

Nel corso del XIX secolo, in tutti i Paesi europei, i conservatori si contrapponevano ai liberali, ma, man mano che le idee di questi ultimi si affermavano nel ceto borghese e aristocratico, e soprattutto da quando forze più aperte alle istanze popolari e poi i socialisti hanno avuto crescente spazio politico contestando i fondamenti della società borghese, i conservatori hanno intrapreso a fare alleanze con i liberali con i quali, essendo stati questi ultimi scavalcati da correnti più radicali, nasceva il comune obiettivo di difendere gli interessi dei ceti abbienti (alta borghesia e quanto restava degli aristocratici) minacciati dall’avanzamento di forze rappresentative delle classi popolari.

È stata questa esigenza a fare spazio al liberalismo nel bagaglio teorico e pratico del conservatorismo. A dimostrazione di ciò, possiamo considerare quanto è avvenuto negli anni seguenti alla Prima guerra mondiale. A fronte della minaccia rappresentata del bolscevismo e di una possibile rivoluzione socialista, i ceti che si riconoscevano nel conservatorismo hanno messo da parte le idee liberali e sono passati armi e bagagli a sostenere i fascismi dove questi si sono impadroniti del potere, o hanno manifestato simpatia per loro nei paesi dove sopravvivevano le istituzioni parlamentari.

I conservatori (a parte quelli britannici e più in generale anglosassoni) con la sconfitta del fascismo, con cui, nell’Europa continentale, avevano fatto un tratto di strada o avevano flirtato, si sono trovati in difficoltà, messi ai margini della società politica che conta, e ritenuti compromessi con una “destra” bollata come fascista o reazionaria.

A rimetterli in circolazione, c’è stata la Guerra fredda con il pericolo comunista a cui occorreva fare diga arruolando tutti i disponibili senza andare per il sottile. Successivamente hanno beneficiato dell’affermazione sul piano internazionale di personaggi che hanno fatto una bandiera dei valori conservatori, come Ronald Reagan in America e di Margareth Thatcher nel Regno Unito.

Ora, ritorno al quesito: che cosa i conservatori vogliono conservare? Ci dice Giorgia Meloni che il richiamo al conservatorismo riunisce tutti coloro che si battono in difesa della nazione e della famiglia come tradizionalmente intesa, e pertanto contro le idee racchiuse nelle formule del “politicamente corretto”, della “teoria gender”, della “cancel culture”. Non tiene però conto che tali idee ormai fanno stabile parte del bagaglio culturale della “nuova classe” espressa dal capitalismo finanziario che comprende in larga misura gli esponenti del mondo politico, mediatico ed intellettuale dell’intero Occidente. A tali idee, devono adattarsi coloro che da tale mondo vogliono essere accettati e riconosciuti come componenti responsabili. Quindi la domanda resta senza una credibile risposta.

I conservatori si posizionano certamente a destra, dove, oltre a loro, si collocano forze assai diverse: sovranisti, populisti vari, tradizionalisti, formazioni illiberali accanto ad iperliberisti, piccoli partiti bollati a sinistra come neofascisti. Sono tutte forze genericamente definibili antisistema dalle quali i conservatori devono prendere le distanze per essere accettati dall’establishment.

Oggi, in questo arcipelago genericamente definito di destra, le forze più consistenti (populisti e sovranisti) paiono in declino per ragioni varie: hanno deluso quando e dove hanno avuto ruoli di governo; non hanno saputo utilizzare con profitto i successi elettorali; soprattutto, in un periodo di gravi difficoltà (il Covid, la guerra, l’inflazione), i cittadini si sono allontanati da loro per avvicinarsi, in cerca di protezione, alle istituzioni e a chi esercita il potere.

Potranno i conservatori (classificati fra le forze responsabili) approfittare della situazione per appropriarsi del voto di quanti, riconducibili alla destra, hanno fino ad oggi sostenuto elettoralmente le forze antisistema?

Non credo. Si dimentica che all’interno delle molte destre, o ritenute tali, c’è una destra sociale allergica al liberismo; ci sono sovranisti e populisti antiglobal pronti a farsi carico dell’ampia e crescente componente dei vinti della globalizzazione e quindi indisponibili a seguire politiche economiche piegate alle richieste della finanza internazionale.

I populisti e i sovranisti da tempo si sono fatti interpreti di tale strato di popolazione (comprendente il terzo degli esclusi e i molti precari) perorando maggiore equità sociale, e nel contempo sviluppando una radicale critica della classe dirigente e di un ceto politico ritenuto corrotto. Inoltre, in particolare i sovranisti, si ergono a difesa di “valori” ancora radicati nei ceti popolari (fedeltà alle radici culturali, rigetto delle novità e dei nuovi diritti, ripulsa del cosmopolitismo, ecc.), tematiche proprie del conservatorismo delle origini, e oggi nella sostanza accantonate dai quei conservatori in cerca di una stabile sistemazione in una casa rispettabile, aperta al pensiero dominante.

Un passaggio equivalente a quello fatto dalla destra verso il neoconservatorismo, ritenuto più presentabile, era già da tempo avvenuto nell’altro fronte dove il progressismo ha preso il posto della sinistra. I progressisti hanno fatto proprio il modello “liberal” (nato oltre Atlantico, e già affermato presso le élite ai vertici delle società occidentali) riconoscendosi nella condivisione delle idee liberiste e libertarie (le due facce di una stessa medaglia), nella globalizzazione, nel cosmopolitismo, nell’ideologia del politicamente corretto, dando vita a partiti radicali di massa. Così, (come ha scritto Zygmunt Bauman) operatori politici e araldi culturali della imperante “modernità liquida” hanno messo da parte pressoché del tutto la ricerca di una maggiore eguaglianza e la costruzione di una società più giusta a favore dei “diritti” (diffuse aspirazioni individuali che si vogliono vedere garantite per legge) con l’incessante invito a registrare vecchie e inappagate istanze e ad articolarne di nuove cercando di conquistarne il riconoscimento. Nella realtà, le conseguenze dell’appello ai “diritti” e delle domande di riconoscimento sono l’apertura di sempre nuovi fronti di guerra e una crescente spaccatura della società, di cui si va perdendo il connotato di organismo collettivo.

Ora, a destra e a sinistra, i partiti che si riconoscono nel sistema politico-economico esistente potranno forse continuare a contendersi i voti dei 2/3 della società (comprendenti coloro che hanno almeno parzialmente goduto dei benefici della globalizzazione), ma certo non del terzo degli esclusi: questi, se delusi degli attuali populisti e sovranisti, torneranno nel mare magnum del non voto.

Nel partito maggioritario, quello dei non votanti, oltre ai delusi degli attuali populisti e sovranisti, c’è una ampia fetta di persone (lontane dal populismo e dal sovranismo) insoddisfatte dei partiti a cui in passato avevano dato sostegno, partiti che oggi, nella sostanza, non sono più riconoscibili e addirittura sembrano scomparsi.

È tuttavia illusorio immaginare un ritorno in scena di tali partiti, perché la loro eclissi non è dovuta (come molti pensano) all’affermazione di quel populismo oggi forse in declino: infatti il populismo è un sintomo, non la causa della malattia di cui soffre la politica. Di questa malattia, bisogna cercare altrove le molteplici cause, in larga misura riconducibili alle trasformazioni del mondo avvenute sul finire del secolo scorso con la piena affermazione della “modernità liquida” e con la globalizzazione.

Il responsabile più evidente è quel processo incontrollabile che ne è derivato, per il quale i destini dei Paesi, delle imprese e delle persone appaiono scanditi da un percorso forzato, non governabile. In questa nuova situazione, i “partiti di sistema” non mettono in discussione l’ambiente economico e sociale che ne è scaturito, ritenendolo immodificabile. I loro interventi e progetti rimangono confinati entro le logiche imposte dal mercato globale. Pertanto, richiedono alle persone di adattarsi alle novità e alle condizioni in cui sono costrette a vivere; al massimo forniscono loro dei pannicelli caldi per lenire le sofferenze che ne derivano.

Per ridare vita alla politica, bisogna cambiare strada: occorre misurarsi col cambiamento, progettando una diversa organizzazione della società perché quella attuale non è più sostenibile sul piano ambientale e nemmeno su quello sociale e relazionale.

Quindi, per i partiti e i vari movimenti, o quanto ne resta, a destra, a sinistra e al centro, è venuto il tempo di confrontarsi con la realtà e di rimettersi in gioco. Solo ponendo la politica in condizione di riprendere il suo spazio sottraendolo alle logiche economicistiche, le cose si muoveranno e verrà fuori anche una classe politica con leader capaci ed autorevoli.

Giuseppe Ladetto

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