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Perché i BRICS ci riguardano – di Giuseppe Davicino

Dal 22 al 24 ottobre scorso a Kazan, in Russia, si è svolto il 16° Vertice del Coordinamento BRICS. Il gruppo fu costituito nel 2006 da Brasile, Russia, India e Cina, (BRIC) e con l’adesione del Sudafrica nel 2011 assunse l’attuale denominazione di BRICS. Casualmente il termine ha la stessa pronuncia di “bricks” che in inglese significa “mattoni” e ciò esprime bene l’orientamento di questi Stati, associatisi per costruire il futuro comune, non per essere contro qualcuno. A partire dal 1° gennaio 2024 si sono aggiunti come membri a pieno titolo altri quattro stati: Egitto, Iran, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia. L’Arabia Saudita conserva lo status di Paese invitato ad aderire full-fledged, a pieno titolo, opzione che potrà esercitare col tempo. Infine, ed è una delle novità principali del Vertice di Kazan, è stata creata la categoria dei Paesi Partner BRICS che per ora comprende i seguenti tredici Stati: Algeria, Turchia (che è anche nella NATO), Bielorussia, Bolivia, Cuba, Nigeria, Uganda, Kazakistan, Uzbekistan, Indonesia, Malesia, Thailandia, Vietnam. In tutto la galassia BRICS comprende attualmente 23 Stati che insieme hanno una popolazione superiore ai cinque miliardi, un PIL all’incirca equivalente a quello del G7 ma con trend in crescita, e che dispongono di una gran parte delle risorse energetiche, delle materie prime e delle terre rare necessarie all’economia globale. Inoltre, una ventina di altri Stati ha già espresso la volontà di avanzare domanda di adesione ai BRICS in futuro.

Cosa dobbiamo aspettarci da questa iniziativa internazionale che ormai ha raggiunto una dimensione tale da non poter essere più ignorata? La nostra percezione dei BRICS deve comprendere non solo le preoccupazioni che possono destare ma anche le opportunità che possono creare. Intanto, come è stato ribadito, per l’ennesima volta, nel documento finale, la Dichiarazione di Kazan, i BRICS non sono un’associazione “anti” occidentale ma solamente “non” occidentale, che si propone di contribuire alla costruzione di “un ordine internazionale più rappresentativo e più equo, un sistema multilaterale rivitalizzato e riformato, uno sviluppo sostenibile e una crescita inclusiva”.

La Dichiarazione di Kazan ha riaffermato in modo chiaro e inequivocabile “il ruolo centrale delle Nazioni Unite nel sistema internazionale”. E per renderlo più efficace e aderente alle istanze del mondo attuale, che non è più quello di 80 anni fa, i BRICS lavorano per una riforma della governance globale, che includa il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le istituzioni finanziarie globali, sottolineando anche “l’urgente necessità di raggiungere una rappresentanza geografica equa e inclusiva nella composizione del personale del Segretariato delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali in modo tempestivo”, al fine di consentire una partecipazione maggiore, più significativa e più equa dei Paesi del Sud del Mondo nei processi e nelle strutture decisionali globali. In questa prospettiva si inserisce anche la richiesta dei BRICS, ribadita a Kazan, della riforma delle istituzioni di Bretton Woods (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), rivedendo i criteri che determinano la rappresentanza degli Stati, ormai non più rispondenti alla realtà che si è creata in questo secolo.

Non ci sono pericolose fughe in avanti, nessuna manIa di de-dollarizzazione, ma neanche immobilismo nel graduale procedere a un maggiore utilizzo delle valute nazionali a partire dalle transazioni fra paesi membri BRICS, che hanno preferito puntare su una maggiore loro integrazione anziché su un nuovo allargamento. Piuttosto, ciò che emerge nelle richieste dei BRICS, è l’invito a gestire il normale cambiamento delle cose.

Perché se è vero che quello a cui stiamo assistendo costituisce un cambiamento d’epoca, la fine di un’egemonia occidentale sul mondo che durava da cinque secoli, è altrettanto vero che ciò che sta ora succedendo a livello mondiale non è privo di analogie con i cambiamenti in Europa a cavallo tra Otto e Novecento. Come allora si assistette alla piena entrata in società di masse popolari da sempre ai margini, così adesso si assiste su scala globale all’ingresso nella vita economica, sociale, politica globale di popoli che sono usciti o stanno uscendo da una secolare condizione di sottosviluppo, e lo hanno fatto in un tempo rapidissimo. Si tratta di un normale processo di integrazione che va gestito con i mezzi della politica, della diplomazia, del diritto, superando i conflitti in corso e evitando di pianificarne di nuovi. Un cambiamento nel quale l’Occidente scoprirà di non essere più solo alla guida del mondo, ma di poterlo continuare a fare condividendo le responsabilità globali con altri partner espressione di sistemi, culture, storie diverse.

Le prossime elezioni americane potrebbero contribuire a rimuovere quelle ragioni di disaccordo che ancora si frappongono al dialogo per la creazione di un nuovo multilateralismo nel quadro ONU. A prescindere dal loro esito però è l’Unione Europea che deve dare segnali di esistenza come attore globale, nella direzione indicata da Mario Draghi, nei confronti di un cambiamento che altrimenti procederà comunque, anche senza l’Europa. Cominciando proprio magari a intrattenere anche relazioni UE-BRICS accanto a quelle con i singoli Stati, nella logica win-win, di reciproco vantaggio, che sinora ha accompagnato il percorso dei BRICS, mettendo fine addirittura ad annosi contrasti fra Paesi membri, come quelli fra Arabia Saudita e Iran, o quelli fra Cina e India che proprio nella capitale del Tatarstan, che sorge sulla sponda sinistra del Volga, hanno annunciato di aver trovato un accordo definitivo sul confine himalayano conteso fra questi due giganti asiatici.

Giuseppe Davicino

Pubblicato su www.associazionepopolari.it

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