Si ritorna ciclicamente a dibattere di riforme costituzionali, sia quelle attinenti la forma di governo – parlamentare o
presidenziale?
Quale rapporto tra gli organi di rappresentanza e quelli di direzione politica? Quanta e quale indipendenza e autonomia della magistratura? – sia con riguardo alla forma di Stato: autonomie, federalismo, regioni, con le implicazioni collegate alla cosiddetta autonomia differenziata.
È noto che l’inizio dei discorsi di revisione della Costituzione, nella sua Parte seconda, quella attinente all’organizzazione della Repubblica, risale agli anni Ottanta, con la Commissione bicamerale presieduta dall’on. Bozzi. Poi negli anni Novanta abbiamo avuto le Commissioni presiedute da De Mita, Iotti e infine D’Alema. Per ultimi hanno tentato questa strada, non facile, sia Berlusconi sia Renzi. Ebbene, tutti i tentativi sono falliti lungo
il percorso, ovvero sono stati bocciati nei referendum popolari confermativi. Unica eccezione positiva è stata la proposta di revisione in senso più autonomista e regionalista, ai limiti del federalismo, che il centrosinistra approvò, ma con maggioranza assai risicata, nel 2001 e che venne confermata dal referendum popolare.
Tanti insuccessi hanno una loro spiegazione generale nell’idea della “coalizione contro”, nel senso che tutti gli
elettori che sono contrari alla maggioranza che in quel momento governa è al suo esponente principale – ieri Berlusconi e Renzi e, forse, domani Meloni – si coagulano sul fronte del no, quasi prescindendo dai contenuti. Ecco perché l’attuale presidente del Consiglio dei ministri, pur avendo dichiarato che la sua proposta di premierato è la
«madre di tutte le riforme» si è subito affrettata a precisare che, in caso di insuccesso, lei non si dimetterebbe… Sul
punto si vedrà, perché le conseguenze di una sconfitta dopo tanto impegno non sarebbero facili da smaltire.
C’è dunque in campo la proposta di modificare in modo largo e profondo l’attuale forma di governo, nonostante
che gli articoli da modificare non siano tanti, tanti, ma tutti significativi. Si progetta il transito da una forma di governo parlamentare – a dominanza dei partiti politici, i quali coalizzandosi esprimono una maggioranza a fronte
della quale il presidente della Repubblica sceglie e nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, e in caso di crisi
è il dominus della situazione politica che ne scaturisce, potendo rinviare il Governo alle Camere o sciogliere il
Parlamento – a una forma di governo di nuovo conio, perché diventerebbe invece a dominanza del Premier, che si trascinerebbe dietro la “sua maggioranza” la quale resterebbe a lui/lei legata per tutta la legislatura: nel bene e nel male.
Per ottenere la legittimazione a far ciò e stringere a sé i parlamentari in un progetto politico pensato per cinque anni, il Capo della maggioranza ha bisogno di un’elezione popolare diretta. Tuttavia, questa ipotesi è non solo una novità assoluta per l’Italia, ma addirittura per il mondo intero, salvo il caso di Israele che la sperimentò per un paio d’anni, ma la abbandonò perché risultava impraticabile, portando più difficoltà che benefici.
Ovviamente, il discorso è diverso per le repubbliche presidenziali o semi presidenziali, quindi per gli Stati Uniti d’America o per la Francia, ma per questi ordinamenti le differenze di sistema sono tali da non consentire paragoni utili.
Non è adesso indispensabile scendere nei dettagli ordinamentali del progetto, che sembra ancora incompleto e non maturo presentando anche tecnicamente difetti e lacune, ma se dovesse andare in porto esso stravolgerebbe la nostra forma di governo. Ne cito solo alcuni: il vulnus al principio della separazione dei poteri, che è da sempre garanzia fondamentale di uno Stato di diritto; il venir meno della centralità del Parlamento e il netto abbassamento del livello di rappresentatività democratica; la perdita di autorevolezza e di efficacia del ruolo del Capo dello Stato, che diventerebbe soltanto il notaio di volontà politiche e amministrative deliberate altrove.
La proposta governativa, che ha già ottenuto il primo voto favorevole del Senato, sui quattro complessivi richiesti, corredati almeno dalla maggioranza assoluta dei deputati e senatori, sarebbe tuttavia realizzabile solo dopo che fosse approvata una legge elettorale apposita. Questo sarà il passaggio politico cruciale perché la questione è aperta, ma i contrasti assai forti.
È ovvio che moltissimo dipenderà dalla scrittura di tale legge elettorale, un mix di proporzionale e maggioritario-bipolare, ma con tutti gli occhi puntati sul punto dell’asticella che consentirebbe la vittoria: quella che porrebbe il Parlamento “al traino” della elezione diretta della o del premier. La regola democratica di base richiederebbe il 50% dei voti.
Si è molto insistito sulla esaltazione della sovranità popolare, sostenendo che sarebbero i cittadini come singoli
e non i malvisti partiti a decidere, ma si vuole dimenticare che tale sovranità decidente si esprimerebbe una volta ogni cinque anni, esaurendosi nella giornata dell’investitura diretta di un Capo. È ancora l’obiezione sarcastica
che Rousseau sollevava contro la forma di governo inglese, col suo modello parlamentare rappresentativo, operante ogni cinque anni.
Mancano ancora diversi mesi, anzi semestri, prima di arrivare alla stretta finale, che probabilmente coinciderà
con la fine della legislatura nell’autunno del 2027, preceduta verosimilmente dal referendum costituzionale apposito Ma è sin d’ora indispensabile che tutti comincino a prendere coscienza del fatto che, nel progetto da poco approvato in Senato, è rinvenibile una torsione leaderistico-autoritaria che mette in discussione la forma di governo democratico parlamentare, che a sua volta è l’essenza del nostro ordinamento repubblicano attuale.
A ogni modo il difetto maggiore che rinvengo è identico a quello che caratterizzava, in negativo, tutte le passate esperienze: non si fanno riforme costituzionali partigiane, o a dispetto. È indispensabile cercare testardamente e
lealmente i punti di accodo, come fece in maniera solenne e fruttuosa l’Assemblea costituente nel lontano, ma
nobilissimo, biennio 1946/47.
Enzo Balboni
Pubblicato su Il Segno periodico della Diocesi di Milano