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Che la scuola debba essere “severa” non c’è dubbio. Purché sia, anzitutto. severa con sé stessa. Non pretenda dai ragazzi quello che non è in grado di offrire loro. E’ necessario che insegni ai giovani come ogni gesto implichi una responsabilità di cui bisogna sapersi dar carico nel bene e nel male. Purché lo stesso valga per dirigenti, docenti e collaboratori, anche perché l’ “educazione”, compito primario della scuola, non è un momento particolare e in sé circoscritto dell’ itinerario scolastico, una materia curricolare e di studio tra le altre, da assegnare a questo o quel professore, ma il portato di un certo modo di vivere collegialmente nella comunità scolastica. E’ quel che resta se pure si scordassero tutte le nozioni apprese.

Educazione significa interiorità, libertà, capacità di pensare e giudicare in proprio, rispetto degli altri, capacità di ascolto. Vuol dire possedere quella duttilità intelligente che, oggi soprattutto, permette di stare in un mondo frammentato e mutevole, conservando la piena consapevolezza di sé. Senza che le mode e gli eventi, gli atteggiamenti altrui inducano comportamenti mimetici, assunti per intrupparsi nel gregge. E questo è importante anche sul piano della professionalità, in un contesto che non garantisce più una continuità occupazionale che duri una vita.
Per questo se ogni ordine di scuola, dal più blasonato via via a tutti gli altri, impartisce insegnamenti differenziati, l’educazione dev’essere uguale per tutti.

Non ha a che vedere con la professione, infatti, ma con la vita, qualunque sia il rango sociale. La scuola, dunque, come mondo in cui non accademicamente, ma nel vissuto quotidiano vengano sperimentati i valori essenziali che presiedono alla convivenza civile di persone libere e solidali. Valori che, in ultima analisi, a prescindere dalle convinzioni di ognuno, si compendiano per tutti nel rispetto della dignità di ogni persona.

In quanto alla disciplina è opportuno, ovviamente, che vi siano regole scritte e codici comportamentali da rispettare, ma va intesa, in primo luogo, come quella dimensione interiore che i ragazzi possiedono, nella generalità dei casi, più di quanto loro stessi non sappiano e non ammettano. Se incontrano un professore capace di affascinarli, giungono fino a volergli bene e se lo ricordano con gratitudine per tutta la vita. Perché si sono sentiti nutriti dal suo insegnamento e dalla passione che ci ha messo. Si sono sentiti rispettati ed accettati di fronte al sapere trasmesso, in un certo senso, su un piano di parità, in modo tale che il sussiego della cattedra cessi di essere una barriera divisiva.

Ma i ragazzi sono smagati e se il professore è un fesso – e ce ne sono – lo fiutano nell’ aria. E ne approfittano, con quella sottile perfidia, un po’ goliardica, ma vera, di cui sono capaci a quest’età, anche perché, sostanzialmente, da un professore che non sia all’altezza del suo compito si sentono defraudati. Cominciamo, dunque, da lì, dalla formazione di corpi docenti che non solo conoscano la materia, ma sappiano trasmetterne la conoscenza, accettando di farsi coinvolgere da una certa empatia con lo studente.

Domenico Galbiati

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