L’11 aprile del 2020 è scomparso Luciano Pellicani. È stato un sociologo di grande spessore, ma anche storico originale e filosofo della politica di enorme profondità; colto come pochi, sempre disponibile al dibattito e con un senso dell’ironia che placava quell’umana soggezione che è giusto che provi un giovane studioso quando si trova al cospetto di un maestro così erudito.
È possibile leggere il suo ultimo intervento pubblico, tenuto al festival degli “Incontri di Sciabaca. Viaggi e culture mediterranei”, in Calabria, la scorsa estate. Il lavoro, pubblicato per i tipi di Rubbettino, è introdotto da un toccante e meditato saggio di Florindo Rubbettino, che di Pellicani è stato prima allievo, poi editore e, infine, amico.
Il saggio di Pellicani affronta un tema classico delle istituzioni politiche: «perché in Occidente, e solo in Occidente, si sono affermate le libertà? Perché solo in Occidente sono stati istituzionalizzati i diritti?». Passando per la riflessione di Arnold Toynbee e di Fernand Braudel, Pellicani esplicita alcuni principi metodologici che mostrano la provincia Europea come qualcosa che trascende gli Stati e pone l’accento sulla nozione di “civiltà”.
Il nostro Autore assume quanto scritto da un viaggiatore: un tale Ibn Jubayr, il quale annotava nel suo Diario di viaggio con fierezza che a Palermo, da poco tornata cristiana, i palazzi più belli erano quelli arabi. Nel contempo, Pellicani fa notare che sempre nel suo Diario, Jubayr manifestava la vergogna perché in Palestina i musulmani preferivano essere governati dai cristiani.
Sarà il celebre storico arabo Ibn Khaldur, ossserva Pellicani, a fornirci una sorprendente interpretazione: è l’assenza di limiti al potere sovrano che porterà alla distruzione l’economia islamica. Secondo Pellicani, Khaldun, anticipando le tesi di Adam Smith, ci dice che le persone, cercando di migliorare la propria condizione economica, finiscono, magari inconsapevolmente, per contribuire alla maggiore ricchezza del Paese; non c’entra nulla l’egoismo, si tratta della nota teoria delle conseguenze non intenzionali delle azioni umane volontarie, spesso fraintesa, quando non stravolta. Chiosa Pellicani: «la ragione per la quale i musulmani preferivano essere governati dai cristiani era che i secondi rispettavano i diritti di proprietà dei sudditi».
Per questa ragione, accanto alla parola “libertà” andrebbe sempre collocata quella di “diritto”: la libertà non sarebbe altro che una “costellazione di diritti”. La specificità della civiltà occidentale risiederebbe nella presenza di una società civile “distributrice di diritti” e fonte di autorità potestative di tipo “autocefalo”, come le città che in tutta Europa si opposero alle pretese universalistiche dell’impero.
In fondo, scrive Pellicani, le città autocefale sono nate dalla “lotta di classe”, interpretata non in termini marxiani, ma a partire da François Guizot, il quale vedeva nella storia degli ultimi secoli dell’Europa una lotta di classe tra aristocrazia e borghesia. La lotta di classe alla quale fa riferimento Pellicani non è certo quella marxista-leninista, dove lo Stato assume le forme dello “Stato ortopedico”, uno Stato che impone alla società una certa forma.
Eccoci di fronte alle due caratteristiche della società occidentale: la lotta permanente e l’affermarsi dei diritti. Sarà il loro combinato disposto che permetterà al capitalismo, benché in fase embrionale, di promuovere un tale dinamismo che consentì ai “borghigiani” si strappare ai signori dell’antico regime tutta una serie di diritti che andarono a costituire quella speciale forma di aggregato sociale, distributrice di diritti, che Pellicani chiama società civile.
La caduta dell’Impero Romano e la rottura della “mega-macchina” nella parte occidentale consentì, a partire dall’anno mille, una crescita della produttività, della popolazione e delle città; in questo modo si giunse a quelle «città autocefale […] che sfidarono il potere centrale perché erano in grado di autogovernarsi».
In breve, alla base del mistero ci sarebbe uno scontro tra i sostenitori dei diritti delle persone e i collettivisti che volevano una società armoniosa. Per dirla con Popper: «la storia della società occidentale è la storia di una lotta permanente tra società chiusa e società aperta».
Flavio Felice
Pubblicato su Avvenire