“Perdonaci, Indi”: queste parole umanissime e struggenti pronunciate dal padre della piccola Indi Gregory, morta 24 ore dopo il distacco dei supporti vitali, deciso e poi ribadito dal tribunale inglese, riassumono un dramma sconcertante.
Ha fatto bene il nostro governo a concederle la cittadinanza italiana perché potesse essere accolta al Bambino Gesù, sia pure per cure soltanto palliative che accompagnassero una vita destinata comunque, in scienza e coscienza, a spegnersi.
Pretendiamo di maneggiare la vita e la morte con troppa facilità e con una supponenza che dimostra come, in questo tempo confuso, non sappiamo più coglierne il fondamento ed il carattere “sacro”. “Sacro” anche per chi, lontano da ogni credo religioso, guarda alla vita in modo del tutto immanente e compiutamente laico. “Sacro” è ciò che è intangibile, originario e fondativo; ciò che trascende ogni misura che dia conto del contingente; ciò che non è sottoponibile a nessuna operazione di riduzionismo scientifico, sempre eccedente la misura di un naturalismo che pretenda di dissolvere un mistero che non gli compete e va ben oltre il suo metodo e gli strumenti conoscitivi di cui dispone.
Vicende come quella di Indi e dei suoi genitori, simile alle storie di altri bambini, pure loro condannati da inesorabili patologie genetiche, ci chiamano fuori dal rumore assordante delle mille banalità quotidiane e ci costringono a confrontarci con domande irrecusabili, tenuti ad affacciarci sull’ orlo di un abisso che il nostro sguardo non può fare a meno di affrontare, che addirittura ci affascina e ci attrae, eppure, nel contempo, ci allarma e ci spaventa. Un abisso di cui non sappiamo stimare la profondità e tanto meno scrutare il fondo, ma al quale misteriosamente sappiamo di appartenere. Ci assale la consapevolezza oscura di un mistero che la scienza, appunto, non è in grado di sciogliere.
In fondo sappiamo ancora così poco della vita, ad esempio, di quella straordinaria empatia che corre tra genitori e figli, indecifrabile per quanto psicologi e neuroscienziati ne possano descrivere i correlati fisiologici e psicodinamici. Né comprendiamo come uno Stato pretenda, in virtù di quale presunzione etica, di “possedere” un figlio, una “persona” che tale è per quanto deprivata di ogni autonomia funzionale. Come possa pretendere di sostituirsi ai genitori, di decretare la morte di un cittadino sulla supposizione di una sofferenza, alibi di strategie misurate su equilibri meramente di carattere economico.
Indi era un peso insopportabile per una società alla ricerca della “sostenibilità” dei suoi servizi sanitari.
Domenico Galbiati