Il rapporto tra l’elaborazione culturale di temi che attengono la vita civile e la loro traduzione in indirizzi politici, cioè il passaggio dal momento associativo e sociale a quello “partitico”, ha rappresentato sempre, non solo per la tradizione cattolico-democratica, un punto, ad un tempo, dolente – cioè sofferto e di difficile interpretazione – e di grande interesse, potenzialmente creativo. Nel nostro caso, ad esempio, abbiamo assistito, fin dal XIX secolo, al succedersi di almeno due fasi di diastole e di due successive sistoli, secondo il fisiologico dispiegarsi di un vitale ed efficace ritmo cardiaco.
Il Partito Popolare Italiano è nato dalla lunga stagione del “non-expedit” e dell’Opera dei Congressi. La Democrazia Cristiana si è alimentata degli studi, delle riflessioni, dei fermenti che i cattolici non hanno cessato di coltivare clandestinamente nel ventennio dell’ oppressione fascista. Nel secondo dopoguerra, la particolare natura e l’urgenza del momento politico ha, se così si può dire, invertito la direzione di marcia della catena di trasmissione. Non sono più le esperienze sociali vissute nella ricca articolazione del mondo cattolico, né la progressiva maturazione culturale ad ispirare coloro che liberamente hanno scelto un impegno di diretta militanza politica nella Democrazia Cristiana, ma è piuttosto quest’ultima ad arruolare movimenti, associazioni, aggregazioni d’area di varia natura, al punto di inquadrarle in uno schieramento armato.
Si tratta di un rapporto rovesciato ed innaturale e, infatti, il ” collateralismo” si spezza, addirittura si rovescia, talvolta, in un atteggiamento di ostilità, non appena, nella seconda metà degli anni ’60, cambia radicalmente l’orizzonte delle attese sociali e la “cifra” del momento storico. Significativamente, ciò avviene, d’altra parte, negli anni immediatamente successivi alla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Vanamente, Aldo Moro avverte la DC dell’urgenza di saper essere alternativa a se stessa. Senonché, in quel tempo di perdurante “cortina di ferro” – che verrà meno solo nell’ancora lontano ’89 – si potrebbe dire, rovesciando i termini della questione, che la Democrazia Cristiana – magari rallegrandosene sul piano immediato della gestione del potere e, cioè, adattandosi ad un respiro di corto raggio – soffre di una “conventio ad includendum” che prolunga indefinitamente la fase di sistole di cui si diceva sopra.
Il prolungarsi della sistole, oltre la durata di un ritmo fisiologico, è di fatto una condizione di arresto cardiaco e, immediatamente, di mancata irrorazione cerebrale che conduce inevitabilmente all’exitus. E’ quel che è successo alla Democrazia Cristiana. Alla quale, forse, andrebbe riconosciuta l’attenuante di non aver potuto seriamente attendere a se stessa, alla necessaria riconsiderazione della sua ragion d’essere, dovendo garantire la governabilità possibile, in un contesto talmente complesso, controverso e difficile da riprodurre, nel microcosmo nazionale, le stesse ragioni di radicale conflitto che, sul piano internazionale, contrapponevano le due superpotenze di allora.
Ad ogni modo, per tornare al nostro tema, la ricerca di un giusto ed equilibrato rapporto tra il partito ed il suo retroterra culturale si è nervosamente prolungata per decenni, senza mai giungere ad una utile conclusione, approdando tutt’al più al reclutamento in Parlamento di alcuni autorevoli intellettuali cattolici o comunque di figure significative della società civile. Così fu, ad esempio, per la cosidetta “Assemblea degli esterni” dell’autunno 1981.
Oggi come siamo messi? Anche noi abbiamo alle spalle una prolungata diastole, almeno dalla liquidazione coatta del PPI, rifondato da Martinazzoli, una lunga stagione di assenza e di silenzio dei cattolici, forse non altrettanto ricca di meditazioni e di pensieri lunghi da offrire alla ripresa di impegno che pur è doveroso tentare.
Fortunatamente, se ci incamminiamo verso un nuovo soggetto politico d’ispirazione cristiana, lo facciamo muovendo da momenti associativi, a cominciare da Politica Insieme, ma non solo, che precedono e non seguono – come fu per tanti presunti “centri studi” o “fondazioni” ad hoc, funzionali a questo o a quel determinato esponente politico – la nascita e lo sviluppo dell’eventuale partito. Insomma, ammesso che l’immagine sia la più felice – e non è così – potremmo dire che si può ristabilire il corretto verso di scorrimento della catena di trasmissione.
Come si assesta stabilmente nel tempo questo rapporto? Quesito che pone, indirettamente, anche il tema di quali debbano essere alcuni tratti della fisionomia di un partito in grado di nascere oggi e che certamente non può, in nessun modo, modellarsi secondo le forme classiche del partito di massa. La “militanza”, come la si chiamava una volta, è sì l’adesione ad un pensiero, ad una dottrina, ma è soprattutto un’ “esperienza”, cioè qualcosa che attiene il vissuto di una persona, tocca la sua dimensione esistenziale. Si potrebbe addirittura dire, se volessimo prendere le cose come meriterebbero, che è qualcosa per cui ne va della vita di una persona.
Ne consegue che a un partito si aderisce singolarmente, ciascuno per conto suo; uno alla volta, non in forma associata o associativa, talché queste forme organizzate di presenza culturale debbano necessariamente dissolversi nel crogiolo della nuova forma partito. Quest’ultimo va inteso come il “braccio secolare”, il corpo speciale di truppe scelte che decidono di militare in prima linea, sotto il fuoco della contraerea nemica. Insomma, le testa di ponte avanzata di uno schieramento più vasto che non è fatto solo del Col Moschin, dei Lagunari o dei Paracadutisti della Folgore, ma di tanti altri reparti, compresa la truppa dell’intendenza.
Una volta il partito era il tutto: onnivoro, onnicomprensivo, totalizzante. Ora può e dev’essere solo la parte di un insieme organico di ruoli e di compiti che tenga conto di una condizione nuova da cui non si sfugge: la politica, intesa come attitudine a “pensare politicamente” non è più appannaggio esclusivo del “palazzo”, bensì una funzione diffusa, tale per cui – a maggior ragione in questa nuova relazione tra statualità, mercato, società civile, Terzo settore di cui ci dice Zamagni – la politica la fa chi è capace di farla, dovunque si trovi, dentro o fuori un partito. Questo corrisponde ad una necessità anche strutturale dell’agire politico del nostro tempo.
Basti un esempio: diciamo sempre più spesso che abbiamo bisogno di indirizzi e determinazioni che abbiano consapevolezza dei tempi lunghi in cui di spiegare i loro effetti. Senonché, è pure comprensibile quanto sia faticoso coltivare una simile “visione” da parte di forze che, dovendo agire nella contingenza del quotidiano, necessariamente patiscono coercizioni che accorciano e rattrappiscono il raggio della loro proiezione temporale, dovendo, anzitutto, dar conto dell’immediato.
È evidente come l’integrazione di questa tempistica accelerata e cogente con la distensione non meno intensa, ma più paziente e pacata di una ricerca e di un lavoro culturale possa portare ad una interazione virtuosa e reciprocamente illuminante per il momento partitico e per quello associativo, di ordine culturale o sociale che sia. Insomma, non si butta via nulla dell’armamentario che abbiamo costruito.
Il lavoro di approfondimento che abbiamo fin qui sviluppato – penso, ad esempio, alla stessa Politica Insieme – non è che l’incipit di un impegno che deve continuare e che spetterà a chi di noi vorrà farlo, tradurre anche sul piano della concreta e quotidiana battaglia, nell’arengo in cui competono tutte le forze politiche, di qualunque estrazione.
Domenico Galbiati
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