La politica, oltre che scienza e arte di governare lo Stato è altrimenti definita accortezza, astuzia e furberia nell’agire e nel parlare allo scopo di conseguire un’utilità personale. Eppure, secondo Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità. Modi diversi di intendere un impegno a favore della comunità, come dovrebbe essere il compito del politico. La sua considerazione, a livello sociale, è però scesa di molto, tanto da scadere nel dileggio.
Verso i politici c’è una diffusa insofferenza, quando non una manifesta avversione, assimilati a elementi parassitari dello Stato. Di recente, proprio sulla scia di questa percezione, forse nel tentativo di riaccreditarsi nell’opinione pubblica, il Parlamento ha votato per una drastica riduzione dei rappresentanti di Camera e Senato. Operazione che, però, non sembra aver riscattato la politica agli occhi dei cittadini.
Si invoca da più parti una maggiore semplificazione degli organi di rappresentanza, un sistema di governo più snello, dove l’elettore possa svolgere un ruolo da protagonista. Tutto sembrerebbe andare verso una democrazia diretta, senza veti intermedi, emendata da ruoli inutilmente passivi: un sistema più semplice, dove non essere chiamati di continuo a votare per gli uni e gli altri, considerata la sempre più scarsa affluenza alle urne. Potrebbe essere questa la carta vincente della politica? Come nelle tifoserie c’è chi è a favore e chi è contro; ma qui non si tratta prioprio di un gioco. Il ventre molle della democrazia genera mostri, anche se c’è chi ha interesse a minimizzare.
Le destre in genere cercano di assecondare la piazza senza dare troppo peso al principio di responsabilità individuale: basta una delega per essere sollevati da fastidiose incombenze. Le sinistre insistono sull’importanza della partecipazione all’agone politico, esercitando pienamente i cittadini, i diritti sanciti dalla Costituzione. Anni di storia e di cultura politica, stanno a dimostrare le ragioni degli uni e degli altri.
L’ordinamento statuale creatosi con l’avvento della Repubblica, riconosce e tutela i principi democratici a presidio della libertà individuale e della pace sociale. Se l’Italia è un Paese libero lo si deve alle garanzie costituzionali e all’armonia di rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Allora, se l’architettura di sistema funziona, che cosa non è andato bene, per aver avuto dal 1946 a oggi 68 governi. Più volte si sono cambiate le regole dei meccanismi elettorali, senza apprezzabili benefici.
L’introduzione del sistema maggioritario, invocato come soluzione catartica, non ha dato i frutti sperati anzi, ha finito per allontanare i cittadini dalla politica, divenuta ostaggio delle segreterie dei partiti. In questo senso non si insisterà mai abbastanza sulla necessità del ritorno al proporzionale. Per il fallimento della durata dei governi, si è sempre alla ricerca di una causa terza, individuabile, a seconda dei gusti, nella Costituzione o nei criteri di rappresentanza. Difficilmente però si chiama in causa il fattore umano, assolto da tutti i partiti da punto di debolezza del sistema. Perché allora non pensare a un capo del governo eletto direttamente dal popolo, lasciando ai cittadini la responsabilità della scelta?
La Legge sul Premierato, proposta dal governo in carica, insiste sull’importanza dell’elezione diretta del premier da parte dei cittadini, come garanzia di stabilità dell’esecutivo. E perché mai? La Meloni, eletta in Parlamento o votata dai cittadini, sempre Giorgia rimane: perché l’investitura popolare del premier dovrebbe rendere il governo più stabile o rendere il candidato più virtuoso?
Certamente un premier eletto dal popolo, in virtù dei milioni di elettori chiamati a votarlo, disporrebbe di una notevole autorevolezza, adombrando i poteri del Capo dello Stato e, relegando senatori e deputati in posizione subalterne, proprio per numero di preferenze. Un Capo del Governo dotato di poteri assoluti, con la possibilità di fare e disfare maggioranze, destinato a rimanere in carica per l’intero mandato, non potendo il Parlamento sfiduciare chi è stato eletto dal popolo.
La Costituzione non è per sempre e si può certamente modificare, in meglio se possibile, ma sostenere come fa la maggioranza che i poteri del Capo dello Stato rimarrebbero inalterati, non è credibile, stando gli squilibri che verrebbero a crearsi. In nessun Paese del mondo esiste l’elezione diretta del Premier e dove hanno provato, come in Israele, ci hanno subito rinunciato e, si può solo immaginare cos’altro potrebbe fare oggi un Netanyahu eletto da popolo. Difficile riuscire dove altri hanno fallito.
Può essere allora utile fare una simulazione retroattiva, tanto per capire cosa sarebbe potuto succedere negli anni scorsi, in presenza di una legge sul premierato. Escludendo Berlusconi, sostenitore dell’elezione diretta del Capo dello Stato e non del Governo, si può fare riferimento ai due Matteo. Renzi da giovane e attivo capo di governo aveva portato il PD, oltre il 40% alle elezioni europee, poi però il gradimento politico si è rapidamente esaurito e la maggioranza lo ha sfiduciato. Matteo Salvini, da iperattivo segretario leghista ha avuto grandi consensi, conseguendo uno straordinario risultato alle successive elezioni europee. Entrambi oggi sembrano aver perso lo charme dei tempi migliori e si dibattono tra percentuali a una cifra. Renzi avrebbe fatto meglio se fosse stato eletto dal popolo? Salvini ha avuto le credenziali per diventare Presidente del Consiglio ma, nel caso, oggi, si accontenterebbe di “andare controvento”?
Così, se si scoprisse a posteriori che la persona eletta, non è come si pensava, non sarebbe possibile fare nulla, rimanendo lì sino a fine mandato. Il premierato è legittimo, sempre che diventi legge, ma non può dare nessuna garanzia per la stabilità dell’esecutivo. Attribuisce sicuramente invece maggiori poteri al Capo del Governo, superiori a quelli del Capo dello Stato, che verrebbe a perdere la sua funzione di garante. Non si tratta perciò di una semplice modifica al nostro ordinamento, per avvicinare la gente alla politica, ma di sovvertire il nostro impianto costituzionale, erodendone i capisaldi democratici. In buona sostanza non bisogna dimenticare che la politica è l’arte del consenso, dove si misura la capacità di persuasione di chi la esercita, ma occorre distinguere tra chi si batte per realizzare riforme socialmente utili e chi invece ritiene che importante non è che la proposta sia valida; ma far credere che lo sia.
Adalberto Notarpietro