Osservando le riforme costituzionali via via elaborate nel corso degli anni, ci si rende conto come nessuna abbia mai avuto a che vedere con un reale miglioramento del nostro sistema politico sia in termini di efficienza delle istituzioni che di razionale assetto dei poteri. A questo dato di fatto non sfuggono né la riforma del Titolo V, l’unica che sia entrata vigore, né quelle che sono state bocciate dagli elettori nei referendum.
La modifica del Titolo V, portata a termine dal centrosinistra nel 2001 nella smania di carpire consensi alla Lega sul federalismo, è un pasticcio istituzionale avendo soltanto prodotto la crescita esponenziale dei conflitti tra Stato e Regioni a causa della legislazione concorrente. In teoria, tutto pareva semplice: i principi legislativi generali appannaggio dello Stato, le norme di attuazione alle Regioni. In pratica ci si perde sovente nell’insidiosa zona grigia presente tra le due sfere di competenza, alimentando controversie sulle quali è chiamata ad intervenire la Corte costituzionale. E questo per non parlare del fatto che in alcune materie passate sotto egida regionale risulta difficile la governance nel suo insieme, depotenziata della sua necessaria unitarietà nazionale. Caso più eclatante, e più grave, la regionalizzazione della sanità che ha fatto esplodere inefficienze e disuguaglianze.
Tra le riforme che si sono arenate con il referendum confermativo, ci sono sia il federalismo promosso dalla Lega nel 2005 sia il superamento del bicameralismo proposta da Renzi nel 2016. La riforma leghista era ingestibile a causa degli eccessivi poteri concessi alle Regioni in materie chiave come scuola e sanità. Quella renziana, eliminando l’elezione diretta del Senato riduceva palazzo Madama a semplice appendice di Montecitorio, oltre al fatto che si prospettava un premio di maggioranza a chi fosse giunto in testa alle elezioni del tutto spropositato, non prevedendo una congrua soglia di voti da conseguire in partenza. Un problema che si ripropone con il premierato di marca meloniana. Va quindi ricordata la pronuncia della Corte costituzionale per la quale il premio non può superare il 15 per cento dei seggi. In caso contrario dissero i giudici sarebbe stata alterata in modo inaccettabile la rappresentatività del Parlamento: uno dei principi cardine del nostro ordinamento.
Il premierato è anche affetto da una scarsa razionalità istituzionale. L’elezione diretta del premier, adottata qualche anno fa da Israele è stata abbandonata poiché irrigidiva il sistema senza migliorare la governabilità e così si è tornati al classico, e più collaudato, parlamentarismo. Noi vogliamo invece insistere con questo modello inefficace e, come se non bastasse, viene previsto, in caso di crisi di governo, l’avvento di un secondo premier, tratto obbligatoriamente dalla maggioranza che ha vinto le elezioni ma, a differenza del predecessore, non più scelto dagli elettori. Una vera e propria stravaganza istituzionale che, paradossalmente, finisce per concedere più forza al secondo presidente del Consiglio rispetto al primo, in quanto dotato del potere di mandare a casa i parlamentari. Difficile, col rischio di mettere in gioco il seggio anzitempo, che qualcuno gli faccia lo sgambetto.
Insensata anche l’abolizione dei senatori a vita di nomina presidenziale che, oltre a sottrarre al Capo dello Stato un’importante prerogativa, esclude dai ranghi del Senato figure che come recita l’art. 59 della Costituzione “hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Curioso che la destra intenda eliminare proprio quell’onorificenza che qualche anno fa auspicava fosse concessa a Silvio Berlusconi. E tutto questo per il timore, invero meschino, di impedire l’approdo a palazzo Chigi di esponenti tecnici alla Monti o alla Draghi. Una riforma insomma abborracciata e che, col secondo premier contraddice addirittura il suo assunto di base: ossia l’elezione diretta del capo del governo.
Del resto di che stupirsi? Con le modifiche della Costituzione – come mostrano gli esempi fatti – non la si azzecca mai. E questo succede perché da decenni il nostro ceto politico è privo di un’autentica cultura istituzionale: una carenza che non gli permette di ponderare adeguatamente gli effetti sul sistema complessivo prodotti da questo o da quel cambiamento. Poco ascoltati anche i costituzionalisti, a meno che non avallino la tesi del momento. Per non parlare della pessima abitudine che qualsiasi maggioranza ritiene di poter procedere da sola, dimenticando che le regole del gioco devono sempre esser scritte con l’opposizione. Fare riforme condivise, questa dovrebbe essere la vera ambizione. Ma forse servirebbe un’altra classe politica. E non solo per modificare la Costituzione.
Aldo Novellini
Pubblicato su Rinascita popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)