La morte di Giorgio Napolitano, penultimo presidente della repubblica e primo ad essere rieletto per un secondo mandato (cosa che si ripeterà con l’attuale presidente Mattarella) invita a una riflessione più generale sul ruolo della istituzione che Napolitano ha con grande dignità ricoperto. Soprattutto in un momento in cui le forze di governo parlano insistentemente (anche se per ora con poca chiarezza) di riforme presidenziali (e magari accusano i precedenti presidenti di “presidenzialismo all’italiana” o addirittura di abuso di poteri)

Conviene allora partire dal disegno della Costituzione repubblicana che in questo campo è rimasto a tutt’oggi invariato. Avendo respinto la proposta di un più che illustre personaggio come Calamandrei di introdurre il modello presidenziale all’americana, i costituenti optarono per un modello pienamente parlamentare, nel quale cioè l’esecutivo trae attraverso il voto di fiducia la sua legittimazione democratica dal parlamento eletto dai cittadini. Fatta questa opzione di fondo (conforme alla tradizione prevalente in Europa), i costituenti hanno però ritenuto opportuno affiancare al governo un’istituzione di alta garanzia, la presidenza della repubblica, con poteri che le permettessero di assicurare il regolare svolgimento della formazione dei governi e di arbitrare gli eventuali conflitti. Al presidente della repubblica era assegnato anche il compito altamente simbolico di rappresentare l’unità della nazione al disopra dei conflitti partigiani. Non caso se ne stabiliva una durata settennale per sganciarlo dal ritmo delle elezioni politiche e una modalità di elezione a maggioranza allargata.

L’istituzione ha corrisposto al disegno dei costituenti? Credo che la risposta debba essere in larga parte positiva. Ma vediamo meglio. Quanto all’ultimo aspetto i presidenti che si sonno succeduti sono stati tutti figure di elevato prestigio e notevole esperienza e nel complesso hanno bene incarnato il ruolo di rappresentanti dell’unità nazionale. Sul loro ruolo nel processo di governo il discorso deve invece essere più articolato e grosso modo diviso in due periodi. Fino al 1992 e al collasso del sistema partitico centrato sulla Democrazia Cristiana i partiti sono stati sostanzialmente in grado di orientare da soli il processo di formazione delle coalizioni parlamentari e conseguentemente di esprimere governi con una piena connotazione politico-parlamentare. Presidenti del consiglio e ministri sono stati essenzialmente espressi dai partiti. I presidenti della repubblica hanno essenzialmente accompagnato questo processo senza dover assumere un ruolo particolarmente attivo.

Le cose cambiano bruscamente significativamente dopo il 1992 quando gli interventi si fanno più pregnanti. Il segno più chiaro è che in ben quattro occasioni – con il governo Ciampi del 1993, quello Dini del 1995, quello Monti del 2013 e infine quello Draghi del 2022- si sperimenta la formula usualmente chiamata del governo tecnico o semi-tecnico. Questi governi sono stati caratterizzati da presidenti del consiglio di estrazione non partitica e di provenienza da altissime cariche della pubblica amministrazione (Banca d’Italia) o delle istituzioni europee (Commissione e Banca centrale Europea).

A seconda dei casi i ministri sono stati anch’essi in toto o in parte non partitici. Tutti questi casi segnalano un intervento particolarmente significativo e personale del Presidente della Repubblica al momento in carica (Scalfaro, Napolitano e infine Mattarella). Aggiungiamo che questa scelta è stata in genere accompagnata da indicazioni piuttosto chiare su alcuni fondamentali indirizzi di politica da perseguire e anche sulle assegnazioni di ministeri chiave. Come mai questo è successo? La risposta è abbastanza semplice. Anche se qualche politico interessato continua a dilettarsi di teorie di congiura, la vera spiegazione di questi interventi straordinari ma ripetuti nel tempo sta nelle gravi debolezze che il sistema dei partiti ha evidenziato durante questo periodo.

In sostanza, il Capo dello stato si è trovato in questi vari momenti di fronte ad un’incapacità manifesta delle forze politiche di esprimere una formula di governo capace di affrontare gravi turbolenze interne ed internazionali. In presenza di quella che potremmo chiamare una resa dei partiti il Capo dello stato si è trovato di fronte ad una scelta molto seria: ricorrere a nuove elezioni e al rischio del riprodursi di una situazione di ingovernabilità o promuovere un governo di transizione, affidato a mani sicure e capace di affrontare i gravi problemi del momento, lasciando così ai partiti una pausa di riflessione per ritrovare capacità propositiva. Peraltro questa seconda scelta è stata accettata, seppur tacitamente, dai partiti che se avessero voluto veramente nuove elezioni o altre soluzioni politiche avrebbero potuto accordarsi per ottenerle.

Ma l’azione persuasiva del Capo dello stato si è, a più riprese, manifestata anche verso governi politici quando, soprattutto da parte di forze politiche nuove, sono stati proposti per importanti posizioni ministeriali personaggi decisamente al disotto dei requisiti necessari o in contrasto con gli impegni internazionali del paese, o avanzati provvedimenti legislativi di dubbia costituzionalità.

Poiché tutti questi interventi sono in realtà rimasti nel solco delle previsioni della Costituzione e ne hanno rappresentato semmai un impiego più robusto richiesto dalle circostanze, più che di “presidenzialismo all’italiana” si dovrebbe parlare di “parlamentarismo temperato”, una formula che credo molti padri costituenti avrebbero sottoscritto. La Presidenza della repubblica ha contribuito a far funzionare il regime parlamentare in momenti difficili salvandolo proprio da una sua involuzione. Chi oggi propone con molta approssimazione riforme di stampo variamente presidenzialista che impatterebbero sul ruolo del capo dello stato indebolendone ruolo di garanzia e di supplenza dovrebbe chiedersi  se veramente i deficit di funzionamento, indubbiamente presenti nel parlamentarismo italiano, dipendano dalla sua regolamentazione costituzionale o non piuttosto dallo stato di crisi dei partiti oggi assai carenti sul piano della democraticità interna, della serietà programmatica per non parlare della qualità della cultura politica. Forse è il caso di dire medice cura te ipsum!

Maurizio Cotta

 

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