“Prima la libertà, poi la pace nel mondo! La pretesa contraria (“Prima la pace, poi la liberta’!”) è illusoria. Infatti, una pace esterna che duri momentaneamente grazie al caso o tramite il dispotismo, oppure mediante un’opportuna operazione militare, o ancora per la paura dei contendenti, non è una pace assicurata al fondo stesso dell’uomo. Essa riporterebbe subito alla guerra a causa della discordia che, di fatto, alligna quando manca la liberta’ per i singoli individui”.
Lo afferma Karl Jaspers, psichiatra e filosofo, uno dei padri dell’esistenzialismo, nel lontano 1958, in occasione del conferimento del “Premio per la Pace”, attribuitogli dall’ associazione dei librai tedeschi. Nella stessa occasione intervenne anche Hannah Arendt.
Le parole di Jaspers andrebbero lette e meditate, passo dopo passo, perché sono una profonda analisi del rapporto che corre tra libertà e democrazia, con particolare riguardo ai processi di involuzione che giungono a rovesciare quest’ ultima contro sé stessa. Sintetizza questo importante versante del suo pensiero con queste parole: “La democrazia esclusivamente formale genera il totalitarismo, cosicché a ragione Hitler poté dire trionfante: ‘’L’ ho battuta con la sua stessa follia” “.
Singolare figura di psichiatra che trae la sua riflessione filosofica dalla frequentazione quotidiana della psicopatologia – non a caso campo in cui , contrariamente ad un pregiudizio tenace e diffuso, si incontra davvero ciò che nella persona è più autenticamente umano – Jaspers ci dice, in buona sostanza, che chi difende la libertà promuove la pace.
Si tratta di un assunto su cui varrebbe la pena soffermarsi per meditarlo e scorgervi un ammonimento che vale anche per i nostri giorni tormentati da guerre, da rivalità e da diseguaglianze umilianti per chi le subisce e non meno per chi le osserva senza provare indignazione. C’è una guerra della quale, fors’anche perché sovrastata da un’altra, ci stiamo quasi dimenticando, a riprova – talvolta riprovevole, come in questo caso – della straordinaria capacità ad “adattarsi” ad ogni situazione che l’ uomo possiede. Attitudine fondamentale per la stessa sopravvivenza dell’ umanità, eppure non da praticare in modo acritico.
La guerra mossa dal macellaio del Cremlino contro l’Ucraina è uno stillicidio quotidiano che, a questo punto, nulla ha a che vedere con la pretesa di ristabilire quel ruolo imperiale da superpotenza che la Russia ha ereditato dai Soviet e questi, a loro volta, dagli zar. Sotto questo profilo, l’ “operazione speciale” è fallita. Avrebbe avuto successo se, puntando sulla capitale, quel 24 febbraio – quasi tre anni fa – Putin si fosse sbarazzato di Kiev, come forse riteneva, in un paio di settimane. Al contrario, a questo punto, anche il Cremlino è preso nel laccio di un conflitto da cui non può recedere; una guerra feroce, cinica e disumana che non puo’ perdere, eppure non sa come vincere.
Cosicché il prestigio del Golia post-sovietica ne soffre, per quanto sgomiti per uscire dall’isolamento. Peraltro, la guerra persiste perché Putin ne ha bisogno. Anzitutto, per premere il coperchio dell’ammonimento e della dissuasione, della minaccia, del controllo e della repressione nei confronti di una società che mostra qualche fermento di dissenso, quel tanto che basta a fargli temere un incendio, da prevenire ad ogni costo. E l’Ucraina diventa, secondo la più classica dottrina del “capro espiatorio”, il pretesto della narrazione complottarda che Putin racconta ai suoi.
In secondo luogo, ne ha bisogno – anche per conto terzi – per mantenere una spina conficcata nel fianco dell’ Europa.
In quanto all’ Ucraina continua a combattere la sua legittima e giusta lotta di resistenza e di liberazione per la quale merita intera – oltre il sostegno armato – la nostra gratitudine.
L’Ucraina – per tornare ad Jaspers – in tanto ed in quanto difende la libertà, promuove la pace. Assai più di coloro che si spingono fino a suggerirle la resa in nome di un disegno di pace astratto e, in se’, contraddittorio.
Domenico Galbiati