Tutte le parti occidentali del conflitto iniziato con l’attacco del 24 Febbraio hanno denunciato con forza il carattere di “farsa” del referendum che, da parte di Mosca, è stato preso a pretesto per giustificare l’annessione alla Federazione russa di circa un quinto del territorio della Repubblica ucraina, quale essa era nata dal disfacimento dell’Unione Sovietica. Tutti gli osservatori hanno notato che il voto non è stato preceduto da nessuna campagna referendaria. Ed è un fatto che, comunque, una quota sostanziale della popolazione che avrebbe avuto il diritto di votare sul destino di quei territori era stata costretta a fuggire, in maggior parte verso Ovest ma anche verso Est.
E poi, tutte le televisioni occidentali hanno trasmesso le immagini degli “ambulanti del voto” che, nelle urne trasparenti, raccoglievano schede elettorali “votate”, ma non ripiegate; infilate aperte nell’urna, secondo una solo parzialmente scomparsa abitudine dell’epoca sovietica, quando tenere segreto il proprio voto bastava a creare sospetti, e poteva essere pericoloso.
Eppure, che il voto sia stato solo una farsa è vero solo a metà, o forse bisognerebbe dire che era vero due volte. Perché le popolazioni rimaste nelle zone occupate dai russi, non solo quelle di lingua russa ma pure quelle di lingua ucraina, veramente volevano nei giorni scorsi essere inglobate nella Federazione russa. E lo volevano ardentemente, esattamente cioè come avrebbero voluto essere integrate nell’Ucraina di Zelensky se la situazione sul terreno fosse stata quella opposta. Erano cioè pronte a rassegnarsi ad un risultato voluto da Kiev come si sono rassegnate a quello voluto da Mosca. Perché la loro prima ed assoluta priorità, delle famiglie di lingua ucraina come di quelle di lingua russa, era di smettere di essere parte della preda contesa tra le due parti. E volevano che i loro villaggi non fossero più il terreno dello scontro militare.
L’importanza di essere Russia
Indipendentemente dalla patente illegalità del referendum e dell’immediata annessione che ad esso ha fatto seguito, la situazione, oggi, è comunque cambiata. Avendo inglobato le due repubbliche fantoccio e gli altri territori occupati nella Federazione russa, Putin ha avuto come obiettivo quello di rendere estremamente pericoloso, e quindi improbabile, ogni proseguimento dell’offensiva di riconquista che l’Ucraina ha nelle ultime settimane avviato contro i territori occupati dai Russi. E ciò perché – secondo le regole arcinote della strategia di Mosca – ogni attacco in grande stile di Zelensky al territorio propriamente (anche se illegalmente) russo potrebbe provocare una pressoché immediata escalation verso la terza Guerra mondiale.
Alla mossa di Putin, Zelensky non ha mancato di rispondere da par suo (e dei suoi consiglieri). Ha reagito non solo con nuovi attacchi che stanno portando ad un’ulteriore piccola ritirata dell’esercito avversario da alcune delle zone conquistate nei mesi scorsi. Ha reagito cioè cercando di screditare immediatamente la nuova posizione del Cremlino, facendolo apparire come incapace di imporre nei fatti quel che stava orgogliosamente proclamando. Ha reagito ma anche, chiedendo – come di consueto – più armi ai paesi occidentali; ed ovviamente ottenendone non solo dagli Stati Uniti, per altri 12,5 miliardi dollari, ma anche dal Regno Unito, che pure è in preda ad una tremenda crisi della finanza pubblica.
Stavolta, però, Zelensky sembra mirare – e potrebbe ottenerlo – anche a qualcos’altro, e di assai più serio. Sembra mirare ad ottenere una la promozione immediata o quasi del suo paese allo status di “full member” dell’Alleanza Atlantica. Una richiesta che, se già a prima vista sembra come simmetrica e contraria all’annessione putiniana dei territori occupati, ad un esame appena più attento appare ad essa addirittura complementare, e che introdurrebbe nel puzzle ucraino un decisivo elemento di novità.
L’importanza di esser Nato
In tempi normali, come dimostra la procedura in corso per Svezia e Finlandia, quel che Zelensky pretende, l’ammissione rapida di un nuovo membro ai ranghi dell’Alleanza, è un’operazione lunga e complessa, che richiede l’approvazione ufficiale di tutti e trenta i paesi membri. Nella situazione odierna, però, una tale pretesa oggi trova non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa chi sarebbe disposto a soddisfarla.
Se soddisfatta, la richiesta di Zelensky di adesione all’Alleanza occidentale vincolerebbe gli altri stati membri, come sancito dal Trattato, ad entrare in guerra contro l’eventuale aggressore dell’Ucraina come di ogni altro paese Nato. Aprendo la porta ad un eventuale intervento degli Stati Uniti, l’ammissione dell’Ucraina nell’Alleanza renderebbe perciò fortemente sconsigliabile un attacco russo in grande stile a quella parte del territorio ucraino che è sfuggito al blitz di fine febbraio.
Se la richiesta di Zelensky venisse accolta si tornerebbe insomma all’equilibrio del terrore.
In pratica, verrebbero create le condizioni di uno stallo militare: una situazione, in cui ciascuna delle due parti in guerra è costretta, sul piano tattico e operativo, a ben misurare le proprie mosse, pena una mortale escalation dei rapporti tra le due grandi potenze protettrici delle fazioni ucraine E ciò pure nel caso in cui ciascuna di essa limitasse le proprie ambizioni solo a continuare a perseguire fini strategici sinora ritenuti legittimi. Che potrebbero essere, per la Russia, quelli della “operazione militare speciale” di portare il confine fino al Dniepr, e per Kiev – come ufficialmente e ripetutamente dichiarato – non solo la riconquista di quanto conquistato ed annesso in questa guerra, ma anche della Crimea.
Si tratterebbe in altri termini delle premesse per una sospensione di fatto delle operazioni militari tra le due parti che si disputano il territorio dell’Ucraina e la lealtà politica dei suoi abitanti. Ma non per questo si tratterebbe di un congelamento e ancor meno di una conclusione del conflitto, si tratterebbe solo della sua putrefazione, con lo scadimento in una guerra di attrito su piccola scala, come quella condotta dalle milizie ucraine cosiddette ”neonaziste” negli otto anni tra il 2014 ed oggi, che sono costate 14.000 morti. E dell’inserimento del conflitto tra USA e Russia oggi in atto sul teatro dell’Europa centro-orientale in una logica di “equilibrio del terrore”. Più o meno come è stato, per sette decenni, il conflitto tra le sue Coree, che ancora oggi risultano formalmente trovarsi in una situazione di semplice tregua.
Difficilmente però, a questa degradazione dell’attività propriamente militare si accompagnerebbe un’attenuazione delle misure punitive reciprocamente in atto tra le parti. Con la perpetuazione delle sanzioni e delle loro conseguenze economiche e di disorganizzazione sociale e politica dei paesi, come l’Italia, non direttamente coinvolti nella partita di “braccio di ferro” militare oggi in atto nel cuore dell’Europa.
Giuseppe Sacco