Il guaio è che si dirà: è poca cosa. Ma uno dei grandi mali della politica italiana è la smemoratezza del grande insegnamento di Aristotele che lega la forma alla sostanza. Checché se ne dica, quelli della cosiddetta Prima repubblica, invece, non lo dimenticavano. Forse rispetto dei grandi principi che regolavano la guida dei partiti e delle istituzioni? Poi c’era tutto il resto, per carità. Ma la cura formale dei “fondamentali” della vita democratica non era mai trascurata.
Presa un po’ meno alla lontana e andando nel merito del ragionamento, sollecitati da cose di questi giorni, colpisce come in tante occasioni, invece, ai nostri attuali politici sfugga la grande massima aristotelica. Eppure, essa regola tutto il resto del mondo dove, qualunque sia il regime, e qualunque possano essere le nefandezze di cui si macchiano stati e loro governanti, il rispetto, almeno formale, di norme, relazioni, etichetta e comportamenti consolidati costituiscono un pre requisito . E ciò accade persino in caso di guerra, anche se non tutto lo si racconta per non far perdere ai propri “quello spirto guerrier” che dentro rugge.
Tra le tante della nostra attualità, due cose almeno meritano di essere prese in considerazione. La prima riguarda quel che ha detto la Presidente del consiglio Giorgia Meloni nel rimproverare alle opposizioni di fare il proprio mestiere. Lo ha fatto accusandole di danneggiare l’immagine del Paese, anzi … della Nazione. Intanto, non si può non rilevare la smemoratezza da cui è presa Giorgia Meloni da quando è salita al piano nobile di Palazzo Chigi. Sono così tante le cose che dice e che fa in contraddizione, palese ed estesa, rispetto a quello che diceva dall’opposizione che non vale neppure più la pena di contarle. In ogni caso, anch’ella continua con la pratica della “demonizzazione” dell’avversario, una pratica di cui si lamenta di essere a sua volta vittima.
Ma anche a sinistra non mancano i motivi per sostenere che ci si allontana molto dal rispetto della forma richiesto da chi, in maggioranza o in minoranza, è chiamato ad occuparsi delle cosa pubblica e, quindi, seguire consolidate norme e tradizioni del nostro ordinamento democratico.
Il riferimento è alla bagarre in corso nel Pd per le nomine dei capogruppo parlamentari. Accadde anche quando Enrico Letta venne nominato alla Segreteria dei democratici. Il Partito impose il cambio violando ogni riconoscimento dell’autonomia dei parlamentari. Ma questa non è una giustificazione.
Il caso vuole che ai gruppi parlamentari, che si vedono riconosciuto un proprio specifico ruolo dalla Costituzione, dev’essere lasciata autonomia nella propria organizzazione. Non è un caso che, da mondo è mondo, si sia sempre proceduto alle elezioni dei vertici dei gruppi. E chi è anziano, ed ha seguito quanto si svolgeva alla Camera e al Senato, ricorderà il rispetto che ogni partito aveva della loro autonoma regolamentazione. Quante volte nella Dc sono stati eletti Presidenti di gruppo, in questo o in quell’altro ramo del Parlamento, appartenenti a correnti diverse da quelle che avevano la maggioranza nel partito?
Da tempo assistiamo ad una confusione di ruoli e competenze e ne va di mezzo il ruolo delle Assemblee elettive e quello dei deputati e senatori che, a rigor di logica, dovrebbero, prima, rappresentare tutto il corpo elettorale.
Ma chi ci pensa a queste cose? Si dirà: è poca cosa. Ma è invece tanta, e in senso negativo, per chi si lascia andare ai roboanti proclami sul cambiamento che sembra destinato, e celo dicono tante “piccole” cose a non arrivare mai.