Difficile vedere manifestanti per la pace nelle nostre città, o studenti in piazza per questa finalità. Non può dipendere dal COVID, perché per altri obiettivi si manifesta.
Di fronte alla guerra che torna nel cuore d’ Europa, proprio nelle aree in cui iniziarono i conflitti mondiali, cioè in quei territori dell’est europeo in cui il mosaico delle etnie e delle nazioni ha sempre reso difficile tracciare invalicabili confini di Stato e può ancora fornire infiniti casus belli ai guerrafondai di turno ( ci sono tante potenziali Serajevo o Danzica sparse qua e là, proprio come le repubbliche del Donbass riconosciute da Putin ), inquietanti analogie si affacciano alla mente. Non tanto con la vicenda dei missili sovietici a Cuba a due passi dall’ America, quanto con le vicende che dettero inizio alle guerre mondiali, coinvolgendo come in un tragico gioco del domino uno Stato dietro l’altro, attraverso i meccanismi delle alleanze contrapposte.
E’ ovvio che il problema non è quello della possibile presenza della NATO alle porte della Russia, ma ben altro. E l’ Ucraina non è la Bosnia Erzegovina o l’ Ossezia, o la Georgia. L’Ucraina è un grande e strategicamente importante Stato europeo. E’ anzi uno Stato con una distinta, anche se tormentata, identità nazionale, insistentemente negata dall’imperialismo culturale grande russo, che appartiene ad una di quelle aree in cui il mosaico nazionale e le successive maldestre risistemazioni etniche hanno conseguito l’effetto di contrapporre etnia ad etnia e fornire materiale ideale per appiccare il fuoco dei nazionalismi.
Il discorso in mondovisione di Putin del 21 febbraio ha dato ulteriore fuoco a queste polveri, introducendo l’idea di una delegittimazione delle sovranità nazionali, costituite durante il periodo del comunismo, in particolare di quella ucraina, una sovranità difesa vigorosamente, almeno in un primo momento, da Lenin in un articolo della Pravda del 2 giugno 1917 ( Ettore Cinnella, La rivoluzione russa, RCS, Milano, 2004, p.529), ma poi più tardi contraddetta dallo stesso potere bolscevico. E’ inquietante, ma significativo, il fatto che la Russia intervenga oggi militarmente, esattamente come un secolo fa, fece la Russia sovietica, nel gennaio 1918, attaccando la Repubblica Ucraina Popolare per abbattere il governo socialista autonomamente formatosi e guidato dalla cosiddetta Rada ( Consiglio, in carica sino alla convocazione di una costituente) in appoggio al governo comunista sorto nell’enclave di Char’kov ( la cd. “segreteria del popolo”) nella parte orientale del paese, dove prevaleva un proletariato russo o russificato di orientamento filo bolscevico, non lontana dalla regione di Donec e dell’attuale Donbass “applicando per la prima volta il metodo sovietico dell’ “aiuto fraterno” ad un governo più o meno artificioso” ( Ettore Cinnella, La rivoluzione russa, RCS, Milano, 2004, p. 535). Un secolo dopo con ben altre forze, ben altro potere e in ben altro contesto internazionale quella strategia “sovietica” si ripete ancora in perfetta continuità, mutati i regimi politici ed i protagonisti. Forse anche in continuità col regime precedente la Russia sovietica. Putin sembra così riproporre un ripristino di quell’unità imposta dall’alto che esisteva nella autocrazia zarista, prima ancora che nel’ URSS.
Di fronte a questa enormità della situazione, quali che ne siano gli esiti, diciamolo pure, diventa spiegabile anche il silenzio assordante- almeno sinora- dei “pacifisti”, una sorta di silenzio della delusione e dell’impotenza, o forse anche dell’indifferenza. Un capo di Stato che viola, in un crescendo rossiniano, i trattati e le convenzioni internazionali, senza che nessuno lo fermi, lo abbiamo già conosciuto negli anni trenta del XX secolo. Una replica sembrava impossibile. La via d’uscita allora più realistica può davvero apparire quella che si fonda sulla ragione delle armi, visto che le armi della ragione- oltre che quelle della umana comprensione- sembrano decisamente spuntate ed inefficaci.
L’appello all’ Unione Europea sembra anche esso sinora un appello con poche speranze. Certo l’ UE reagisce e continuerà a reagire a questo attacco alla legalità internazionale probabilmente in modo compatto. C’è un obiettivo immediato, “emergenziale” ormai, quello di fermare le morti e le vittime, bloccare l’escalation, realizzare una tregua. Ma forse a questo punto non basta. Per ottenere lo scopo bisogna cercare di aprire prospettive verso una pace vera, che sia coesistenza e comprensione almeno e che consenta di ritornare indietro dal conflitto alla discussione e al confronto degli argomenti . Un obiettivo che attualmente non pare certo essere la priorità per le grandi potenze, ma che dovrebbe essere la priorità dell’ Europa.
Le sanzioni sono uno strumento incerto nei risultati e rischioso, imposto dall’emergenza. Oggi le sanzioni, ma poi? La logica della forza e del conflitto può “reggere” nelle piccole guerre, nelle guerre locali e localizzabili, che si concludono con la “sconfitta” di una parte. Guerre e “guerricciole” cui ci siamo assuefatti anche in Europa, a partire dalle guerre dei Balcani. Non può reggere in uno scontro in cui entrano in gioco interessi globali e la dimensione degli armamenti trasformerebbe la logica del conflitto assoluto in una logica suicida.
Il NO ALLA GUERRA !, il FERMATEVI ORA ! dei pacifisti, in questa situazione, può dunque oggi essere gridato con forza, solo se è sorretto da convinzione profonda e da argomenti solidi e convincenti, che superino questi motivi di perplessità. C’è il rischio che l’alternativa che rimane sia quella di contrapporre la forza alla forza, di fronte a cui ogni pacifismo diventa superfluo o finto. Le chances della pace non possono essere trascurate troppo a lungo, vanno colte quando ancora c’è tempo, quando c’è l’occasione, prima che il tempo sia scaduto. Bisogna evitare anche l’altra illusione quella che la guerra riguardi altri e per noi comporti al massimo effetti economici. Perché dovremmo “morire per Danzica” o semplicemente “manifestare per Danzica”, per riprendere il famoso articolo del giornalista francese del 1939? In realtà ad ognuno di noi la storia- per così dire- chiede conto e chiederà conto di quanto non facciamo per custodire umanizzare il mondo reale cui siamo strutturalmente “connessi”.
Per questo è inquietante non vedere più le bandierine multicolori esposte alle finestre. La guerra sembra essere tornata una opzione accettabile per risolvere le controversie internazionali, in barba alla nostra Costituzione ed ai trattati o convenzioni internazionali. In effetti è dai tempi della guerra del Golfo del 1990 che la “Realpolitik” è sempre più spesso diventata “vangelo” corrente per l’uomo comune. Trenta anni di “educazione” alla Realpolitik non ci hanno fatto bene. Forse questi anni di perversione educativa ci hanno narcotizzato, di fronte agli orrori ed alle stragi, alle offese ad ogni persona. Presto anzi la guerra, magari in modalità tecnologicamente evolute, potrebbe divenire la soluzione più ordinaria per risolvere le controversie tra Stati. Del resto i cupi cavalieri dell’ Apocalisse – fame, peste, guerra- sembrano essere presenze ormai “normali”, cui dobbiamo adattarci, nel XXI secolo. Magari anche solo come effetti collaterali del “progresso” , come rischio eventuale, da condividere e sopportare. Anzi per alcuni possono essere apparsi anche una “occasione” imperdibile. Come si è detto per la pandemia.
Il fatto è che la pace si costruisce nel tempo e con la pazienza. Ed è la prima cosa cui deve pensare ogni governo decente, non l’ultima o la penultima. Noi in Italia ed in Europa ci siamo assuefatti invece, per i motivi più disparati, a verificare le capacità dei governi nel confronto con le emergenze “impreviste” ( sanitarie, economiche, finanziarie ecc.) e quindi a usare come parametro la rapidità delle decisioni, non la loro saggezza. Ci siamo abituati alla mancanza del tempo. E se il tempo non c’è, nemmeno la pace ci sarà, perché non potrà risolvere le cose la trattativa, il dialogo. Ci potrà essere solo la forza.
Eppure una possibilità diversa c’è. Solo che non la vediamo più. Ce ne siamo dimenticati, anche se la avevamo sotto gli occhi. Questa possibilità si chiama Europa, o meglio, la responsabilità che potrebbe assumersi, di fronte agli eventi, l’ Unione Europea. Certo l’ UE manca di un esercito proprio. Ma è necessario un esercito, magari tecnologicamente attrezzato per costruire la pace? Dovremmo chiederci anche noi, “quante divisioni ha l’ Europa”, prima di poter valutare se essa ha le capacità per formulare e sostenere una vera politica estera?
Le vicende di un passato non molto lontano ci dicono che non è così. L’esercito potrà casomai servire solo se ci sarà una politica estera comune. Non viceversa. E una politica estera comune l’ Europa unita per un certo periodo l’ha già realizzata, anche senza esercito e senza armi, pensando proprio a sistemare le questioni dell’ est europeo ed a promuovere la pace insieme alla giustizia. Non con parole retoriche, non con le minacce ma coi fatti, senza torcere un cappello a nessuno. Ce lo siamo dimenticato. Abbiamo rimosso la storia. Abbiamo rimosso una parte della nostra memoria collettiva.
Forse, è soprattutto per la pace che ha garantito, forse, più che per la sua potenza economica, che è diventata un modello attrattivo per il resto del mondo, dopo essere stata la potenza colonizzatrice, oggetto di odio o di disprezzo. Naturalmente l’ Europa che costruiva la pace non era l’ Europa, che conosciamo oggi, ripiegata su se stessa, prima che sulla sua pandemia, sul “problema” del debito pubblico, sui suoi problemi demografici, sul problema dei migranti, sul problema del cambiamento climatico, sul problema della parità di genere e su quant’altro potremmo elencare. Era una Europa in cui il termine “politica” indicava ancora la nobile arte di progettare un futuro comune, non di “tamponare le emergenze”, o, se vogliamo la “forma alta di carità”, con cui nel confronto e nel dialogo si costruisce il bene comune. Ed il primo bene comune è la pace.
Oggi sembra incredibile dirlo. Eppure, a metà degli anni settanta del XX secolo, quella che allora si chiamava Comunità Economica Europee ( CEE) a nove Stati, riuscì a giocare un ruolo politico fondamentale nella Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa come soggetto politico autonomo ( a dispetto della auto-definizione), dando uno straordinario contributo alla produzione di uno strumento giuridico internazionale sottoscritto da tutti gli Stati europei, anzi da tutti gli Stati dell’emisfero settentrionale del mondo da Vladivostok a Vancouver . Si tratta della Conferenza apertasi a Helsinki il 3 luglio 1973 con 35 Stati ( tutti gli stati europei meno l’ Albania più USA e Canada) sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa. Una Conferenza richiesta con insistenza dall’ URSS ( che pure non aveva esitato a invadere la Cecoslovacchia nel 1968) per avere quelle garanzie sui confini orientali che non aveva mai avuto dalla fine del conflitto mondiale e per consolidare lo statu quo della divisione dell’ Europa in due blocchi di Stati. Una iniziativa mal vista dagli USA, che vi parteciparono senza lesinare poi critiche agli alleati europei, ma che non seppero vedere lontano a differenza di quanto fecero gli europei.
La CEE partecipò attivamente alla Conferenza che, dopo varie sessioni, si concluse ad Helsinki il 1 agosto 1975- rifiutando la logica conflittuale e quella della pace basata sull’ equilibrio delle forze. Si riuscì ad andare ben oltre le intenzioni della controparte. Il documento finale in effetti rafforzò da un lato la coesione diplomatica della CEE, facendone un vero soggetto di politica estera, in un certo senso autonomo rispetto agli USA, dall’altro aprì la strada alla riunificazione del continente europeo ( i “due polmoni” dell’ Europa, l’est e l’ovest) facendo dello stato di diritto un valore comune ed unificante. L’ Atto finale di Helsinki mise in movimento non eserciti e soldati, ma le società civili dell’est, a partire da Polonia e Cecoslovacchia ( qui su ispirazione di Helsinki ad esempio nacque Charta 77) , che proprio da allora iniziarono a mobilitarsi pacificamente per mettere poco alla volta in discussione i regimi comunisti , che si credevano al sicuro dietro la teoria breznieviana della “sovranità limitata”. Il mondo non si cambia invadendo gli stati, esportando la democrazia con le armi o infrangendo i trattati, ma cambiando con la pazienza e la ragione le persone ed i popoli. Ed in effetti il documento di Helsinki dette potere ai “senza potere”, senza violare alcun confine di stato. Il crollo dell’ est comunista- che nessun ”sovietologo” aveva previsto- sarebbe comunque avvenuto, ma non nelle forme pacifiche in cui esso è avvenuto.
Come era potuto succedere? Era potuto succedere solo perché dietro a quest’azione, come potremmo dire con le parole di uno dei protagonisti e promotori di quella iniziativa, c’era “un grande disegno: sostituire con una feconda cooperazione le diffidenze e le rivalità fra i popoli dell’area, fattori che furono all’origine di due guerre mondiali” ( Aldo Moro, Discorso alla XXVI Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, New York, 6 ottobre 1971 ). Questo è il “cuore mediterraneo dell’ Europa” ( Domenico Galbiati Firenze, il Mediterraneo, la pace, Politica Insieme 24 febbraio ) il “grande disegno” cui è importante legare la costruzione europea, per impostare la via d’uscita dal conflitto.
La CEE aveva negoziato con onestà e con lungimiranza con gli Stati comunisti, concedendo loro la sicurezza dei confini ed ottenendo il loro coinvolgimento nella cooperazione nel campo dei diritti. L’Atto Finale di Helsinki ribadiva il rifiuto dell’uso della forza nella risoluzione delle controversie internazionali stabilendo che gli Stati partecipanti si astengono nelle loro relazioni reciproche, nonchè nelle loro relazioni internazionali in generale, dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato… si astengono da qualsiasi atto che costituisca una minaccia di ricorso alla forza o un uso diretto o indiretto della forza contro un altro Stato partecipante24. Inoltre si prevedeva il riconoscimento reciproco da parte degli Stati firmatari dell’inviolabilità di tutte le loro frontiere, nonché quelle di tutti gli Stati in Europa, punto quest’ultimo che garantiva ai sovietici la cristallizzazione del loro dominio in Europa orientale. In questa prospettiva anche la Germania sarebbe dovuta rimanere divisa.
Ma contemporaneamente nella terza sezione del documento si stabilì solennemente che gli Stati partecipanti rispettano i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo, per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. Essi promuovono e incoraggiano l’esercizio effettivo delle libertà e dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali ed altri che derivano tutti dalla dignità inerente alla persona umana e sono essenziali al suo libero e pieno sviluppo. In questo contesto gli Stati partecipanti riconoscono e rispettano la libertà dell’individuo di professare e praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo agendo secondo i dettami della propria coscienza. ( E ancora) gli Stati partecipanti nel cui territorio esistono minoranze nazionali rispettano il diritto delle persone appartenenti a tali minoranze all’uguaglianza di fronte alla legge, offrono loro la piena possibilità di godere effettivamente dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questa è la politica che ci si è stancati di perseguire, la politica che consentiva la coesistenza pacifica .
Grazie a quel documento il 1° agosto 1975 era nata una nuova Europa, era nata anche una vera politica estera europea in embrione, ma pochi lo avevano capito, e tra quei pochi c’era Aldo Moro. E’ utile ricordare le parole significative di un uomo politico – Giulio Andreotti – che disse: a quanti gli chiedevano che significato avessero questi impegni quando Brežnev aveva riaffermato la sovranità limitata dei suoi alleati, Moro rispose: “Brežnev passerà e questi semi che noi abbiamo posto daranno il loro frutto”. La storia dette ragione a Moro. E il passato ci insegna anche oggi che COSTRUIRE LA PACE E’ COSTRUIRE L’ EUROPA. Per questo ha oggi più senso che mai manifestare , agire e operare con tutte le modalità possibili. Non dimentichiamo il monito solenne della Dichiarazione Schumam del 9 maggio 1950: “Non abbiamo fatto l’ Europa. Abbiamo avuto la guerra”.
Umberto Baldocchi