C’è qualcosa di istruttivo nei moltiplicati episodi di violenza contro infermieri, medici e responsabili di strutture sanitarie. Il fenomeno si è accentuato negli ultimi tempi, a partire dagli ospedali pubblici. È una catena di aggressività che merita la nostra attenzione: colpisce che episodi drammatici come la morte di un congiunto
trasformino rapidamente il registro del dolore e del lutto verso una violenza priva di freni, per di più contro persone che spesso lavorano in situazioni di emergenza. È cronaca nera a tutti gli effetti, e infatti richiama alla mente inchieste giornalistiche e saggi che hanno riguardato, pochi anni fa, quelle “terre di fuoco” che sono le periferie sociali di città e metropoli. Anche allora non è mancata l’attenzione di studiosi e giornalisti, che è riuscita a squarciare il velo con cui rimuoviamo tutto ciò che ci fa paura e non riusciamo facilmente a interpretare.
Quel precedente aveva fatto emergere l’ampiezza del rancore sociale e una disponibilità alla violenza abbastanza diffuse da profilare una sorta di risposta individualistica alle crisi esistenziali che punteggiano la vita. In casi come questi, che turbano la nostra inquieta coscienza, registriamo che la via di uscita è sempre personale o familiare (Sciascia ci ha insegnato che la matrice è la stessa). Del resto la sistematica liquidazione dei corpi intermedi e il declino di fiducia nei confronti della politica pone inevitabilmente il problema di una rabbia disintermediata. Sono individui che si fanno partiti: Dante direbbe “parte per sé stessi”.
Come altre emergenze, anche questa discende dalla radicale solitudine degli uomini in una società non più capace di offrirsi come sponda di superamento dell’individualismo, che dunque erompe senza vincoli e inibizioni. Episodi di questo genere non sono mai mancati, ma la differenza è che ora sono catene di eventi su cui pesa il rischio della ripetizione e dell’imitazione. Dove i sociologi più acuti vedono una società degli individui si materializza una via
d’uscita dal dolore totalmente dimentica delle specifiche e complesse competenze per affrontare patologie e interventi conseguenti, indisponibile dunque ad accettare l’insuccesso e la fallibilità connessi alle situazioni più rischiose. Non a caso il ministro Schillaci ha definito questa aberrante situazione “un problema socioculturale”.
Siamo ancora dentro la disputa populista contro élite ed esperti, ed è sconcertante rintracciare ancora una volta quanto ignoranza e negazionismi portino a ritenere che l’intervento sanitario coincida con un’assicurazione sui risultati. La stessa doverosa denuncia dei casi di malasanità non può confondersi con l’inciviltà: il sistema sanitario italiano, rispetto ad altri paesi comparabili con il nostro e nonostante la criticità delle risorse, è considerato giustamente un’eccellenza nazionale. Prevale invece il grido delle aspettative illimitate accecato rispetto alla complessità degli interventi sanitari; esso opta per espressioni di violenza e rabbia che hanno molti caratteri di imbarbarimento. E colpisce che la prevalenza di questi episodi coinvolga anzitutto gli infermieri, più facili da individuare perché rappresentano il front office naturale tra medici e utenti.
È doveroso che la risposta istituzionale e quella politica siano per una volta consonanti. Si facciano carico intanto di provvedimenti che mettano in sicurezza gli operatori, anche per evitare che i giovani si disinteressino a scegliere il
mondo della salute come ambito di formazione e professionalità.
Ma certo ci vorrà una strategia ben più articolata e completa che non escluda una campagna di opinione e di rigore capace di dimostrare quanto la violenza sia un urlo distruttivo soprattutto per chi lo lancia. Il dolore, al contrario, si elabora rientrando in sé stessi: il primo passo per restare umani.
Mario Morcellini
Pubblicato su www.formiche.it