L’esito delle prossime elezioni per la presidenza degli USA è fonte di preoccupazione in Europa perché si teme che, nel caso di una vittoria di Trump, si potrebbero modificare profondamente le relazioni euro-atlantiche.
Trump vuole una America forte, l’America first, nel senso di privilegiare gli interessi del proprio Paese (in particolare economici, commerciali e la lotta al terrorismo), ma rifiuta il ruolo americano di poliziotto del mondo e di esportatore della liberal-democrazia. Il messianesimo tipico dei democratici (per i quali un destino manifesto ha assegnato all’America il compito di guidare il mondo intero) non è mai stato pienamente condiviso dai repubblicani ed è esplicitamente respinto dalla componente trumpiana che lo ritiene troppo oneroso per le classi medie e popolari statunitensi e pericoloso per la pace.
Il timore dell’Europa (o meglio dell’attuale élite al vertice delle istituzioni comunitarie) di essere lasciata sola, trovava già alimento nella diffusa convinzione che l’interesse dell’America fosse sempre più dirottato verso l’indo-pacifico per contrastare la Cina, ritenuta la principale minaccia al suo predominio, ed oggi il timore europeo è ingigantito dall’incubo di una vittoria di Trump.
Fino a che punto sono preoccupazioni fondate?
Già alcuni anni fa, Dario Fabbri aveva scritto che, a disegnare l’immagine della potenza nordamericana e ad aver voce nella definizione della politica di sicurezza e più in generale della politica internazionale, sono prevalentemente gli apparati securitari, determinati a intervenire con decisione là dove il primato del Paese possa essere messo in pericolo. Certamente i presidenti e le maggioranze parlamentari sono in grado di incidere sulle scelte da intraprendere, ma solo fino a un certo punto perché, alla fine, quelli che contano in materia sono sempre quegli apparati interpreti degli interessi geopolitici della nazione.
Per essi, (scriveva ancora Dario Fabbri) gli USA sono e resteranno a lungo l’unica superpotenza. Pertanto, possono, anzi devono, continuare a dominare il pianeta in perfetta solitudine, senza scendere a patti con alcuno, limitandosi a contenere e/o ridimensionare le potenze regionali esistenti (Russia e Cina), e ad impedire che ovunque se ne formino altre (a partire da un’Europa politicamente unita).
Nel numero di luglio 2024 di “Domino”, rivista di geopolitica (direttore responsabile Enrico Mentana), Francesco Casarotto ci presenta il punto di vista attuale degli apparati americani in tema di Europa.
Oggi, a non credere più all’importanza strategica del vecchio continente sono gli europei, ma nessun soggetto che ambisca a diventare un impero globale può prescindere dalla porzione di terra che sta fra l’Artico e il Mediterraneo.
Per gli USA, pertanto, l’Europa continua ad essere il teatro più rilevante. È quindi imperativo strategico primario impedire che la domini una potenza altra da loro. Allo scopo, è necessario integrare il blocco continentale europeo in una struttura euroatlantica, anche perché la partecipazione europea, oltre all’apporto demografico, economico, tecnologico e militare, è essenziale per tenere in vita il concetto di Occidente, faro dell’ordine internazionale liberale, e supporto ideologico al primato americano.
Ma attenzione: il rapporto transatlantico, dipinto a casa nostra come una alleanza fra parigrado, è esplicitamente considerato dagli apparati statunitensi in termini di relazione tra centro imperiale e clientes.
Che la questione si ponga in questi termini lo confermano i dati storici.
L’America nel corso del Novecento si è impegnata in due guerre mondiali per impedire a una potenza europea (la Germania) di conquistare il predominio nel continente. In seguito, è stata protagonista della Guerra fredda (da lei vinta) per contenere e ricacciare indietro l’Unione Sovietica, una potenza euro-asiatica. A tal fine, ha dato vita alla NATO, non solo per tenere i sovietici a distanza, ma anche per ancorarsi al contesto europeo e per bloccare un eventuale revanscismo tedesco.
La fase iniziale dell’integrazione comunitaria è coincisa con l’avvio della Guerra fredda. Di conseguenza, una qualche unione, sufficientemente coesa, fra gli alleati europei era funzionale agli obiettivi americani. Occorreva che le nazioni europee fuori dall’orbita sovietica superassero i rancori lasciati dalla guerra, dando vita a forme di intesa e collaborazione, e nel contempo si riprendessero economicamente, procedendo a una rapida ricostruzione, anche per arginare la presa dei partiti comunisti sulle classi più disagiate. Un obiettivo raggiunto con successo grazie al Piano Marshall.
Quindi, da parte americana, è stato fatto buon viso ai primi passi del progetto europeo coltivato dai padri fondatori, ma ovviamente bisognava che il cammino non procedesse troppo oltre. A mettere un freno, c’è stato il primo allargamento della Comunità (fortemente voluto da Washington) con l’ingresso del Regno Unito, che ne ha mutato la natura trasformandola da progetto politico in un’area di libero scambio con obiettivi prevalentemente economici e commerciali.
Il quadro è cambiato profondamente con la scomparsa dell’Unione Sovietica. C’era il rischio che, senza la minaccia da questa rappresentata, venisse meno la ragione prima che aveva motivato la creazione della NATO. Inoltre, la pronta riunificazione della Germania suscitava preoccupazione in America e in vari Paesi europei, mentre i diffusi auspici che, con la caduta della cortina di ferro, l’Europa ritrovasse forme di proficua convivenza dall’Atlantico agli Urali metteva in allarme l’intero gruppo dirigente nordamericano. Occorreva prendere provvedimenti.
Il primo è stato rimettere in campo la minaccia da Est. Malgrado la Russia di Boris Eltsin avesse aperto le porte agli interessi occidentali e si mostrasse prona ad ogni richiesta di Washington, si è prontamente allargata la NATO ai Paesi già del patto di Varsavia e poi ai Paesi baltici già parte dell’URSS senza esplicitamente indicare da dove venissero i potenziali pericoli, ma evidentemente in chiave antirussa. Nel contempo, sono stati incoraggiati, e talora esplicitamente sostenuti con ingenti finanziamenti e altri mezzi, partiti e movimenti nazionalisti antirussi nei Paesi dell’ex URSS (Georgia, Ucraina, Moldova) e in territori della stessa Federazione russa (Cecenia).
Il secondo passo è consistito nell’allargamento a Est della UE a quei Paesi già del patto di Varsavia che, per ragioni storiche e per la recente acquisizione di una (per quanto illusoria) indipendenza, sono del tutto indisponibili a cedere sovranità alla Unione e ad intraprendere un reale percorso di unità politica europea. Si è trattato di un atto fortemente voluto da Washington, quasi imposto ad una UE in cui non mancavano dubbi ed esitazioni, essendo ritenuti tali soggetti non ancora maturi per essere accolti a pieno titolo.
Washington (scrive Casarotto) punta sul rafforzamento dei sopraddetti Paesi, mentre nutre diffidenza nei confronti di quelli della vecchia Europa ritenuti inaffidabili, e definiti “scrocconi” (da Obama). In particolare Francia e Germania restano Paesi sorvegliati speciali, potenzialmente pericolosi poiché, per ragioni storiche ed eredità culturali, non hanno abbandonato l’idea di una Europa autonoma e indipendente dalla controparte americana. Ma, sebbene detta idea sia maggiormente radicata in Francia, Parigi preoccupa meno perché una volontà di potenza, senza mezzi effettivi, è destinata a rimanere sulla carta. È la Germania a rappresentare da sempre una ossessione per gli apparati a stelle e strisce per il timore che, in un domani, la sua rilevanza geoeconomica possa tramutarsi in protagonismo a livello geopolitico.
Per Washington, il valore tattico dei soci orientali si configura in un duplice compito: tenere l’orso russo a distanza e disporre di un cuneo fra Russia e Germania, sapendo che i Paesi del Trimarium non mancheranno di dare pieno sostegno ai suoi obiettivi in caso di necessità (ad esempio, un ritorno di fiamma tra Berlino e Mosca).
Se fino a ieri l’attenzione americana sembrava spostata sull’indopacifico e sulla Cina, oggi, la guerra in Ucraina ha reso evidente che l’Europa rimane al centro della competizione tra potenze.
Certo il maggiore sfidante è, e resterà, la Repubblica Popolare (scrive ancora Casarotto), ma, per rimanere il numero uno, Washington non può limitarsi a contenere Pechino, deve conservare la preminenza in Europa.
Tornando ai quesiti iniziali, il timore degli attuali gruppi dirigenti europei di essere lasciati soli pare infondato. Quindi anche gli interrogativi su che cosa fare di fronte ad una vittoria di Trump vanno messi da parte. Lo ha compreso Giorgia Meloni dicendo che in ogni caso (ovvero chiunque sarà presidente) l’Italia sarà in sintonia con i percorsi proposti da Washington. Non credo che gli altri dirigenti europei potranno comportarsi diversamente.
Che cosa potrà accadere quindi sui due fronti più caldi da cui possono nascere sviluppi preoccupanti per la pace mondiale?
In Medio Oriente, Israele rappresenta un riferimento indispensabile per gli USA. I dirigenti israeliani (non solo Netanyahu e la destra religiosa), essendone pienamente consapevoli, continueranno a tirare la corda per conseguire i propri obiettivi espansionistici (l’inclusione nei propri confini dell’intera Terra Santa), e uno Stato palestinese resterà ancora a lungo nel limbo.
I possibili sviluppi della situazione in Ucraina non dipenderanno da un eventuale successo di Trump. Un mutamento di rotta, teso a realizzare una pace di compromesso con la Russia, rispetto al sostegno a Kiev fino alla vittoria, potrà aversi solo perché a Washington, negli apparati securitari, sta crescendo la preoccupazione che, continuando sulla strada attuale, Mosca finisca totalmente nelle braccia di Pechino, non certo un bene per gli interessi statunitensi.
Nel complesso, un quadro abbastanza desolante per chi ancora spera che, nella classe dirigente europea, ci sia rimasto qualcuno, con un residuo di dignità, in grado di fare qualche cosa per portare un continente dalla grande storia fuori da una condizione satellitare.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su www.associazione popolari.it