Quella della Rai è una vera e propria emergenza nazionale. E non solo per la perdita di pluralismo e di qualità dei suoi telegiornali che hanno nuovi concorrenti in aggiunta ai vecchi. Solo il tempo ci dirà delle conseguenze sugli ascolti a seguito di una sguaiata “militarizzazione” messa in atto dalla destra. E c’è proprio da riflettere sul fatto che il pluralismo del passato, anche quello della cosiddetta “lottizzazione” avviata con la riforma di metà anni ’70, richiedeva un contemporaneo alto tasso di qualità.

Non era certo frutto del caso se l’accordo trovato ad un certo punto, dopo la nascita delle tv commerciali, in realtà le sole tv di Silvio Berlusconi, fissava un limite alla pubblicità per la Rai, che altrimenti avrebbe raccolto molto ma molto di più sul mercato, e cui veniva destinato il canone.

Tutti volevano essere sullo schermo del Servizio pubblico. Capace a lungo, sia con i telegiornali, in particolare il TG1, sia con l’intrattenimento e le fiction, di offrire il meglio anche in termini di qualità. Ciò questo spiega perché la Rai, fino a quando è rimasta tale, non è mai stata superata in termini di ascolto e di gradimento.

Nel frattempo, l’Ente radiotelevisivo pubblico è diventata la prima industria culturale italiana. Forte di competenze e di professionalità. Per lunghi decenni, così, la “lottizzazione” ha richiesto, appunto, la presenza di professionisti comunque competenti. Le indicazioni dei partiti, ma non solo, c’erano anche quelle di Confindustria, dei sindacati, degli ambienti religiosi e culturali, non potevano non tenere conto delle capacità dei prescelti. Perché per loro voleva dire essere in grado di reggere ad una vera e propria competizione: interna, per ciò che riguardava i colleghi; esterna, perché c’è sempre il giudizio degli spettatori. Anche allora, per carità, vi erano fenomeni di “amichettismo”, di favoritismi e, persino, di nepotismo. Ma i servizi più importanti erano affidati ai migliori giornalisti. La produzione di serie tv, di spettacoli o di rubriche di approfondimento, erano messe nelle mani dei registi, conduttori, produttori e tecnici in grado di saper far “girare la macchina” e rispondere, così, alle attese degli spettatori e degli inserzionisti.

La politica, gli interessi esteri hanno sempre pesato in Rai che, nel bene e nel male, rappresentava il Paese, nella sua globalita’ tutto il Paese. E in qualche modo, politica ed interessi esterni, volenti o nolenti, erano costretti a rispettare le dinamiche interne dell’Ente radio televisivo. C’è stata la resistenza a quanti hanno sempre provato a cambiare la Rai, se non addirittura a distruggerla, come emerso in maniera evidente una volta disvelati i piani della P2 di Licio Gelli.

Poi, con la fine di un certo tipo di politica, che alla “qualità” della Rai teneva, è stato una progressiva perdita di tensione e di rispetto per quel margine di autogestione assicurato a Viale Mazzini e giù giù per lì rami del grande albero della Rai.

Potremo dire che la Rai è sempre stato lo specchio del Paese. Talvolta al rimorchio, talvolta all’avanguardia. E così non poteva non risentire anche del passaggio dalla cosiddetta Prima repubblica alla Seconda. Ma in qualche modo, il pluralismo non è stato mai archiviato completamente pure dopo l’imporsi del bipolarismo. Anche se non sono mancati gli “editti bulgari” di Berlusconi o momenti in cui altri colpi al pluralismo sono arrivati anche da sinistra.

È quello che oggi fa parlare la destra di egemonia culturale e, così, facendo si confondono soldi e potere con il pensiero e la capacità di diffonderlo.

La situazione attuale ci dice che sono stati superati gli argini e che si sta ponendo il problema di come salvare la Rai prima che sia troppo tardi. E che il … cavallo non muoia del tutto

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