Ci sono argomenti difficili da affrontare. Qualcuno direbbe che è inopportuno o imprudente solo accennarne. Ma la chiarezza è indispensabile proprio quando sono in discussione temi delicati, e quindi non è il caso di preoccuparsi delle critiche e dei possibili ostracismi.
Ho già avuto modo di criticare l’uso improprio del termine “nazionalismo” per designare il cosiddetto “sovranismo”. Ora devo rilevare che c’è da tempo un uso strumentale anche della parola “razzismo” impiegata per colpire con un marchio infamante tutto quanto non sia politicamente corretto. Ma il razzismo è un’altra cosa, a causa del quale hanno sofferto milioni di esseri umani: genocidi, schiavitù, pulizie etniche, deportazioni e violenze. Il razzismo ha alla base un’ideologia caratterizzata da una visione gerarchica del mondo che instaura una graduatoria di natura biologica fra gli esseri umani e i popoli.
Ricordiamoci che la conflittualità interetnica ha contrassegnato la storia dell’umanità fin dal paleolitico, quando le bande di cacciatori-raccoglitori difendevano con le unghie e con i denti il proprio territorio. Così, da sempre, conflitti sono avvenuti e avvengono dove gruppi etnici entrano in forte contrasto per il possesso del territorio in cui si trovano a convivere e delle sue risorse. Il Vecchio Testamento ce ne propone molti esempi, e ancora oggi le cose vanno allo stesso modo in Terra Santa. In tutto ciò, non c’è nulla di ideologico.
Dove e quando nasce l’ideologia razzista?
Secondo Domenico Losurdo, filosofo “marxista controcorrente”, il razzismo ideologico entra in scena solo con le grandi scoperte geografiche che mostrarono agli europei l’esistenza di terre ricche di risorse, talune idonee ad essere colonizzate, tutte ad essere predate e sfruttate. Tali terre erano abitate da popolazioni tecnologicamente rimaste indietro rispetto agli europei e quindi incapaci di opporsi ad essi. Inoltre, gli stessi indigeni potevano essere sfruttati come mano d’opera schiavizzata o come merce. Tuttavia l’Europa era cristiana, praticava una religione che predica la fratellanza fra tutti gli uomini ed esige che questi siano rispettati. La Chiesa, in coerenza con il messaggio cristiano, si proponeva di evangelizzare queste nuove genti, ma i detentori del potere politico ed economico ambivano impadronirsi delle ricchezze scoperte. Come potevano fare quindi per avere mano libera nelle nuove terre e con i loro abitanti senza entrare in contraddizione con la fede?
La soluzione è stata presto trovata: bastava affermare che gli indigeni non sono esseri umani, o non lo sono a pieno titolo, e la strada era aperta. Ne sono derivati i genocidi dei popoli che abitavano terre ritenute idonee all’insediamento di coloni europei, e la schiavitù (cosa molto diversa dalla servitù della gleba vigente in Europa) con l’impiego di esseri umani ridotti al rango di bestiame nei campi delle zone tropicali e nelle miniere.
Tale ideologia ha giustificato anche il colonialismo, vecchio e nuovo. Quel marchio di inferiorità nato in tali circostanze e mantenuto fino a ieri (ancora dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto, in Australia gli aborigeni sono stati oggetto di un genocidio) permane in parte ancora oggi (vedi quanto accade in Brasile nei confronti degli indios amazzonici) quando non ci sono, o non dovrebbero più esserci, le condizioni che l’avevano determinato.
Oggi, il termine razzismo, associato o sovrapposto a quello di xenofobia, viene utilizzato per contrassegnare negativamente il comunitarismo, l’antiglobalismo, la difesa delle identità nazionali o culturali. Ma la stessa xenofobia (che non significa odio verso gli stranieri, ma paura nei loro confronti) è essenzialmente un atteggiamento difensivo di chi teme di essere fagocitato da quanto sente estraneo. Ricordo in proposito quanto ha scritto Claude Lévi-Strauss, in Lo sguardo da lontano, con argomentazioni riprese da Giovanni Sartori e da Ernesto Galli della Loggia. Scrive il filosofo e antropologo che non si possono accusare di razzismo le culture che la fedeltà a determinati valori rende parzialmente o totalmente chiuse rispetto a quelli praticati da altri. Una certa incomunicabilità, se non autorizza certo a opprimere o a distruggere valori altrui, può essere il prezzo da pagare per conservare ciascuna famiglia spirituale, e mantenere quella pluralità culturale che rappresenta una grande ricchezza per l’umanità.
Certamente, se le paure sono immotivate o irrazionali, la xenofobia può scivolare verso atteggiamenti assimilabili al razzismo. Come ha scritto Galli della Loggia, la legittima preoccupazione per la perdita dell’identità e del patrimonio culturale del proprio Paese diventa simile al razzismo, non già quando si chiede di porre limiti all’immigrazione, bensì quando si adottano comportamenti e s’invocano provvedimenti a qualunque titolo discriminatori od oppressivi nei confronti di chi è già tra di noi, in specie se lo è da tempo ed è entrato legalmente nel Paese.
Nel razzismo viene compreso anche l’antisemitismo, ancorché la sua natura sia molto diversa da quella che connota l’ideologia precedentemente descritta. Infatti nessuno (neanche il più fanatico nazista) potrebbe dire che gli ebrei sono inferiori ai cosiddetti ariani (ariano o indoeuropeo e semita sono termini che hanno senso solo se utilizzati in riferimento alle caratteristiche delle lingue): pochi popoli infatti hanno fornito una quantità di uomini di genio, di scienziati, di artisti pari al popolo ebraico. Se mai gli ebrei sono stati definiti malvagi, pericolosi o altro: vedi la rappresentazione fattane nei Protocolli dei savi anziani di Sion, un documento ad essi falsamente attribuito, redatto dalla polizia zarista, ripreso e largamente diffuso in America e nel mondo anglofono da Henry Ford (unitamente a un libello di suo pugno), e fatto proprio dai nazisti a sostegno delle loro criminali farneticazioni. Allora dove nasce l’antisemitismo?
All’origine, c’è lo storico pregiudizio cristiano che ha qualificato gli ebrei come “deicidi”, introducendo nei loro confronti una discriminazione di ordine religioso (poiché la “macchia si sarebbe estinta con la conversione al cristianesimo). Tuttavia, il pregiudizio è andato oltre la differenza di religione: infatti nei secoli XV e XVI, in Spagna e Portogallo, non bastava la conversione al cristianesimo per rendere i “marrani” (gli ebrei convertiti) dei soggetti parificati agli spagnoli e portoghesi cristiani: veniva loro imputato di non possedere la limpieza de sangre. Di qui un primo passo verso la discriminazione razziale.
Contro gli ebrei, c’era ostilità per le attività finanziarie (il prestito di denaro) imputate a un qual certo numero di essi. Si dimentica spesso che in passato a spingerli ad operare in tale settore è stato il divieto loro imposto di svolgere molte altre attività sicché il prestito di denaro è rimasto uno dei pochi campi liberi, tenuto anche conto degli ostacoli di ordine religioso posti in materia dalle Chiese ai propri fedeli.
Gli ebrei, inoltre, vivevano in mezzo agli altri popoli, tenendosene separati anche perché ghettizzati, e soprattutto conservando una propria forte identità, un fatto visto negativamente da molti e in specie dal potere politico, particolarmente da quando si sono affermati i movimenti nazionali, spesso degenerati in forme di nazionalismo aggressivo.
Per le motivazioni riportate, gli ebrei sono risultati, nel corso della storia, soggetti cui era facile assegnare il ruolo del “capro espiatorio”, addossando ad essi ogni colpa e responsabilità per tutto ciò che nella società non va bene o non nella direzione voluta da chi è al potere.
Oggi, restano ancora in vita diffuse forme di antisemitismo riconducibili a vecchi e nuovi pregiudizi. In argomento, ha scritto Vasilij Grossman (in Vita e destino): “L’antisemitismo non è mai lo scopo, è sempre e soltanto il mezzo, la misura di contraddizioni senza via di uscita. L’antisemitismo è lo specchio dei difetti del singolo, della società civile e del sistema statale. Dimmi di che cosa accusi gli ebrei e ti dirò quali colpe hai”.
Un altro fattore negativo è tuttavia entrato in gioco: la non risolta questione palestinese e il sempre più aspro e sanguinoso contrasto fra arabi e israeliani dove allo strapotere militare di questi ultimi si contrappone l’arma degli attentati e del “terrorismo” da parte palestinese.
Senza entrare nella complessa situazione della Terra Santa, credo sia necessario, a fronte di ciò che sta accadendo, porre alcuni paletti.
Da un canto, è inammissibile imputare ad ogni ebreo che viva in qualunque parte del mondo responsabilità per quanto avviene in Terra Santa ad opera israeliana, e quindi giustificare gesti violenti nei suoi confronti e/o verso la sua comunità. Altrettanto, sono sempre duramente condannabili e da perseguire, comunque siano motivati in questo clima di dura contrapposizioni fra palestinesi e israeliani, gli atti ostili verso gli ebrei, le scritte antisemite, l’esaltazione dei crimini nazisti, e la distruzione di documenti che ne ricordino le vittime (come è accaduto con le pietre di inciampo).
Dall’altro lato, va respinta con fermezza l’utilizzazione del termine “antisemita” nei confronti di tutti coloro che denunciano o condannano le decennali dure e impietose politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese. Inoltre, usare strumentalmente l’accusa di “antisemitismo” per mettere a tacere le critiche alla condotta israeliana è una grave mancanza di rispetto verso tutti quanti sono stati fatti bersaglio del vero antisemitismo.
Sento dire continuamente che Israele ha il diritto di difendersi. Giusto, ma sarebbe bene precisare entro quali confini, visti i territori che da decenni occupa in barba al sempre invocato (per altri casi) diritto internazionale. Non viene invece mai considerato che anche i palestinesi hanno il pieno diritto di lottare per una propria dignitosa, libera e sostenibile esistenza in uno spazio di misura adeguata in quella Terra Santa in cui vivono da generazioni. Ricordiamoci che non ci sono popoli di serie A e popoli di serie B.
Ritornando al discorso generale sul razzismo, bisogna riconoscere che ci troviamo di fronte a fenomeni di natura molto diversa inclusi sotto questo termine. È quindi importante non fare di tutta l’erba un fascio, perché i problemi che ne nascono possono trovare una soluzione solo quando vengono analizzati correttamente, utilizzando concetti e vocaboli appropriati. Vale per essi quanto accade in campo medico ove ci sono patologie che presentano sintomatologie similari, ma le diagnosi vanno tenute distinte perché tali malattie richiedono trattamenti differenti.
Oggi, è invece una caratteristica del politicamente corretto l’impiego di parole e concetti non in rapporto al loro significato, ma in funzione dell’esigenza di delegittimare l’avversario e di rifiutare un confronto fondato su argomentazioni razionali.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)