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Referendum sulla cittadinanza: qualche lecito dubbio – di Andrea Griseri

Provo a mettere in ordine alcune considerazioni che il successo ottenuto dalla raccolta di firme per il referendum sulla cittadinanza degli stranieri ha suscitato.

L’Italia è un paese che invecchia, le culle sono vuote, ha bisogno di forze fresche e giovani per alimentare il mercato del lavoro, allargare la platea dei consumatori, sostenere il gettito fiscale e il sistema pensionistico. È innegabile. La pressione migratoria massiccia e impetuosa che spinge da sud e da est potrà, si dice, offrire al Paese le risorse umane di cui ha bisogno. Per questo motivo l’accoglienza nei confronti degli stranieri che sbarcano sulle nostre coste non è soltanto un dovere morale ma anche un ottimo affare.

Ma possiamo risolvere in prospettiva i problemi nostri e degli stranieri limitandoci a organizzare con la massima efficienza e la massima umanità la mera fase dell’accoglienza? Si tratta del primissimo miglio dell’intera questione migratoria. Le persone che entrano nel territorio italiano per rimanervi (non dimentichiamo comunque che per molti migranti l’Italia è un luogo di transito desiderando essi raggiungere i Paesi del Nord Europa dove è più radicata la presenza di comunità affini per provenienza e cultura) superata la fase della prima accoglienza dovranno integrarsi nel tessuto sociale della loro nuova realtà. Soltanto attraverso un’effettiva integrazione gli immigrati potranno fornire il contributo atteso alla prosperità e allo sviluppo del nostro Paese. È l’aspetto cruciale della questione migratoria e non si accontenta di soluzioni facili e sbrigative.

Premessa di una buona integrazione è innanzitutto il rispetto di precisi paradigmi quantitativi e qualitativi. Esiste un limite fisiologico al numero di immigrati che è realisticamente possibile includere nei meccanismi di assimilazione; inoltre gli immigrati devono possedere caratteristiche personali tali da renderli aperti e disponibili a entrare in tali meccanismi. A cominciare dalla propensione a rispettare quei superiori principi di legalità che tutti tutelano, la comunità nazionale tradizionalmente radicata sul territorio e le comunità delle persone che hanno ricevuto accoglienza, stranieri e autoctoni. Estremisti religiosi e soggetti devianti non potranno mai seguire un proficuo percorso di integrazione e difficilmente diverranno, per usare un termine abusato, “risorse”.

Lo sbarco disordinato, estraneo alle più embrionali forme di programmazione, certamente non aiuta la preselezione dei migranti; i meccanismi in larga misura inesplorati che inducono tante persone ad abbandonare il proprio Paese di origine (il negletto “diritto a non emigrare”) sembrano un’estrema declinazione del neoliberismo selvaggio che ha attraversato gli spazi globali negli ultimi decenni, quella dinamica (s)regolatrice di scambi commerciali e finanziari che oggi insiste e incide sulla carne viva delle persone. Attori di questo commercio sono non a caso congreghe di trafficanti mossi dagli spiriti animali tipici di un capitalismo aurorale. Il mancato rispetto di un ragionevole coefficiente quanti-qualitativo rischia di generare sacche di emarginazione, degrado dei territori e conseguenti reazioni di rifiuto e persino di razzismo: il terreno di coltura ideale per il populismo delle destre radicali.

Poco fa ho utilizzato – maliziosamente? – un termine inappropriato, assimilazione: l’integrazione non si deve confondere con l’assimilazione, le culture originarie degli stranieri non sono vuoti a perdere ma interloquiscono dialetticamente con quelle “autoctone”; da questo scambio fecondo nasce la ricchezza del multiculturalismo, che tuttavia deve essere costruito con pazienza e attenzione, altrimenti rinascono le incomprensioni e le tensioni razziali. Non dobbiamo farci illusioni sulla natura umana: la politica deve realisticamente essere consapevole di quanto sia difficile comporre in un mosaico armonico tante diverse identità. Il processo di integrazione ci appare dunque come l’impegno più esigente, sfidante (come si direbbe nell’idioma manageriale) e indispensabile per giungere a una società ricca nella diversità, più giovane e più prospera: il migliore investimento possibile.

La principale condizione per aprire la strada all’integrazione è il lavoro. Che fare per creare opportunità di lavoro a tutti, italiani e stranieri? Non conoscendo a priori il bagaglio di competenze che lo straniero reca con sé (dovremmo almeno saperlo degli italiani) occorre oltretutto calibrare percorsi formativi che abilitino le persone a trovare spazio in un ambiente tecnologico e organizzativo in rapida trasformazione. La grande incompiuta italiana nel corso degli ultimi decenni è, purtroppo, una politica industriale seria, organica, lungimirante. Il boom economico che aveva creato così tanti posti di lavoro era stato il frutto – pur certamente in un contesto internazionale favorevole (la ricostruzione post bellica, gli effetti del piano Marshall) – della stabilità politica e di una classe dirigente all’altezza, che aveva saputo fare una robusta politica industriale: ingredienti drammaticamente assenti oggi (ieri avevamo Fanfani, Moro, Mattei, Olivetti, Di Vittorio, Pastore), e la prospettiva di percorsi di integrazione virtuosi ne è inficiata. Naturalmente i meccanismi di incontro fra domanda e offerta dovranno essere costantemente verificati e migliorati (rinvio all’articolo di Natale Forlani – CLICCA QUI).

Finalmente si sente citare una seconda condizione essenziale per includere in modo effettivo gli stranieri nella società: la cultura e la scuola (che ne è il presupposto). Ma in quali condizioni si trova la nostra scuola, eterna cenerentola buona per fare cassa a ogni tiratina d’orecchie da parte europea in fatto di bilancio? Siamo proprio sicuri che 5 anni di scuola elementare siano sufficienti (qualche buontempone ha proposto addirittura di computare gli anni della scuola materna!) per fornire agli stranieri quel corredo di conoscenze e valori indispensabili per essere cittadini italiani?

Lasciamo andare le oziose diatribe sul requisito costituito dal numero degli anni di schola richiesti: quale la “qualità” di questi anni di apprendimento? La scuola, nonostante l’impegno lodevole profuso da tantissimi docenti, spesso non è in grado neppure di costruire la piena cittadinanza di italiani che sono tali per ius sanguinis.

Ecco quindi un’altra precondizione per offrire agli stranieri un percorso rispettoso sia del bene loro promesso, quella cittadinanza che è il tesoro più prezioso che uno Stato possa donare a chicchessia, sia della loro stessa dignità. Lavoro e scuola sono due snodi cruciali nelle dinamiche di una moderna democrazia e devono essere, ripeto, oggetto di investimenti, in senso non solo economico ma morale e civile, seri e credibili: questo si deve fare per dissodare il terreno su cui potranno fruttuosamente germogliare le nuove cittadinanze.

Che dire quindi della proposta di concedere la cittadinanza dopo 5 anni soltanto di permanenza sul territorio nazionale? A un esame superficiale pare animata da un trasporto umanitario encomiabile. Ma sorge qualche lecito dubbio.

Non sarà che certa politica s’illude di risolvere la questione migratoria con una semplice sforbiciatina, eludendo l’impegno gravoso di costruire le condizioni per le quali i nuovi cittadini possono davvero dirsi tali? Una manifestazione di faciloneria, di mancanza di responsabilità, di fiducia illimitata nel potere della burocrazia? La cittadinanza, quel bene prezioso ed esclusivo, che dovrebbe essere il punto di arrivo di un percorso faticoso e condiviso, assegnata d’ufficio, quasi per automatismo? Non è un modo deprecabile di sottovalutare l’aspirazione e il diritto dei migranti a essere accompagnati nel percorso che li condurrà a divenire componenti attive della società e dell’economia? Più il percorso di integrazione è serio ed esigente, meno lo straniero si sentirà abbandonato dalle istituzioni. Un iter che a mio modo di vedere potrebbe concludersi con una vera valutazione di idoneità non con un arido adempimento burocratico. Cinque anni paiono pochi ma potrebbero addirittura essere ridotti qualora si constati che i requisiti sono stati raggiunti in un tempo inferiore: ma ordinariamente un percorso serio dovrebbe verosimilmente svilupparsi su un arco temporale più ampio.

Lo so, chi semina scomodi interrogativi non risulta troppo simpatico: ma meglio la pratica del dubbio metodico che gli entusiasmi vagamente demagogici spuntati come funghi nelle esternazioni di persone solitamente problematiche e inclini all’approfondimento. Che questioni epocali come la questione migratoria siano pretesto della polemica spicciola fra maggioranza e opposizione conferma la qualità, bassa, del teatrino della politica nostrano. Una cosa mi pare di poter dire: se perderà il referendum (qualora si faccia ovviamente) il centrosinistra avrà fatto del male a se stesso, se lo vincesse avrà fatto del male al Paese. E, paradossalmente, ai migranti.

Andrea Griseri

P.S. Oltre a lavoro e cultura sarebbe bello da parte nostra offrire ai nuovi cittadini una democrazia compiuta, con un Parlamento composto da eletti e non da nominati. Purtroppo i media main stream tanto hanno dato risalto a codesto referendum sulla cittadinanza quanto hanno oscurato quello sul sistema elettorale.

Pubblicato su www.associazionepopolari.it

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