È come se ci fosse qualcosa di simbolico nella data del 3 giugno di quest’anno che segue immediatamente la Festa della Repubblica e, con la caduta del divieto ad uscire dal confine della propria Regione, di fatto restituisce l’Italia agli italiani. Ed è forse il momento di chiedersi se, fino a che punto, in che modo gli italiani amino davvero il loro Paese. Per amarlo bisogna conoscerlo, riconoscerne quella vocazione universale che la storia gli ha consegnato.
La stessa geologia se potesse insegnare qualcosa alla politica, sarebbe lì a testimoniare che il Mediterraneo e la nostra penisola sono il punto in cui si incontrano, frammentando l’una contro l’altra i rispettivi margini, la placca europea e quella africana, cosicché l’ Italia è una sorta di ultimo lembo di terra d’ Africa che si conficca a cuneo in quel grande promontorio estremo della vasta piattaforma euro-asiatica che chiamiamo, appunto, Europa.
Accanto alla “geografia fisica”, è soprattutto la “geografia politica” – secondo la classica distinzione che ci hanno insegnato alle scuole elementari nelle cui aule era documentata dalle grandi carte appese ai muri – è la memoria storica consegnata alle pietre, all’impianto urbanistico delle grandi città d’arte, ma non meno dei tanti borghi minori e sperduti, a dar conto del nostro Paese come luogo di plurimillenario incontro, di scontro, di reciproca assimilazione di tante culture. In fondo, non riflettiamo abbastanza sul fatto che molti fattori cui facciamo risalire, ad esempio, il tardivo processo, rispetto ad altri Paesi, di unità nazionale – e gli elementi di ritardo storico e di debolezza che ne conseguono tuttora, per certi aspetti – sono gli stessi che, in un’altra ottica, danno ragione della straordinaria ricchezza della nostra cultura e dello stesso carattere degli italiani.
La stessa stupefacente prevalenza del nostro patrimonio culturale ed artistico-monumentale , rispetto al resto del mondo intero, sta a segnalare la vocazione universale di un popolo nato e vissuto, in ogni sua componente sociale, non solo a livello delle cosiddette “classi colte”, avendo la bellezza tutti i giorni negli occhi, come compagna di strada su ogni percorso. Non succede a caso che il “bello” sia il marchio, il patrimonio diffuso in mille e mille produzioni artigianali ed industriali del nostro Paese ed, infine, comunque confezionato, senza escludere la gastronomia, l’autentico “made in Italy” più richiesto ovunque nel mondo.
Succede perché l’armonia, il senso delle proporzioni, la prospettiva ed il colore, la simmetria, la musicalità che si distende nella pausa di silenzio tra una nota e l’altra, quel “sapore” indecifrabile delle cose “belle” che parlano da sole, sono entrate a fondo nel carattere degli italiani, lo hanno modellato più di quanto noi stessi, stando dentro questo processo, possiamo comprendere. Certo, questo sorprendente Paese lo abbiamo sciupato ed ora dobbiamo porvi rimedio. Una nuova concezione dell’ambiente fisico e dell’ambiente antropizzato deve diventare occasione e strumento di una coscienza nazionale più forte, coesa ed orgogliosa, consapevole del fatto che un Paese come il nostro non può misurare il proprio modello di sviluppo solo attorno a valori economici e produttivi, non può prescindere da quei valori immateriali della cultura e dello spirito che sostengono la crescita umana, morale e civile di un popolo.
Nelle scorse settimane, abbiamo dato una grande, forse inaspettata prova di compostezza, ispirata – come ha documentato da Milano, la Professoressa Delle Fave, sulla scorta delle sue ricerche sulla resilienza, nella recente diretta Facebook di Politica Insieme ( CLICCA QUI )- non tanto al timore per sé, quanto alla sollecitudine dei figli nei confronti dei genitori o dei nonni, alla premura di non essere, sia pure inconsapevolmente, occasione di diffusione del contagio. Nulla a che vedere con quella seminagione del sospetto e del rancore, del pregiudizio etnico e dell’ostilità, della chiusura accidiosa nel proprio confine, nell’orto di casa, cui si volevano addestrare gli italiani, quasi a volerne mutare il carattere di fondo.
Eppure, siamo così spesso scontenti di noi stessi, critici e perfino ingenerosi da suscitare l’impressione che, una generazione dopo l’altra, di volta in volta, non ci sentiamo all’altezza della nostra storia. Uno strano sentimento che si rovescia nel suo contrario, un po’ come succede a quei figli che, schiacciati dalla esondazione della personalità del padre, non diventano mai del tutto adulti e spesso compensano il sentimento della loro insufficienza rifugiandosi nel limbo di una sottile e struggente auto-ironia. Un orgoglio che ha a che vedere con le conquiste sociali del popolo italiano, con i valori del lavoro, della solidarietà, della pace consacrati a livello costituzionale. Nulla da spartire con la retorica di una nazionalismo becero e di un sovranismo che è addirittura antitetico alla “cifra” profonda del nostro temperamento. Ne’ può amare l’Italia che ne ha predicato, per decenni, la dissoluzione e la riscopre strumentalmente, sulla scorta di un mero interesse elettorale e di parte.
C’è, infine, un altro modo – ma bisognerà parlarne in altra occasione – per “restituire l’Italia agli italiani”: adottare finalmente una legge elettorale proporzionale che li liberi dai lacci e lacciuoli con cui, in varie forme, da trent’anni a questa parte si è cercato di preordinare ad arte la sua libera espressione di voto.
Domenico Galbiati